Covid-19: infettarsi due volte è estremamente difficile

Covid-19: infettarsi due volte è estremamente difficile

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Uno studio accurato, rilanciato sulle colonne di El Pais, ha appurato che infettarsi due volte con il Covid-19 è estremamente difficile.

In passato erano stati prodotti diversi studi sul rischio di reinfezione. Quasi tutti hanno dato percentuali inferiori all’1%, ma si trattava di analisi basate su campioni limitati, sia nel numero di persone interessate che nel tempo.

Il giornale spagnolo riporta invece una ricerca effettuata in Danimarca, Paese in cui la Sanità ha avuto la possibilità di effettuare un’analisi ad ampio spettro e prolungata: infatti, è stato proposto un test effettuato ogni settimana, che ha interessato circa il 10% della popolazione danese.

il 31 dicembre 2020, data di scadenza del rilevamento, più di due terzi della popolazione aveva fatto almeno un test e la metà dei danesi ne aveva fatti due o più.

I risultati, pubblicati sulla rivista Lancet sono indicativi: solo 0,65% di coloro che sono risultati positivi nel corso della prima ondata (da febbraio a maggio) sono risultati positivi al test nella seconda ondata (da settembre a dicembre).

Steen Ethelberg epidemiologo dello Statens Serum Institute, autore principale dello studio, dice in una nota che il suo lavoro conferma “ciò che altri hanno suggerito: la reinfezione con il Covid-19 è rara tra le persone sane e giovani, mentre gli anziani sono a maggior rischio di reinfezione”.

“La dottoressa Daniela Michlmayr, anche lei  (SSI) e coautrice dello studio, dice che non c’è nulla che indichi che “la protezione contro la reinfezione diminuisca entro i sei mesi dopo esser stati contagiati dal Covid-19. E ricorda anche come altri virus correlati, quelli ad esempio che hanno causato le epidemie di SARS e MERS nel primo decennio del secolo, hanno conferito l’immunità per due o tre anni”.

Un’ulteriore analisi, basata su tutti i danesi che hanno effettuato due o più test (2,5 milioni di persone), conferma e anzi migliora i risultati precedenti: la percentuale di persone re-infettate almeno tre mesi dopo la prima infezione è stata dello 0,48%.

Insomma, si può asserire che le persone che hanno avuto il Covid, in particolare quelle meno anziane, sono immuni al virus per alcuni mesi (sei secondo lo studio). Un dato sul quale ci eravamo soffermati in un’altra nota, nella quale ci interrogavamo sull’utilità di vaccinare le persone contagiate dal Covid-19.

Far slittare di qualche mese la vaccinazione di tali soggetti, almeno quelli più giovani, non li metterebbe a rischio e farebbe guadagnare tempo prezioso per velocizzare la vaccinazione delle persone a rischio. In questa corsa contro il tempo, non è particolare secondario.

Ai dati della ricerca danese aggiungiamo un altro, che riprendiamo dal nostro Istituto Superiore di Sanità, che, nei suoi report periodici, ha rilevato quanto segue.

L’età media dei deceduti continua ad essere molto alta, oltre 80 anni (addirittura 86 per le donne)).

Non solo, “aumentano i decessi di persone con 3 o più patologie preesistenti e diminuiscono quelli con meno patologie o nessuna: ciò sembra indicare che nel secondo e nel terzo periodo i decessi riguardano persone più anziane e con una condizione di salute preesistente peggiore rispetto ai decessi relativi al primo trimestre“.

Il dato sanitario è in netto contrasto con le narrative terrorizzanti che da tempo circolano sui media riguardo la nuova ondata pandemica, che vorrebbe che il virus sia diventato più aggressivo e che aggredisca in maniera perniciosa anche le fasce più giovani, risparmiate dalla prima ondata.

Invece, come e più che per la prima ondata, la pericolosità resta alta per le categorie più deboli, più anziane e con più patologie pregresse. Questo dato potrebbe spiegarsi anche con una maggiore efficacia delle terapie, ma resta che non c’è traccia di quell’inasprimento della pericolosità del Covid-19 asserito da tanta narrativa.

Peraltro, anche la presenza di altre patologie sembra andata nel dimenticatoio. Mentre durante la prima ondata era usuale fare la distinzione tra persone morte “per Covid-19” e quelle morte “con Covid-19” oramai nessuno ne fa più cenno, cosa che rende più tragico quanto sta avvenendo.

Un intreccio inestricabile tra un’informazione catastrofista, una conclamata incapacità gestionale da parte delle autorità, italiane e internazionali, e la cruenta guerra dei vaccini sta rendendo la pandemia più orribile di quel che già è.

Appurare quanto poteva farsi e non si è fatto, e le tante responsabilità di tutto questo, sarà compito di inquirenti e/o storici. Sempre che il mondo nuovo, post pandemico, consentirà tali approfondimenti.

Un’ultima notazione, doverosa. Tanti i virologi, infettivologi e tuttologi che parlano di una catastrofe che è li per restare, dato che il virus ci accompagnerà nei secoli a venire. Certo, una volta che il virus è entrato nell’orizzonte umano, non può semplicemente svaporare.

Ma da qui a lanciarsi in allucinazioni catastrofiste ne passa. Anche la Spagnola fu variante catastrofica dell’influenza. Non per questo il mondo ha vissuto successivamente nell’incubo della stessa. Mutazioni successive hanno reso quel virus non più letale.

Il futuro, per fortuna, è ancora da scrivere. Resta la domanda del perché si agita certo catastrofismo, che alimenta vieppiù la Paura in una situazione già tragica. Anche questa domanda attende risposte non evasive.

 

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