Andrea Zhok - Fuochi d'artificio al tramonto

Che all’orizzonte ci sia una deflagrazione è certo. Se questa possa avere natura limitata o non invece il carattere proverbiale di Sansone che decide di morire portando con sé tutti i filistei (ed ogni cenno alla vicenda mediorientale è puramente intenzionale), questo è tutto da vedere.

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Andrea Zhok - Fuochi d'artificio al tramonto


di Andrea Zhok

 
Del tramonto dell'Occidente si parla da più di un secolo, e da ben prima della pubblicazione del fortunato volume di Oswald Spengler. Quando ne parlava Spengler si era all'indomani della grande distruzione della Prima Guerra Mondiale, e, paradossalmente, si era alle soglie di una possibile svolta nel processo di decadenza: l'Europa scossa profondamente da cinque anni di guerra e undici milioni di morti sembrava prendere coscienza della necessità di un cambiamento di paradigma.

Ma i tentativi che emersero in quel periodo, dapprima all'insegna della Rivoluzione d'Ottobre (i tentativi di rivoluzione degli spartachisti in Germania, il biennio rosso 1919-1920, ecc.) e poi sotto l'egida delle dittature degli anni '20, non riuscirono a creare condizioni stabili per una ricostruzione alternativa. I “fascismi” cedettero molto rapidamente le pretese di rivoluzione popolare a favore di un patto strutturale con la grande borghesia liberale, mantenendo l’impianto aggressivo e “darwiniano” che era stato proprio dell’imperialismo prebellico.

Due decenni dopo, il secondo grande massacro del XX secolo aprì un nuovo tentativo di revisione del modello liberalcapitalistico con cui l'Occidente aveva finito per identificarsi. Questo tentativo ebbe maggior successo e durò circa tre decenni, producendo la prima e finora unica situazione moderna in cui autentici meccanismi democratici vennero implementati e in cui migliorarono distintamente le condizioni di vita generali di chi viveva del proprio lavoro.

Ma quel tentativo venne minato dall'interno e infine rovesciato con successo nella seconda metà degli anni '70, a causa della scarsa consapevolezza della natura profonda della crisi di civiltà dell'Occidente (chi di questa crisi aveva consapevolezza, come Pasolini, rimase una vox clamantis in deserto).

Il modello liberalcapitalista riuscì a travestirsi negli anni '80 da movimento libertario ed emancipativo, con la complicità militante di gran parte della concettualità postmoderna. Con la caduta dell'URSS l'idea stessa che potessero (dovessero) esistere modelli di sviluppo storico diversi dal liberalcapitalismo venne meno.

La storia degli ultimi tre decenni è la storia di una ripresa dei medesimi meccanismi che precedettero la Prima Guerra Mondiale, solo in forma più potente e virulenta.

L'accelerazione e il potenziamento della tecnica, finanziaria, mediatica e bellica, presentano le dinamiche distruttive “fin de siècle” in una forma iperbolica.

Gli esiti distruttivi si stanno affacciando in maniera vigorosa e priva di serio contrasto. Mediamente, le classi dirigenti e i ceti intellettuali sembrano avere una consapevolezza della crisi persino inferiore a quella delle classi dirigenti e dei ceti intellettuali del 1914, del 1938 o del 1968. In Occidente l’idea che “non c’è alcuna alternativa” (TINA) e che la forma di vista liberalcapitalistica rappresenta l’ideale fine della storia (Fukuyama) rimane ampiamente maggioritaria, serenamente propalata, seriosamente sostenuta da stuoli di giornalisti e accademici. La coscienza critica appare, quando appare, nella forma di richieste di ritocchi, di cambiamenti di dettaglio, di riformismi settoriali.

Rispetto al passato esiste un elemento differente: l’Occidente non rappresenta più l’unica concentrazione rilevante di potere economico e militare. Durante la guerra fredda la sfida era stata sempre impari: dalla seconda guerra mondiale gli USA, come centro dell’impero liberalcapitalistico, ne erano usciti arricchiti, intoccati nelle infrastrutture, demograficamente solidi, militarmente egemoni (unici detentori della bomba atomica). La Russia, lo sfidante ideologico, era un paese straziato, con venti milioni di morti in guerra, infrastrutture devastate e già precedentemente carenti, e una condizione di inferiorità tecnologico-militare. Nonostante queste premesse l’URSS riuscì a giocare un ruolo di contraltare ideologico e ideale per altri quattro decenni.

La situazione odierna è diversa perché gli sfidanti sono potenzialmente molto più solidi e credibili. E tuttavia questo può rappresentare un’aggravante della situazione. Per la prima volta da quando è divenuta la forma trainante dello sviluppo europeo a fine XVIII secolo il modello liberalcapitalistico si ritrova sfidato da modelli ibridi, differenti, che ciascuno a modo suo tenta di cavalcare la tigre tecnologica e produttiva in modo da non essere più inerme rispetto alle pretese imperiali dell’Occidente a guida americana. In ciascuno di questi sistemi la legittimazione del potere avviene secondo forme di accreditamento non prevalentemente economiche, che è invece ciò che caratterizza il modello occidentale moderno. Per questo la sfida appare come una sfida esistenziale, una sfida in cui l’Occidente liberalcapitalistico non ha alcun piano B perché da tempo non riesce ad immaginare un futuro che non ricalchi il modello corrente (individualismo acquisitivo, materialismo astorico, universalismo globalista, capitalismo politico).

Che nel futuro alberghi una deflagrazione per il mondo occidentale è ovvio e strettamente necessario: il sistema liberalcapitalistico è sempre stato un sistema generatore di grandi accelerazioni e grandi squilibri, con crisi esplosive ricorrenti. La vera questione è quale sarà la natura della deflagrazione prossima ventura. Infatti una condizione di accettazione della pacifica convivenza con forme di sviluppo radicalmente differenti e non subordinabili risulterebbe fatale per l’Occidente a guida americana. L’ammonimento di Trump di ieri, che dichiara letteralmente guerra ad ogni tentativo di proseguire il processo di dedollarizzazione è espressione di una chiara presa di coscienza in questo senso. L’Occidente a guida americana sa che se non può continuare a giocare la partita di sfruttamento unilaterale che ha giocato finora, capitalizzando forme di scambio asimmetrico, non può sopravvivere. Il problema, ideologico non meno che strutturale, dell’Occidente liberalcapitalistico è che può esistere solo come vertice della catena alimentare. Nel momento in cui si accettasse come un primus inter pares, senza mutare modello di sviluppo, finirebbe per collassare. Per questo motivo, in maniera sempre più tenace, l’Occidente a guida americana cercherà il confronto diretto con tutti i suoi potenziali competitori, per sfruttare ancora la propria posizione di relativa superiorità in alcuni campi.

Dunque, che all’orizzonte ci sia una deflagrazione è certo. Se questa possa avere natura limitata o non invece il carattere proverbiale di Sansone che decide di morire portando con sé tutti i filistei (ed ogni cenno alla vicenda mediorientale è puramente intenzionale), questo è tutto da vedere.
 

Andrea Zhok

Andrea Zhok

Professore di Filosofia Morale all'Università di Milano

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