Il filo rosso della storia

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Il filo rosso della storia


Per gentile concessione dell'Autrice, la Professoressa Alessandra Ciattini, pubblichiamo la Post Fazione a cura di Daniela Musumeci del suo ultimo libro: "Sul filo rosso del tempo" (Multimage)

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Il filo rosso della storia

Alessandra Ciattini riunisce in questo suo nuovo libro alcuni articoli già editi sulla rivista on line “La città futura” ispirata ad Antonio Gramsci e li lega a numerosi rimandi sitografici in nota che creano un ricchissimo ipertesto multitematico.

Il titolo Sul filo rosso del tempo evoca il fluire dialettico della storia, che ha l’andamento hegeliano di una spirale, come sottolinea Luciano Canfora, nella quale ciascuna generazione passa il testimone del suo vissuto esperienziale, delle sue contraddizioni, delle sue lotte alla successiva, affinché il filo non si spezzi. “La continuità, – scrive Ciattini – sia pure accidentata e irregolare, non sta solo nel fluire del tempo, nel passaggio tra le varie fasi delle forme sociali, ma anche nelle diverse forme di coscienza che non sono separate da nette rotture”. Di qui l’attualità di Marx, pensatore inattuale, e di un suo paradigma interpretativo irrinunciabile, il nesso struttura-sovrastruttura, specie nella chiave di interazione biunivoca e di reciprocità che ne dà Engels nella celebre lettera a Bloch del 1890.

Ciattini si propone di utilizzarlo per cogliere il dipanarsi nella storia di alcune tra le più significative figure dell’ideologia nel loro stretto intreccio con le modalità di trasformazione del capitale: l’antropologia, che è poi la disciplina cui ha dedicato gli studi di una vita, la religione, “la più ideologica delle ideologie”, le teorie sulla condizione delle donne, tra potenza generatrice, biologica, e inferiorità ed esclusione sociale.

“I due motivi centrali di questo libro - scrive ancora Ciattini - [sono] la continuità storica e la stretta, ma mediata relazione tra dimensione ideologico-rappresentativa e dimensione economico-sociale”.

Il termine ideologia è assunto di volta in volta nelle diverse accezioni della riflessione marxiana: sistema di idee e di opinioni di una classe o di un gruppo sociale, falsa coscienza e operazione di mistificazione culturale al servizio della classe dominante (da L’ideologia tedesca), processo generale della produzione di significati e di idee in stretta correlazione con la struttura materiale (dal primo volume de Il capitale).

L’Autrice passa questo paradigma, di cui intende valersi, al vaglio della critica del pensiero post-moderno, con particolare riferimento a J. F. Lyotard e alla “vita liquida” di S. Bauman. I canoni del post-moderno - la fine della storia, la valorizzazione del frammento in opposizione alla totalità, l’ermeneutica, l’indipendenza della virtualità dalla realtà, la moltiplicazione e l’apprezzamento delle differenze, le molteplici sfaccettature di ogni identità complessa, la fluidificazione delle relazioni sociali - sono, a suo modo di vedere, l’esito e la manifestazione, ossia l’ideologia che deriva e retroagisce sulle nuove forme del capitalismo globalizzato o post-capitalismo, un capitalismo flessibile, un sistema di potere che è “più scaltro, più sottile di quello del totalitarismo”, come già avvertiva M. Foucault. È un tardo capitalismo che si fonda sullo smantellamento dello Stato sociale, sul neocolonialismo, sulla devastazione irreversibile delle risorse della Terra, sulla guerra planetaria; che atomizza gli individui facendone anonimi consumatori compulsivi, che si avvale delle reti telematiche per istituire una sorveglianza lucrosa che rende (ma non sempre e ovunque) superflui manganelli e lager.

La cultura ibrida di cui parla Bauman è cioè generata, secondo Ciattini, da un “sistema ugualmente impositivo e spietato”, quello “della postmodernità, che si palesa nella frammentazione, nella differenza e nella diseguaglianza, le quali sono tuttavia prodotto di un processo unitario governato dal capitalismo multinazionale”. Per queste ragioni, l’Autrice preferisce parlare di ideologia, anziché di cultura, termine utilizzato dall’antropologia classica, ma troppo generico e svincolato dal contesto socio-economico, o di discorso, parola che produce le cose smaterializzandole, come l’intende l’ermeneutica. Critica la curvatura sul frammento, a discapito delle deprecate grandi narrazioni, giudicate dal post-moderno impossibili o obsolete, così come critica l’accento esclusivo posto sulle differenze, che trascura l’esigenza di universalità dei diritti umani.

Il suo approccio all’antropologia, dunque, non è quello positivistico di E. Burnett Tylor e di J. G. Frazer, che in qualche misura discende dal colonialismo ottocentesco e lo sottintende, anche se “ha tentato disperatamente di attaccarsi alla cosiddetta neutralità della scienza”; né è quello postmoderno ed ermeneutico, che sbocca in un relativismo che Ciattini non condivide[1].

La sua vuole essere un’antropologia dialettica che si avvale per le sue analisi del nesso struttura-sovrastruttura, nel senso complesso più sopra ricordato. E di tale approccio fornisce interessantissimi esempi. Studia la santerìa cubana e, al suo interno, la storia del caso di Lucìa e della sua iniziazione legata al conflitto non esplicitato con la madre. Riconduce la diffusione del pentecostalismo in America Latina al “processo di passivizzazione delle masse popolari” dopo “la sconfitta delle correnti progressiste come la teologia della liberazione, l’affermarsi del neoliberalismo, in ambito politico-economico, e della società dello spettacolo, in ambito ideologico”. Esplora il feticismo diffuso fra i braccianti di origine africana nelle piantagioni colombiane della valle della Cauca o fra i minatori di stagno in Bolivia, ritrovando in amuleti e talismani “l’ottativo del cuore trasformato in presente felice”, per dirla con L. Feuerbach, e interpretando il feticismo come cifra e conseguenza del sistema capitalistico, nel quale le persone diventano cose e le cose persone.

Anche nelle riflessioni sulla condizione delle donne in tempi e luoghi diversi e più o meno remoti e sul loro ruolo nelle religioni, Ciattini si distacca dai percorsi più recenti del femminismo, il pensiero della differenza e il transfemminismo[2], per recuperare, in quella che definisce “questione femminile”, la contraddizione fra natura e cultura, sulla scia di S. Freud e C. Lévi-Strauss. Dimostra come l’inferiorità sociale imposta dagli uomini e interiorizzata dalle donne stesse, come pure la limitazione o l’esclusione dall’esercizio dei ruoli liturgici di maggior rilievo, siano legate alla pretesa maschile di controllo sulla procreazione, che ha dato esito anche alla contrapposizione, già criticata da C. Lonzi nei suoi Quaderni di rivolta femminile, tra uomo/cultura razionale e donna/natura emozionale.[3]

Alla segregazione e alla reclusione, ossia alla pretesa di possesso, le donne storicamente hanno reagito con la strategia del rifiuto tacito dell’atto sessuale che si configurava come una appropriazione violenta, uno stupro; hanno ottenuto la procrastinazione della conquista con l’imposizione di un lungo corteggiamento; hanno inventato cioè l’amore romantico come spazio di libertà. Ma, riflette Ciattini, l’unità basica della famiglia non è costituita dalla coppia eterosessuale, fragile e precaria, bensì dal legame tra madre e figli, a differenza del primo costante e inevitabile e, soprattutto, fondativo della civiltà della cura anziché della proprietà.

Se nella società industriale, grazie al lavoro extradomestico, le donne hanno acquisito autonomia e parità, ciò non ha impedito, anzi se mai acuito, l’incremento dello sfruttamento sessuale, fino a giungere all’attuale diffusione del femminicidio che ci parla della difficoltà - o addirittura impossibilità - per gli uomini di accettare un diniego o qualunque altra affermazione di libertà femminile.

Vorrei chiudere con un interrogativo che l’Autrice ci propone a proposito di una concezione del mondo alternativa al dualismo cartesiano corpo/mente, sulle orme di altre visioni offerte dalle filosofie orientali, come il buddismo, o dai culti afro-americani, come la Regla de Ocha, visioni olistiche che tendono alla “realizzazione di un rapporto armonico con se stessi, con la natura e con gli altri”. “È possibile formulare una visione di tipo olistico, che non rinneghi l’approccio scientifico e che ci consenta di conoscere come sistema interrelato la stessa società contemporanea?”. E, più in generale, aggiungerei, è possibile superare la logica duale, che si risolve inevitabilmente nel progetto di distruzione dell’altro in quanto supposto nemico, trasformandola in un dialogo aperto a più prospettive e più voci, più sfaccettature di una realtà complessa ma interconnessa?[4]

 

[1] A parer mio, però, il prospettivismo ermeneutico e il relativismo possono costituire un valido antidoto contro il dogmatismo, purché non scadano nello scetticismo e nel disimpegno.

[2] Pure, a mio modo di vedere, essi propongono prospettive e parametri validi come strumenti non solo di studio, ma soprattutto di pratica politica. Penso, ad esempio, alla società delle estranee descritta da V. Woolf in Tre Ghinee oppure al paradigma intersezionale di J. Butler e A. Davis.

 

 

[3] Va detto che una lettura diversa della primordiale segregazione delle donne “impure”, vale a dire mestruate, è proposta nel libro Il pane il sangue le rose di Judy Grahn, la quale interpreta la separazione volontaria di giovani e anziane come una scelta di libertà e di risignificazione del mondo.

[4] Due libri credo ci aiutino lungo questo percorso: Il Tao della fisica di F. Capra e Il Tao della liberazione di L. Boff e M. Hathaway. Così come credo che il paradigma intersezionale suggerito da J. Butler e A. Davis, che intreccia le molteplici appartenenze e i diversi condizionamenti (sesso, etnia, lingua, religione, classe sociale, formazione e orientamenti affettivi e culturali) che per ogni individuo si traducono spesso in forme di oppressione e sfruttamento, possa aiutarci nella costruzione del progetto dell’ “uomo onnilaterale” di cui Marx parlava nei Manoscritti economico-filosofici.

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