È ora di giustizia per i crimini in divisa
di Giorgio Cremaschi
Le intercettezioni delle vanterie dei carabinieri criminali di Piacenza mostrano male allo stato puro. Uno di questi aguzzini si pavoneggia con il figlio di undici anni per aver partecipato con i suoi compari al pestaggio di un”negro”. Fanno orrore le parole del padre razzista, vile e violento, ma fa ancora più pena e dolore l’ammirazione festosa del bambino, anch’egli vittima di questa ferocia.
Un altro di questi delinquenti si vanta con la fidanzata di una notte di botte somministrate ad un ragazzo fermato. Anche qui la gioia è condivisa dalla coppia. Leggendo queste infamie vengono in mente le foto dei linciaggi negli Stati Uniti, con intere famigliole sorridenti attorno ad un essere umano di pelle scura appeso ad un albero.
La miseria morale e civile di quanto avveniva nella caserma di Piacenza va oltre i reati specifici commessi dagli arrestati, è un liquame diffuso che contamina tutta l’Istituzione. Quando si arriva alla normalità del male, quando questo male viene usato per accrescere il prestigio del padre e del fidanzato, quando i valori umani sono tranquillamente ribaltati, non si può credere che questo avvenga nel vuoto.
Io credo che in tanti sapessero, magari non degli affari, ma delle violenze ad essi connesse sì. Ma tanti chiudevano un occhio o due, intanto perché quei carabinieri erano efficienti, facevano tanti arresti. E nel moderno produttivismo delle forze di polizia, nel cottimo della galera con cui un potere sempre più feroce e ingiusto pensa di gestire la società, i tanti arresti sono diventati il metro di misura contabilmente più semplice e sicuro.
Così proprio i criminali della caserma Levante di Piacenza, nel 2018, furono premiati “per la lotta allo spaccio”, che esercitavano in proprio, e “per il sostegno ai più deboli”, che massacravano di botte.
La violenza e la cultura della violenza in questi anni sono dilagati nelle forze dell’ordine. I racconti soddisfatti delle botte somministrate girano per le caserme, come il razzismo, come il culto della sopraffazione. E poi la lunga catena dell’omertà e delle complicità, che abbiamo visto alla fine emergere solo nella lunga durissima lotta per Stefano Cucchi.
No, non ci si venga a parlate di mele marce, quando tutto l’ambiente è guasto. I carabinieri di Piacenza godevano di una impunità che evidentemente il sistema aveva loro lasciato intendere di possedere. Forse è proprio questo che li ha perduti, si sono arrogantamente sempre più esposti, fino a scoprirsi. Ma io credo che questa sia solo la punta di un iceberg. Quando tra i carabinieri, eroi integerrimi semplici e buoni negli sceneggiati televisivi, c’è chi educa i figli alla gloria sportiva del pestaggio degli africani, c’è un marcio profondo che l’Arma condivide con il peggio della nostra società.
Questo marcio va tutto portato alla luce, fino ai livelli più alti, considerando come suo complice e responsabile anche il sorriso del capo, quando sente la battuta che nel linguaggio fascista si definiva maschia, virile.
No, io non credo che i carabinieri di Piacenza fossero doppi, certo nascondevano i soldi, ma non i comportamenti. Che venivano accettati perché parte integrante di un sistema poliziesco che sta precipitando verso quello degli Stati Uniti. Con l’aggravante che una parte di questo sistema è gestita da un corpo militare separato, che avrebbe dovuto essere sciolto già con l’avvento della Costituzione.
Io credo che la premiata Caserma Levante di Piacenza sia un modello diffuso nel nostro sistema di polizia e che tutto di esso debba essere messo in discussione, dalle radici ai vertici. È ora di fare giustizia per i crimini in divisa e, come chiedono milioni di manifestanti da mesi negli USA, di tagliare i finanziamenti alle nostre tante troppe polizie.