Il "nuovo" Def: sicuri che il governo Draghi sia proprio finito?

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Il "nuovo" Def: sicuri che il governo Draghi sia proprio finito?

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Con l’arrivo della primavera, i burocrati e gli economisti del MEF si ritrovano, orchestrati dal governo, per redigere il Documento di Economia e Finanza – il cosiddetto DEF – dove vengono messe nero su bianco le politiche economiche e fiscali che si vogliono intraprendere. Dietro ai numeri del DEF c’è il profilo politico di un Governo, e mai come oggi abbiamo bisogno di far parlare queste cifre per mettere a tacere la propaganda di chi ieri ha vinto le elezioni criticando il banchiere Draghi e oggi ne prosegue il lavoro, con addirittura maggiore vigore contro le fasce più deboli della società.

In primo luogo, infatti, attraverso questo documento si vede chiaramente la continuità tra questo Governo e il precedente nel segno dell’austerità. La crisi pandemica aveva sfatato il mito del debito, dimostrando che la spesa pubblica si può spingere ben oltre gli angusti paletti fissati dall’Unione europea se vi è la necessità di sostenere crescita e occupazione. Con il rientrare dell’emergenza pandemica, appare però chiaro come la linea politica, tanto del Governo Draghi quanto del Governo Meloni, sia quella di superare la stagione degli interventi straordinari e rimettersi in riga, tendendo verso il famigerato confine del 3% imposto al disavanzo pubblico. C’era infatti solo la necessità, e mai la volontà, di sostenere crescita ed occupazione: il crollo del PIL determinato dalla pandemia andava a incidere sugli interessi della classe dominante e doveva per questo, solo per questo, essere arginato. Terminata la fase acuta della crisi, quella necessità ha lasciato il posto alla logica ferrea dell’austerità e all’idea che lo Stato debba ritirarsi dall’economia. Un polverizzare lo stato sociale lasciando che i profitti di pochi schiaccino i diritti di molti.

Questo passaggio di testimone si desume, nel DEF, studiando i numeri del disavanzo pubblico, che mostrano ad un’attenta analisi come Meloni stia continuando pedissequamente il percorso di riduzione del deficit rigorosamente programmato da Draghi. Serve un’attenta analisi perché questa continuità nell’austerità potrebbe perdersi di vista a causa di due “effetti ottici” di natura tecnica che confondono la lettura politica.

La prima distorsione è il dato sul deficit pubblico del 2022, pari all’8% e ben 2,4 punti percentuali superiore a quello programmato, che appare incredibilmente elevato e lascia pensare ad una forte spesa pubblica a sostegno dell’economia. Sarebbe stato davvero un bel segnale di discontinuità…peccato che si tratti di un mero accorgimento statistico derivante da un nuovo criterio contabile che anticipa al primo anno tutto l’impatto della spesa per il cosiddetto superbonus per le ristrutturazioni edilizie sui conti pubblici, precedentemente distribuita su tutti gli anni in cui si articolava la connessa detrazione fiscale.

Il secondo “effetto ottico” da cui guardarsi è l’aumento della spesa per interessi, che gonfia il disavanzo pubblico dei prossimi anni indipendentemente dalla volontà del Governo e, cosa ancor più importante, senza alcun impatto positivo sull’economia. Come infatti abbiamo più volte ripetuto, per capire l’orientamento di un Governo in politica fiscale occorre guardare al cosiddetto saldo primario, cioè alla differenza tra tutte le entrate dello Stato e le uscite considerate, invece, al netto della spesa per interessi. Questo perché da un lato la spesa per interessi cresce o si riduce per ragioni che esulano dalle scelte del Governo: infatti, i tassi di interesse, pur risentendo di ciò che succede sui mercati finanziari, sono determinati dalla Banca centrale europea. D’altro canto, la spesa per interessi va quasi interamente a gonfiare i profitti finanziari delle maggiori banche mondiali, e dunque non ha alcuna ricaduta positiva sull’economia, a differenza ad esempio della spesa per stipendi pubblici, che alimenta i consumi interni, o della spesa per infrastrutture, che alimenta gli investimenti interni.

Se dunque ci concentriamo sul saldo primario annunciato nel DEF dal Governo Meloni vediamo emergere limpidamente la continuità con la linea ultraliberista di Draghi. Il Governo Draghi, nel suo ultimo DEF redatto nel 2022, prevedeva un eccesso di spesa primaria sulle entrate, dunque un disavanzo primario, dello 0,8% nel 2023 e dello 0,4% nel 2024, e collocava nel lontano 2025 il sogno rigorista dell’avanzo primario, cioè di uno Stato che prende dai cittadini più di quello che spende per stipendi, pensioni e investimenti, indicando per quell’anno un saldo primario positivo dello 0,2%: la fine della pacchia. Bene, il DEF elaborato dal Governo Meloni prevede oggi esattamente lo stesso disavanzo primario per il 2023 (il passaggio del testimone dell’austerità) e poi addirittura l’anticipazione dell’avanzo primario al 2024, con un saldo primario positivo pari allo 0,3% che si consolida negli anni successivi raggiungendo il 2% dell’eccesso di tasse sulla spesa primaria nel 2026. Ecco i numeri che mostrano chiaramente come Meloni sia più draghiana di Draghi, rivelando il significato profondamente politico della scelta di sacrificare immediatamente il reddito di cittadinanza sull’altare del rigore di bilancio.

Se ci addentriamo nei dettagli del documento, con gli accorgimenti segnalati, scopriamo anche quale sia la forma assunta dall’austerità imposta dal Governo Meloni. A pagina 48 del DEF possiamo notare che la crescita degli investimenti, arrivata al 9,4% nel 2022 soprattutto in ragione della spinta del superbonus (+10% solo nel settore delle costruzioni), iniziano a rallentare al 3,7% già nel 2023 e giù a scendere fino all’1,5% nel 2026. Un progressivo rallentamento degli investimenti che condanna l’economia alla stagnazione, con buona pace della retorica sul PNRR. Lo stesso quadro disastroso viene delineato per quanto riguarda i consumi delle famiglie, il cui aumento annuale tra il 2023 e il 2026 oscilla tra lo 0,65% e l’1,2%, a conferma di un’economia stagnante. E un contributo decisivo a questo declino economico proviene proprio dalle scelte di politica economica del Governo, che ci illustra con dovizia di particolari come ridurrà la spesa pubblica sia nel 2023 (-1,3%) che nel 2024 (-1,2%).

È interessante notare che, pur all’interno del quadro delineato, il Governo si ritrova tra le mani un tesoretto da 3 miliardi di euro da poter spendere, semplicemente perché, nel programmare l’austerità, avevano persino sbagliato i conti. Il disavanzo effettivo dell’anno in corso si sta rivelando più basso di quello previsto al 31 dicembre 2022 e dunque, pur mantenendo inalterato l’obiettivo e il ritmo di costante riduzione del disavanzo, il Governo si trova a poter spendere 3 miliardi di euro imprevisti. Ecco che torna la propaganda: li spende per i lavoratori, ci viene detto, perché questo tesoretto viene destinato tutto al taglio del cuneo fiscale sul lavoro dipendente. Peccato che il taglio del cuneo fiscale sul lavoro dipendente non favorisca affatto il lavoro dipendente, bensì quelli che il lavoro dipendente lo comprano, cioè gli imprenditori. Persino due economisti liberisti come Boeri e Perotti ammisero, in un commovente articolo su Repubblica del 22 agosto 2022, che “circa il 90% delle riduzioni delle tasse sul lavoro viene appropriato dal datore di lavoro e solo il 10% va al lavoratore”. La storia insegna che il taglio del cuneo fiscale serve ad affievolire le rivendicazioni salariali in sede di contrattazione: negando successivi aumenti salariali (“hai avuto la riduzione del cuneo fiscale, cioè un aumento dello stipendio netto, non vorrai mica anche un aumento dello stipendio lordo!?”), le imprese si prendono rapidamente tutte le risorse spese dal Governo per ridurre il cuneo fiscale, con un ritmo tanto più veloce quanto più galoppa l’inflazione. Questa tesi viene apertamente dichiarata dal Governo nel DEF, dove si legge che il taglio del cuneo fiscale “sosterrà il potere d’acquisto delle famiglie e contribuirà alla moderazione della crescita salariale. Unitamente ad analoghe misure contenute nella legge di bilancio, questa decisione testimonia l’attenzione del Governo alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori e, al contempo, alla moderazione salariale per prevenire una pericolosa spirale salari-prezzi.” Noi diciamo che la spirale salari-prezzi è pericolosa solo per i profitti, ed il potere d’acquisto della classe lavoratrice si difende aumentando il salari al passo dell’inflazione, che è il contrario della moderazione salariale. Non sarà un caso che il principale promotore del taglio del cuneo fiscale sia sempre Confindustria. Dunque, il tesoretto del Governo Meloni viene in buona sostanza trasferito ai profitti: ecco un’altra scelta politica netta dichiarata nel DEF, in un incredibile gioco di prestigio dove il taglio del cuneo fiscale consente la più feroce moderazione salariale mentre l’inflazione va alle stelle.

Per concludere, il Governo si premura di chiarire nel DEF altri due fondamentali aspetti dell’austerità con cui intende mettere in ginocchio le classi popolari, entrambi legati alle previsioni di sostenibilità delle finanze pubbliche nel lungo periodo. Sebbene queste previsioni siano elaborate in un contesto teorico particolarmente controverso, che postula una naturale tendenza dell’economia verso un percorso di crescita equilibrata che è esattamente il contrario dello scenario stagnante che la realtà ci mette davanti, il Governo le formula inserendo alcuni dati che contengono precisi segnali politici (p. 116): la stima della spesa pensionistica e della spesa sanitaria è decrescente da qui al 2025, nonostante le statistiche demografiche ci indichino un veloce e inesorabile invecchiamento della popolazione italiana. Il Governo Meloni sacrifica dunque, sull’altare dell’austerità europea, oltre ai lavoratori divorati dall’inflazione anche i pensionati ed il sistema sanitario nazionale.

La dinamica della spesa sanitaria programmata nel DEF nonostante gli anni drammatici della pandemia rivela lo spirito fortemente antipopolare che muove il Governo Meloni, oltre ogni retorica. Quei numeri mostrano un aumento in termini nominali nel 2024 che deriva unicamente dall’esborso per gli arretrati dei dirigenti del settore (che in quell’anno riceveranno salari arretrati del triennio 19-21), e poi indicano chiaramente che l’Italia, nel 2025, spenderà per il suo sistema sanitario meno, in percentuale di PIL, rispetto al periodo prima della pandemia. Ma c’è di più: nel triennio 2024-2026, la spesa sanitaria è prevista crescere a un tasso medio annuo dello 0,6% in termini nominali. Ciò significa che, a fronte degli attuali tassi di inflazione, la spesa sanitaria diminuirà anche in termini reali.

Le cifre del DEF contengono il progetto di questo massacro sociale, e solo la lotta contro il Governo Meloni può fermarlo.

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