Il fraintendimento più profondo sulla parola «liberazione»

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Il fraintendimento più profondo sulla parola «liberazione»



di Francesco Erspamer*

 
Vorrei capire, al di là del richiamo mediatico dell’anniversario, a chi interessa la Festa della Liberazione. A me certamente, ma solo perché credo che commemori la sconfitta definitiva del fascismo mussoliniano e la cacciata degli occupanti tedeschi (l’«invasor» trovato una mattina dal partigiano in «Bella ciao»).

Ma cos’hanno da celebrare quelli che pensano che il fascismo, quel fascismo, sia vivo e vegeto se non perpetuo? Sarebbe come introdurre una festa dell’indipendenza prima di ottenerla o dopo averla persa. Del resto anche chi considera il 25 aprile come un’affermazione della sovranità italiana sta ingannandosi: pur di non parlare tedesco abbiamo iniziato a parlare inglese e dopo aver lottato per affrancarci dalla tutela germanica abbiamo supinamente accettato e mantenuto quella statunitense.

Il fraintendimento più profondo riguarda proprio la parola «liberazione»; allora significava resistenza contro l’oppressore straniero e i collaborazionisti interni, e in quell’aprile fu vittoriosa. Ottant’anni dopo la parola vuol dire deregolamentazione economico-finanziaria e emancipazione individuale: in una parola, neoliberismo. In questa prospettiva a festeggiare, oggi, dovrebbe essere solo la destra, che il suo libero mercato l’ha ottenuto pienamente e facilmente, più di quanto avesse mai osato sperare; piddini e «woke», invece, continuano a lamentarsi che parte della società italiana sia tradizionalista, familista, sessista, ancora eccessivamente cattolica, e poi poco disposta all’accoglienza indiscriminata di migranti e turisti e pertanto xenofoba se non razzista, insomma arretrata rispetto ai paesi in cui le magnifiche sorti e progressive si sono avverate. La loro liberazione è dunque tutt’altro che realizzata: cosa ci vedono nel 25 aprile?

Era un mondo che i tanti vincenti degli anni duemila detesterebbero, troppi vincoli morali e culturali, troppi valori, un senso di appartenenza e di restanza inconcepibile per i cultori dell’innovazione fine a sé stessa, del consumismo compulsivo, dell’utilitarismo come scusa per fare quello che si vuole. Oggi celebro il 25 aprile, ma non per i motivi che trovate sui giornali, nei telegiornali, sugli «asocial».

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