Pelle nera, maschere bianche

Pelle nera, maschere bianche

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di Geraldina Colotti

 

Perché la solidarietà proletaria (come si diceva una volta) o la “pedagogia degli oppressi” (nelle parole del rivoluzionario africano Frantz Fanon) deve essere considerata “buonismo”? Perché l'empatia, la com-passione la pietas, intese come rispecchiamento nel dolore dell'altra e dell'altro e dunque riconoscimento della necessità di una lotta comune contro lo stesso nemico, devono essere lasciate in balia dei sepolcri imbiancati o di un'ecumenismo della rassegnazione che accarezza il povero purché rimanga al suo posto, purché lasci inalterati i rapporti di dominio fra le classi?

Eppure siamo a questo punto. Il web ha eletto il turpiloquio a stigma, la società dello spettacolo ha sdoganato i mostri usciti da quel vaso di Pandora, mettendoli sul podio a ghignare. La storia nei tribunali e nelle fiction, la politica nei talk-show e ora allo stadio. Decostruite le grandi idee, la dialettica della storia, la capacità di interpretare il mondo per trasformarlo, sembra non ci sia più spazio per pensare fuori dal discorso neocoloniale, sia nella variante paternalista che in quella torva delle piccole patrie xenofobe, declinate in sedicesimo da qualche rumoroso rossobruno.

Dalla verità del post-moderno alla verità del post. Se la storia è “racconto”, ogni racconto ha del buono, ogni rumore fa voltare il capo, fino che si prenda di vertigine e finisca nel fango che egli stesso ha cercato. Un turbinìo drogato che ha anche i suoi vantaggi, perché trasforma ogni grillo parlante in “giornalista”, con la sua rancorosa platea. Il più ruspante declina così la sua variante dell'”aiutiamoli in casa loro”, mentre non saprebbe guidare nemmeno un passeggino.

Che cosa significa una frase simile in un sistema-mondo in cui 60 famiglie detengono la ricchezza del pianeta e si è tornati a considerare un delitto rubare quando si ha fame? Aiutiamoli a riprendersi il maltolto, dicevamo una volta, dando per primi l'esempio: dal Maggio francese al '69 operaio in Italia, da Cuba, al Vietnam, da Lumumba a Sankara.

Nel formidabile ciclo di lotta che ha caratterizzato gli anni '70 in Italia, i migranti del sud hanno sfidato razzismo e pregiudizi in una nuova unità di classe che ha fatto vedere i sorci verdi alla borghesia. Nelle nostre povere case c'era poco da mangiare, allora, ma durante gli scioperi ci si aiutava tutti. La porta in faccia la si chiudeva solamente al padrone, rifiutando il pacco-doni che, ogni anno, l'azienda mandava agli operai.

Dignità era la nostra grande bandiera. Dignità e libertà di scegliere, senza gabbie e confini. Senza farci manipolare, senza farci ammansire: unendo il nostro grido a quello dei dannati della terra per infiammare la prateria, da un lato all'altro del pianeta.

Il dolore più grande per una rivoluzionaria sconfitta ma non pentita, è quello di vedere un africano a capo chino spazzare le strade per poter stendere il cappello in cui chiede, insieme all'elemosina, di essere “accettato”.

Rabbia, ti viene. “Vai a lottare in casa tua, oppure mettimi le mani al collo e strangolami - vorresti dirgli - ma non trasformarti in un servo mansueto”. Taglienti come una lama, tornano le frasi di Fanon negli Scritti politici per la rivoluzione africana: “Lavora fellah. Nel tuo sangue la prostrazione di una vita intera... Sul tuo viso la disperazione. Nel tuo ventre la rassegnazione... Che importa, fellah, se questo paese è bello”, scrive il rivoluzionario nella Lettera a un francese.

Dignità e libertà di scegliere, senza gabbie e confini. Senza farci manipolare, senza farci ammansire: unendo il nostro grido a quello dei dannati della terra per infiammare la prateria. Non abbiamo da perdere che le nostre catene. Pelle nera, maschere bianche. Dai campi di Rosarno a quelli dietro casa, strappare le maschere anche se fa male. Organizzare gli ultimi della catena dietro le nostre bandiere: rosse, senza macchie scure. Vederle di nuovo sventolare sopra i campi di pomodori, fa bene, cementa la rabbia, lenisce un po' il dolore.

Non siamo soli. La partita per il socialismo non è chiusa. Esistono le lotte dei popoli, dall'Asia all'Europa. Esiste il comunismo nepalese. Esiste Cuba. Resistono paesi fieri della propria indipendenza e di una pace con giustizia sociale, come la Bolivia di Evo Morales. Esiste il Venezuela impegnato in una difficile ma concreta ricerca di una via al socialismo. Dalla prospettiva di una nuova integrazione sud-sud, esiste la possibilità di orientare in senso progressista le spinte dei paesi depredati e storicamente asserviti.

Valgano come esempio, l'Alba (l'Alleanza bolivariana per i popoli della Nostra America, ideata da Cuba e Venezuela). Oppure la Celac, la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici, dichiarata “zona di pace”. O ancora, l'ultimo Vertice della Mnoal (il Movimento dei Paesi Non allineati). La seconda organizzazione mondiale più grande dopo l'Onu, ha fatto mettere nero su bianco il tema della Cittadinanza universale, della libera circolazione delle persone: non per essere sfruttate come esercito industriale di riserva nei paesi che rubano le risorse del sud globale, ma come soggetti portatori di diritti. E di futuro. A dirigere la Mnoal è il Venezuela socialista presieduto da Nicolas Maduro.

Quasi vent'anni fa, l'alleanza bolivariana ha trasformato la sfiducia delle classi popolari verso una sinistra approdata, come da noi, sulle sponde delle destre e dei poteri forti, in una nuova proposta di cambiamento strutturale, che ha ridato slancio ai grandi ideali del secolo scorso. Organizzando i “dannati della terra” insieme ad altri soggetti storici, ha aperto nuove prospettive per tutti i sud del mondo.

Dignità e libertà di scegliere, senza gabbie e confini. Senza farci manipolare, senza farci ammansire: unendo il nostro grido a quello dei dannati della terra. Per infiammare di nuovo la prateria.

 

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