Suaad, prigioniera palestinese
Dai Tribunali Internazionali ai lettori, una testimonianza per l’umanità
di Giulia Bertotto per L’Antidiplomatico
“Il racconto di Suaad. Prigioniera palestinese” di Suaad Genem, (Edizioni Q 2024) è la testimonianza vivida e diretta del suo secondo periodo di detenzione nelle carceri israeliane, nel 1983 come prigioniera politica.
Il racconto, feroce e dolcissimo, si sviluppa attraverso oggetti che diventano intense metafore: la resistenza della macchia d’olio nel mare, la bicicletta comprata in Italia da regalare al fratello, per la scuola e la spesa, i libri e gli ortaggi, l’istruzione e il lavoro. E ancora i libri sequestrati e poi lanciati e calpestati “come uccelli morti” dai secondini, il gas giallo che brucia la pelle ed escoria le mucose, sostanze bandite dalla Quarta Convenzione di Ginevra e altre convenzioni delle Nazioni Unite (che Israele non ha mai firmato), ma che nelle carceri israeliane si usa per asfissiare i prigionieri politici. Le onnipresenti sbarre da cui trapela l’albicocco, la gatta e la luna “lasciando all’universo la possibilità di appropriarsi del suo posto dentro di noi”, il tintinnio delle chiavi, le innumerevoli chiavi e cancelli, aperti indugiando dalle guardie carcerarie proprio per sottrarre alle detenute i minuti preziosi e vitali dell’ora d’aria. La storia di Suaad è straziante ma senza morbosità, è carica di dignità, non si abbandona alla disperazione e il suo motto incrollabile è “meglio la morte dell’umiliazione”.
VESSAZIONI E VISIONI: I CONTRASTI DEL CARCERE
Già dal momento dell’arresto realtà e immaginazione della protagonista avvicendano contrasti stridenti, come quelli di un mistico tra cilicio e visioni beate, carne bruciata e sensazioni liete e piene di vita: “mi mettono le manette ai polsi; avverto il freddo del metallo ma anche il vento del mare che mi schiaffeggia la faccia”[1]. Odore fetente di urina e sangue, profumo di martirio e liberazione.
Nel carcere si perde la cognizione del tempo, ma anche dello spazio, che si estende angusto dalla parete al water, le cui acque fetide arrivano fino alle caviglie. Ogni elemento si estremizza, il freddo e il caldo diventano amici e nemici: stordiscono il getto gelido e bollente sadicamente alternati dai carcerieri. Giornate intere trascorrono in piedi sotto al sole con un cappuccio soffocante, il cibo marcio viene ingoiato tra i conati.
Suaad si ripete che deve stare calma, evitare la paranoia, e che è figlia di sua madre e suo padre, un’informazione all’apparenza ovvia che serve a non disperare nell’assurdo e che contiene tutto il significato dell’appartenenza, delle radici, dell’identità. I ricordi sono un antidoto al presente intollerabile, l’energia interiore è più ardente del bruciore della pelle. Tra le insidie della quotidianità carceraria ci sono anche gli “uccellini”, le spie. Infatti in una situazione così spietata anche una lieve gentilezza, la minima confidenza, qualsiasi gesto o espressione del viso che non trasmetta ostilità sembra un miraggio, ma può essere una trappola.
“Cerco di stare con me stessa” scrive la donna; la tortura impone di uscire dal corpo per non lasciarsi andare alla morte e al contempo non impazzire dal dolore: così Suaad scrive “raccolgo i brandelli di me stessa e volo” scoprendo una dimensione senza estensione fisica che nessuna molestia o tormento fisico può violare. A tratti il suo è un racconto scarno, “telegrammatico”, improvvisamente alternato a memorie d’infanzia, fantasie floreali e lussureggianti, visioni barocche, uscite dal corpo dalle tinte estatiche:
Mentre viene minacciata di stupro, umiliata con crudeli volgarità, picchiata e bendata, viaggia dentro e oltre se stessa: “il dolore mi riporta fuori dalla cella verso i vigneti e alla spiaggia di Tantura; l’acqua del mare è tiepida e limpida, mi rilasso; le pieghe delle onde mi avvolgono con dolcezza; mi lavo la faccia, mi distendo sull’acqua perdendomi tra le onde. Vedo Gesù, figlio di Maria, imbrattato del proprio sangue, i chiodi di Roma ancora piantati nelle mani; sulle labbra ha il disegno di un sorriso”.
Una sorta di tensione mistica si apre contro l’oppressione, il sacrificio di sé purifica ed eleva da ogni dominio terreno che in fondo è sempre prevaricazione e sopraffazione: “Noi ci inginocchieremo solo davanti a Dio”[2]. Arriva un altro rapimento: “faccio appello allo Spirito Santo, salgo sulla croce di Cristo. Mi siedo sul legno di ulivo e mi lavo. (…) sono ribelle, contro tutti, ingiusti e oppressori. Sionisti, colonialisti, occupanti, infidi vi siete impadroniti di tutto”.
TANTE COMBATTENTI PER UNA TERRA TRA LE SBARRE
Ma Suaad non è una santa, ha fede ma sa che nel suo stato può delirare: non è (già) una martire, è una combattente del sumud, e ha studiato Legge per far rispettare i diritti umani e la Giustizia terrena. Se nella Palestina occupata ogni vessazione è da decenni di fatto permessa dalla comunità internazionale, nelle carceri ogni efferatezza ancora più oscura e segreta è concessa dall’indifferenza del mondo intero. Le detenute hanno solo la forza del loro corpo e la potenza della loro concentrazione interiore per rivendicare pochi diritti umani fondamentali, come i libri e l’ora d’aria. L’impegno della giovane alterna preghiera e attivismo politico, ad esempio nell’organizzazione logistica dello sciopero dal lavoro e nell’allenamento emotivo a sopportare le derivanti punizioni collettive. Ci vuole la preparazione mentale e motivazionale di tutte le compagne resistenti, unite e complici, per rendere proficuo lo sciopero della fame e riottenere almeno il diritto di camminare all’aperto e leggere.
L’ora d’aria rappresenta il respiro, simbolo ancestrale della vita stessa, dell’essenza misteriosa del divino. Il respiro delle prigioniere politiche abusate e di ogni palestinese è il diritto ad esistere che viene soffocato: il regime sionista vorrebbe togliere ai palestinesi anche la possibilità di respirare-esistere, non a caso Suaad scrive che il giudice colonizzatore è venuto per giudicare a proposito del suo diritto più profondo, quello di respirare.
Ogni sollievo, barlume di ragione, accenno di piacere, una doccia senza ustioni o calli da gelo, non viene tollerato dagli aguzzini. Per questo le carcerate devono mantenere una severa disciplina dentro se stesse, molto più ferrea di quella esteriore, imposta dalle guardie carcerarie. Le compagne devono adattarsi alla brutalità, ma l’esercizio costante è non rinunciare alla crescita di sé: le detenute preparano dolcetti con zucchero e caffè, fanno circolare notizie dal mondo fuori camuffate da lettere, riassumono libri per scambiarli. Occorre educare la conoscenza storica e culturale e formare la coscienza politica. Letture di poesie, traduzioni, recite improvvisate, forme di solidarietà e attivismo, sono ossigeno interiore e azione necessaria per la causa palestinese. Le donne hanno un ruolo fondamentale nella lotta generazionale e sociale per la liberazione della Palestina.
Le detenute nelle loro celle sono nella stessa condizione di quella terra violentata e murata viva, ma indomita e fiera; quindi nonostante i cancelli e le serrature non c’è più alcun confine tra resistenza dentro e fuori dal carcere. Il simbolo è lo stesso, la chiave del ritorno a casa.
La testimonianza di Genem è stata inviata -anche grazie al suo fidanzato Lorenzo e alla sua famiglia- alla Croce Rossa, alle Nazioni Unite, ai Tribunali Internazionali in difesa dell’Umanità; è oro alchemico della giustizia forgiato dai luoghi più mostruosi della crudeltà umana, è un diamante di coraggio nelle mani del lettore.
[2] Appendice di poesie: Cella 43, 2/11/1983
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COLLABORAZIONE LAD EDIZIONI – EDIZIONI Q: Il racconto di Suaad – Prigioniera palestinese
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