I 60 minuti che hanno cambiato le relazioni internazionali

I 60 minuti che hanno cambiato le relazioni internazionali

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di Daniele Lanza

 

60 Minuti.

Un capo di stato incolla su per giù un centinaio di milioni di ascoltatori – una massa in patria e una spessa coltre di curiosi ed analisti spalmati sui 5 continenti - per questo lasso di tempo.

Vuoi chi è in grado di seguirlo in lingua originale, vuoi chi deve fare affidamento al simultaneista in mezza dozzina di lingue planetarie…vuoi chi ne segue un brandello per poi stufarsi, chi lo segue per la metà e chi dall’inizio alla fine senza interruzioni : sia quel che sia, si tratta di qualcosa con rari precedenti nella storia delle comunicazioni dirette tra governanti e governati, dove in genere i messaggi di Capodanno non superano i 10 minuti e quelli per le situazioni di calamità non ne raggiungono nemmeno la metà (mi si citi un caso analogo perché al momento non riesce a venirmi alla mente).

L’evento ha una magniloquenza obbligata e non può essere altrimenti, considerate le implicazioni geopolitiche su scala sconosciuta alle società europee sin dal secolo appena passato: per minuscolo che sia il territorio effettivo delle repubbliche in guerra, rappresenta potenzialmente l’innesco di un effetto domino (ve n’è una mezza dozzina di varianti diverse e non mi sogno di poterli prevedere e descrivere) che – per analogia - riporterebbe il vecchio continente a date e manciate di anni seppellite nei libri di storia da una generazione. Semplicemente non si capisce quanto si possano tirare indietro le lancette: al 1989? O invece al 1939? O forse addirittura al 1914?! (tra le varianti).

Anche l’osservatore non preparato (ma attento), si rende conto che quei 60 minuti sono assai più che un discorso bensì molte cose intrecciate assieme.

Ragionando sul breve termine si può postulare che sia il sermone in una grande chiesa per preparare il popolo ad eventi bellici (o di peso equivalente a quello bellico) imminenti, se non direttamente pianificati perlomeno ragionevolmente previsti.

Qualcun altro, un analista ambizioso del lungo termine o altro di impostazione più filosofica, potrebbe affermare che si tratta del “calcio di inizio”, o - per esprimersi con maggiore profondità – della sorgente di un nuovo flusso della realtà geopolitica per il secolo attualmente in corso: direzione e intensità e durata di questo flusso sono oggettivamente indefinibili al momento (in particolare all’esercito di analisti, professionali o amatoriali, che pretenderanno continuamente di conoscerne con precisione la prossima svolta).

Un evento che idealmente e materialmente vorrebbe riportare la temperatura alla soglia critica, raggiunta la quale, le pareti della realtà iniziano a cambiare forma, sciogliersi per tornare ad un magma indecifrabile che ne genera di nuove. Il senso globale dell’ora di discorso al cospetto della nazione è questo: un messaggio che va molto al di là della massa di informazioni specifiche sulla questione ucraina disseminate lungo la strada, di minuto in minuto…fondamentali per i tanti la cui forma mentis mira al concreto, ma che per il sottoscritto passano  di certo in secondo luogo.

A scanso di fronzoli e riflessioni suggestive, sento di dover dire a chi legge ed ascolta che dovrebbe comprendere almeno un fatto tra tutti (è sufficiente): quell’ora di parole di fronte a uno schermo è un testamento.

Si tratta del TESTAMENTO di uno statista (con tutto il bene o il male che si possa pensare del personaggio in questione), un manifesto che idealmente dovrebbe dettare la filosofia d'azione di uno stato più di quanto farebbe una costituzione stessa. Ha il medesimo valore che aveva la dottrina di Monroe (1823) a suo tempo: l’Ucraina stessa non è che un casus belli, una pedina di un meccanismo assai più vasto e instabile, quello dell’arena delle superpotenze the great game” nel quale si vorrebbe, idealmente, che la madre Russia facesse in qualche modo ritorno.

Questa è l’idea di fondo che travalica l’aspetto materiale della situazione. Idea che viene espressa, formulata, malgrado la complessità, in modo relativamente semplice, diretto…a disappunto di molti che l’han seguita con attenzione. Il caso ucraino in fondo non è che una frazione, concettualmente parlando, del lungo discorso presidenziale: la patata bollente del momento presente, la periferia minacciata, il caso del giorno anch’esso da inquadrarsi e incastrarsi in un’omerica narrazione patriottica che parte da tanto lontano da renderne le premesse intricate (per l’utenza meno preparata).

Come spesso capita si parla di un determinato fatto per riferirsi in realtà ad un altro: si sfrutta un episodio occasionale per innescare una riflessione molto più generale. A mente fredda il messaggio di Putin riguarda solo marginalmente l’Ucraina e le sue repubbliche ora riconosciute: il vero e assoluto protagonista è la Russia stessa nel senso più ampio trasfigurato del termine storico, il suo presente, passato e futuro.

Affrontiamo allora, la premessa (prima ventina di minuti) del discorso di cui si parla.

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I DUE VLADIMIR (Ilic e Vladimirovic, ovvero da Lenin a Putin)

Per arrivare al nostro 2022 si parte dal 1922 (!).

Centenario emblematico nella presente situazione, normale come premessa di un discorso alla nazione che doveva durare un’ora, ma che vuole fare riferimento anche ad anni e pure a secoli precedenti sfiorando qua e là l’imperiale secolo XVIII.

Niente giri di parole: il “testamento” cui ho accennato nell’introduzione possiede, nella sua impegnativa e tortuosa premessa e malgrado la complessità del problema, una sua semplicità, una sua logica interna e conseguentemente una sua certa efficacia. Certo lascia tra lo sbalordito e il deluso l’utenza più evoluta, anche volendo essere simpatetici col presidente in carica e le sue idee. Se un merito si può attribuire al discorso presidenziale è la sua azione chiarificatrice: esso sgombra il campo di una ventina d’anni di equivoci terminologici, distorte percezioni psicologiche e altre cento forme di confusione. Detto in parole semplici, la massima autorità in carica dello stato si è espressa in modo tale da coincidere in massima parte con quel nazionalismo “grande russo” che caratterizzava la tarda era zarista. Né più né meno.

L’eredità storica della Rivoluzione d’ottobre è come rimossa dal corpo sano del paese alla stregua di una malattia: ad essa si ascrive il peccato originale da cui deriva la decomposizione del grande “edificio” russofono. Un capovolgimento radicale di prospettiva, senza più sconti, nella cui ottica LENIN da pater patriae diventa portatore di rovina della patria (intesa come grande patria) nel lunghissimo termine. Decadenza e disgrazia è il comunismo, sono i bolscevichi.

Che dire, non che gli indizi fossero mancati: negli ultimi venti anni si era cumulato un variopinto numero di affermazioni (e azioni) in merito sufficiente da farsi un’idea della visione del capo di stato e della sua élite, ma mai una dichiarazione così diretta, brusca, plateale e ufficiale. Un manifesto del destino che essenzialmente spaventa e scontenta molti, ma in particolare tutta la macro-galassia fuori della Russia che si riconosce in quello che chiamano “sinistra” (termine desueto, ma lo utilizzerò qui per forza di cose): per la prima volta la sinistra “soft” – quella liberale, arcobaleno, occidentale – si ritrova a fianco di quella più dura e pura, ossia di matrice comunista tradizionale, combattente per natura, permeata da sempre di una latente forma di nostalgia sovietica (l’incarnazione “non occidentale” della sinistra, per semplificare sbrigativamente). Questi ultimi, costernati e mazziati, a rimuginare ed esternare il proprio sdegno su tutta la rete.

Allora. Compreso lo sgomento di questa fascia d’utenza che si sente chiaramente tradita, e a beneficio di tutti gli altri a fini di comprensione, dedico questo capitolo a sottolineare (non “trattare” che la materia è assai lunga) alcuni fatti essenziali, che in questi frangenti, ho idea, non siano mai del tutto filtrati (non solo nell’ascoltatore medio, ma talvolta anche nell’animo dell’esperto.

Domanda di base – impossibile - da cui tutti occorre partire: COSA È ESATTAMENTE LA RUSSIA? E soprattutto COSA era esattamente quella che i manuali chiamano URSS ? Qualcuno di voi l’ha compreso per davvero? Non mi riferisco al fondamento legale o alla struttura amministrativa qui (che tanti conoscono in modo iper-dettagliato, prego cortesemente costoro di non riversare tale zelo qui, fraintendendo l’interrogativo), ma a qualcosa di ben più profondo. Mi riferisco alla natura – filosofica e reale – di quello stato, cosa rappresentava intimamente per i propri abitanti, in primo luogo, e per coloro che abitanti non erano, in secondo.

Interrogativo ai massimi sistemi, fuori misura e arrogante. Eppure, ripeto, qualcuno tra chi legge ha veramente colto il cuore del problema cui mi riferisco qui? (a questo punto mi rivolgo provocatoriamente anche ai professionisti che abbiano modo di leggere tutto questo). Ancora una volta, mi servo delle beneamate lettere dell’alfabeto.

- A : FONDAMENTO. la Russia, sebbene la si definisca “paese” o “nazione” è qualcosa il cui reale significato si colloca un gradino al di sopra di questo. Sebbene rientri legalmente nelle definizioni riportate, va necessariamente oltre l’accezione più semplice dei sostantivi virgolettati: per estensione geografica e demografica è più equiparabile ad un continente. Una nazione sì, ma non nel senso europeo occidentale del termine quindi (come non lo sono Stati Uniti o Cina): non si tratta di un’entità comparabile a Belgio, Olanda, ma nemmeno Francia o Germania, quanto piuttosto ad un continente lentamente inglobato, assimilato dalla macchina dello stato russo, con mezzi diversi di era in era, come risulta in quanto osserviamo oggi sulle carte geografiche e i manuali di antropologia del cosmo ex sovietico.

Questo non sta a sottintendere una “superiorità”, non implica un diritto diverso dagli altri, ma senza ombra di dubbio una storia differente da quella della maggior parte degli interlocutori politici contemporanei che cercano un dialogo con essa. La Russia è un contenitore: vasto e al tempo stesso impermeabile (in realtà permeabile, ma in tempi e modi assolutamente propri, secondo il suo unico prisma interpretativo), un contenitore distinto rispetto al contiguo ensemble di stati-nazione dell’Europa occidentale, malgrado la comunanza (relativa) di etnia e usi. Come afferma lo slavista preparato, la Russia “frega l’occidentale” perché malgrado un’apparente somiglianza esteriore cela in profondità una faglia di divisione che la separa: equivoco che invece non si pone quando si parla – ad esempio – di cinesi e indiani, la cui distanza culturale è considerata semplicemente scontata. Con tutto questo intendo dire che categorie e definizioni appartenenti all’immaginario euro-occidentale NON sempre possono applicarsi al contesto russo: gli stessi concetti di destra e sinistra cui molti sono pertinacemente aggrappati in occidente, hanno significato alterato da queste parti. La prima e più grave forma di arroganza è voler applicare concetti nostri a civilizzazioni altre, con tutta la confusione che ne nasce in seguito. Come direbbe Kirill da Ekaterinburg (!) a due parigini che discutono di politica:”Jerome, tu sei di destra. Jean, tu sei di sinistra. E io? Io sono russo”.

- B : MARX, benestante ebreo tedesco della sua era modellò il suo pensiero ad immagine della società in cui visse, dalla Germania all’Inghilterra (semplice e inevitabile). È per gli stati occidentali che era prevista la sua visione di riforma dell’umanità. Una “universalità” un tantino occidentale quindi? Questo, credo sia di dominio comune. Come tutti sappiamo, le circostanze storiche fanno avverare l’imprevisto, l’apoteosi del paradosso: una settantina d’anni dopo il manifesto di Marx, il suo verbo (convenientemente aggiornato ed interpretato da un brillante apostolo di nome Lenin) si afferma proprio là dove nessuno – e tantomeno il suo profeta – si sarebbe mai aspettato, in quell’indefinibile immensità che iniziava alla periferia estrema d’Europa per poi sfumare, dopo migliaia di miglia di nulla, in cento differenti gangli del continente asiatico. Il socialismo, pensato per l’uomo dell’occidente, era in fondo rigettato da quest’ultimo e andava invece ad affermarsi presso un altro uomo, più distante di mentalità, più indecifrabile e probabilmente più impreparato ad accoglierlo.

Il cuore pulsante, la CHIAVE di ogni cosa, sta nel passaggio sopra (B).

La Rivoluzione d’ottobre sarà scintilla generatrice di un universo materiale e morale per una larga fascia dell’umanità nelle generazioni a seguire, i suoi infiniti aspetti diverranno oggetto di trattazione accademica per XX secolo (prima, durante e dopo): io qui vorrei tuttavia focalizzare l’attenzione su un aspetto in particolare che concerne il paese in cui prende piede. La sua affermazione in terra di Russia  rappresenta un’autentica UNIONE DI OPPOSTI.

L’espressione sopra – che suggerisco di scolpirsi in mente – è una cifra preziosa della società che ne genererà (non l’unica chiave di comprensione per carità, non mi si fraintenda: ma un suo aspetto profondo a lungo negletto, trascurato e negato, il che porta poi a non capire determinate reazioni e atteggiamenti della società di cui parliamo). Unione di opposti dunque: una dottrina (socialismo) allora “modernissima” – troppo moderna e rivoluzionaria per le stesse società europee per le quali era destinata – che va a spalmarsi, instaurarsi presso una società arcaica, quasi PREMODERNA!! La società che ne emerge è il risultato dell’amalgama di tali elementi: l’avveniristico che si fonde con l’antico, un millenarismo rurale assimilato a forza in tempo record nella titanica metamorfosi (industrializzazione) che si richiede all’intera società. Sul piano formale, legale, il “nuovo” socialista si impone totalmente: non esiste altra realtà che il nuovo status quo rivoluzionario e quanto esisteva prima (il “ciarpame” tradizionalista che rendeva arretrato il paese) doveva cadere nell’oblio. Così fu in molti sensi.

Folle illusione, tuttavia, ritenere che un sostrato così importante scomparisse come se non fosse mai esistito. L’analogia più efficace che possa venirmi alla mente riguarda le celeri conversioni religiose di popoli extraeuropei: la cristianizzazione di interi segmenti dell’umanità precolombiana entro le maglie della quale si percepisce la permanenza di gesti e tradizioni assai anteriori mai del tutto dimenticati (o solo apparentemente dimenticati sul piano cosciente, ma ancora attivi nel comportamento quotidiano): quel meme che appare e scompare, serpeggia, permea cose e persone a differenti gradi di intensità secondo tempo e circostanze. La verità oltre la retorica (in cui molti nostalgici comunisti credono tutt’oggi) è che la società nuova sovietica che prende forma sin dagli anni della rivoluzione è proprio questo: una struttura moderna, all’avanguardia in ogni senso, ma che al tempo stesso conserva in sé medesima un’impronta profonda di quel conservatorismo che formalmente si voleva eliminare. Superato lo è stato in un certo senso, ma NON cancellato dal dna culturale della società in questione che lo manterrà sempre anche senza renderlo del tutto visibile (ad un livello molecolare, si direbbe col linguaggio moderno della genomica).

Futuristico ed arcaico intimamente coesi, il primo con assoluta preminenza sul piano formale e giuridico, unica realtà ufficialmente riconosciuta e il secondo, al di sotto della superficie (somiglia ad una suggestiva sceneggiatura). Lo storico professionista di marca convenzionale – zelante compilatore e “custode morale” di archivio - potrà criticarmi a non finire, ricordandomi gli interminabili sforzi dell’ideologia ufficiale di stato, finalizzati al rinnovamento della società senza compromessi (!), eppure lo storico della cultura (quale mi propongo d’essere) con un più eclettico ed eterodosso approccio potrebbe replicare con caleidoscopico oceano di input dalle più impensabili branche del sapere.

L’UNIONE SOVIETICA rivoluzionaria senza ombra di dubbio (eppure profondamente gerarchica inquadrata e burocratica), anti-reazionaria senza ombra di dubbio (eppure patriottica/nazionalista ad un’intensità che vede pochi paragoni tra gli stati dell’occidente suoi coevi), internazionalista e faro dei popoli senza compromessi (eppure intimamente identitaria sul piano estetico ed etnocentrica nella sua preminenza dell’idioma franco -il russo - della Cccp ). Una creatura chimerica che unisce elementi antitetici, dei quali alcuni sono espressi ufficialmente mentre altri no (vale qui l’analogia del DNA dove alcuni caratteri sono espressi nel fenotipo, mentre altri – recessivi – rimangono nella “banca dati” del genoma, oscurati ma non cancellati a pronti a ripresentarsi in modi imprevedibili)

 

DUE VLADIMIR (Ilic e Vladimirovic...ovvero da Lenin a Putin /parte seconda)

Chi ha creduto con tutta l’anima nella Rivoluzione d’ottobre, l’ha voluta e considerata “fuori della storia” ovvero come movimento tellurico che modificasse il corso del destino dell’umanità, quale era sempre stato, per indirizzarlo verso qualcosa di diverso. È stato davvero così? Sì…e anche no.

La rivoluzione “universale” – come la si vuole in prospettiva comunista ortodossa – è stata in realtà anche e soprattutto una rivoluzione “russa”, come la si vuole invece in ottica nazionalistica: in una prevale un più visionario carattere messianico e cosmopolita, nell’altra affiora una più grezza autoctonia patriottica di matrice grande russa. Appiattirsi acriticamente su una delle due prospettive mortifica la realtà nella sua totalità.

Mi fermo obbligatoriamente qui senza varcare una soglia che non mi è concessa: il vero dibattito sulla questione a ben vedere ci porterebbe all’immemore dicotomia politico-filosofica tra Stalin e Trotskiy (che per la galassia comunista del XX secolo può ricordare quanto a intensità e problematicità la contrapposizione tra Platone e Aristotele nel pensiero antico! Impropria iperbole, non prendetemi alla lettera per cortesia) ed è cosa che non si può affrontare qui né in molti altri luoghi. Eppure, quale è allora il nodo di questa serie di puntualizzazioni che ora potrebbero scoraggiare il lettore? Niente parole inutili: faccio io lo sforzo di andare a toccare il nervo vitale.

Umanamente, storicamente comprensibile la diatriba che vede di tanto in tanto i partigiani di opposti schieramenti bianchi e rossi, scontrarsi sulla questione dell’eredità della storia russa. La Russia zarista e l’URSS sono distinti segmenti di un sentiero che è il medesimo se lo si osserva con logiche di lunghissimo corso, solo collocati in diverse sezioni temporali di un medesimo continuum: entrambe servono il cosmo slavo orientale in un certo senso. I preparatissimi, coltissimi (o meno) pasdaran delle mostrine zariste o della bandiera rossa sono prigionieri concettualmente dei limiti dell’età moderna: non riescono a cogliere quanto entrambe le loro preziose dimensioni di autoidentificazione siano relative rispetto ad un quadro assai più vasto di lungo termine.

Ora, per essere onesti, L’URSS non è semplicisticamente (come gli antirussi urlano) il mero proseguimento – sotto differente guisa – di quella che era la potenza precedente dall’aquila a due teste, e malgrado tutto a questa è sì strettamente legata anche se in modo più indiretto, semanticamente più complicato: la grande casa sovietica è un avvicendamento violento, tumultuoso, ricco di novità per quanto imperfetto, ma sempre secondo un canone eonico della storia russa che la prescinde tanto quanto prescinde lo zarismo stesso. Quest’ultimo in stato di pietosa decadenza, di micidiale inadeguatezza, fu necessariamente esautorato dalle leggi della storia. La dimensione culturale occidentale cui lo zarismo era coeso sin dal tempo di Pietro il grande – cui va il merito di un’epopea di sviluppo che traversa i secoli – si era arenata alle soglie dell’età industriale ed il liberalismo oramai imboccato dall’intero occidente risultava ora inadatto ai bisogni del cosmo russo che necessitava di un sentiero alternativo. Questo che in un certo senso tornava a dilatare la faglia di divisione tra Russia ed Occidente riportandola ad un’era anteriore rispetto al bicentenario imperiale inaugurato dalle riforme petrine. Che questo sentiero alternativo si chiamasse “socialismo” ha un’importanza relativa: esso era ciò di cui il paese reale aveva profondamente bisogno. Non si intende qui relativizzare e svilire esclusivamente il socialismo. Anzi, in realtà scegliendo una prospettiva di analisi ancor più estesa cronologicamente si potrebbe dire che lo zarismo imperiale stesso (cui Putin si ispira) è anch’esso relativo a suo modo, in quanto non presente prima dell’avvento di Pietro il grande. Utile sì, ma anche artificiale, imposto in tanti sensi: un occidentalismo di comodo e di facciata, che celava molto altro e che aveva deviato la rotta della civilizzazione slavo-orientale al di fuori del proprio seminato per due secoli prima di ritrovarla (forse) sotto il socialismo che pur di provenienza esterna poteva essere adattato al contesto russo(?), consentendo di rivalorizzare concetti comunitari dell’arcaica cultura slava andati perduti(?). Sposando tale anomala interpretazione, lo studioso eccentrico ed eterodosso potrebbe addirittura affermare che il socialismo fu un ritorno alle origini(?!) ripristinando sotto insolite spoglie moderne qualcosa che era prima della parentesi Romanov ?!?

Il lettore noterà dall’abbondare di punteggiatura esclamativa e interrogativa che caratterizza le ultime righe la chiara natura speculativa e fantasiosa dei punti che si lasciano cadere lungo la via: provocazione voluta e variopinta, non ancorata alla realtà, non degna di nota nella scienza storica, quanto piuttosto nelle astruse costruzioni che la filosofia della storia di tanto in tanto ci offre (ma è un’altra materia).

Quel che è certo è che nella sua incarnazione sovietica socialista, la Russia recupera QUALCOSA. Cosa esattamente? Probabilmente un’eccezionalità perduta. Un “sonderweg” (cammino speciale) del tutto particolare che si distingue dalle obsolete ed effimere pretese di grandezza degli imperi europei coevi: il filosofo Berdjaev in uno dei suoi passaggi più visionari, paragona la terza internazionale controllata da Mosca alla TERZA ROMA di quasi mezzo millennio prima (…). Non vado a immischiarmi con le elucubrazioni di un filosofo (!), ma è chiaro che qualcosa di vero affiora dall’iperbole menzionata: nel socialismo, Mosca recupera il monopolio su una dottrina universale quanto poteva esserlo il messaggio messianico ispirato a Costantinopoli di tanti secoli prima. Qualcosa di spirituale, un’ideale che superi le superfici della materia, non più impersonato credibilmente dalle chiese esistenti, corrotte e decadute (agli occhi poi di una società sempre più secolarizzata): ecco quindi che il verbo marxista leninista assolve una funzione unica, insostituibile.

Grazie al socialismo Mosca recupera – per metterla in questi termini – lo slancio verso la grandezza non solo territoriale, ma concettuale: può mettere credibilmente in campo un nazionalismo nuovo che supera l’accezione ristretta e ostica che il termine di per sé avrebbe, vale a dire un sovra-nazionalismo al di sopra della singola nazionalità (tantopiù del più grezzo etnonazionalismo). Qualcosa di comparabile al patriottismo civico della Francia rivoluzionaria di oltre un secolo prima, ma con la differenza che si dovevano gestire una moltitudine di nazioni. In ultimissima istanza, volendo analizzare e dare una definizione che vada sino in fondo, il “patriottismo civico” della costruzione sovietica era un nazionalismo che supera sé stesso (non nel senso di “ultranazionalismo” quanto in forza al di sopra delle altre, che in contesto non secolarizzato ricorderebbe le prerogative papali o – per l’appunto – quelle bizantine o romane, da impero premoderno).

Signore e signori: i lunghi capitoli cui ho obbligato chi abbia avuto la pazienza di seguirmi sono la premessa…alla PREMESSA che Vladimir Putin ha scelto come introduzione del suo manifesto del destino di ieri sera. La verità, a mio personalissimo avviso (mi prendo responsabilità di una interpretazione di eventi talmente complicati) è assai più articolata di come il presidente la mette, benché colga alcuni punti. Mi spiego…

Sì, fu LENIN a volere imporre la struttura politico-amministrativa in nazionalità per il nascente stato rivoluzionario (che alla fine dell’era sovietica erano 15). Lenin certamente NON desiderava la disintegrazione territoriale dell’ex impero zarista (una parte critica dell’opinione pubblica grande russa – indispensabile per vincere la rivoluzione in quegli anni drammatici – l’avrebbe percepita come un tradimento della patria dopotutto) e in linea di massima era fermamente intenzionato a garantirne la tenuta. Ma come? Garantito il diritto di autodeterminazione ad ogni singola nazionalità come si poteva evitare un eventuale deriva di scissioni??

Semplice (ma non troppo): con un geniale escamotage concettuale e pratico/amministrativo. Nella logica rivoluzionaria bolscevica il PARTITO doveva comandare sulla vita del paese (le cui istituzioni ne erano un riflesso) e il partico era UNICO: tante filiali e ramificazioni diverse, quanto era eterogeneo l’ex impero, ma una sola testa, un solo comando. Le repubbliche erano legalmente 15, certo e tutte libere…ma la medesima costituzione che garantiva tale diritto era la stessa che contemplava il Partito comunista sovietico come unica e assoluta forza vigente (sorgente del sistema): forza politica che comandava dall’interno ognuna delle repubbliche costituenti l’unione.

In parole altre vi erano 15 entità – formalmente libere di andarsene – ma un unico encefalo per tutte (il PCUS: e questo stava a Mosca e non concepiva altro che l’unità). Secondo tale modello di ingegneria costituzionale si trattava quindi non di 15 corpi differenti, quanto 15 teste di un unico corpo. Questo fu come si riuscì a trovare l’unità nella diversità. Il lettore tenga in considerazione – prego – che qui non si critica né si avalla il sistema descritto, ma lo si osserva semplicemente, aggiungendo per onestà intellettuale da parte di chi scrive nei confronti di chi legge l’opinione personale che malgrado il carattere non esattamente democratico dell’ingranaggio descritto, esso garantiva una stabilità fondamentale e una sicurezza come non ve ne erano né prima né dopo (questo è un punto di vista privato). Che se ne possa pensare e giudicare, anche questa contraddizione contribuisce a rafforzare la natura “chimerica” della costruzione sovietica, nel bene o nel male.

Il punto debole della sovra-unità della grande casa sovietica era quindi proprio questo: che essa, considerata la concessione della facoltà di autodeterminazione alle repubbliche garantita da Lenin, si basava sull’esistenza del partito. Il PCUS stesso era il garante dell’unità dei popoli dell’unione, tanto quanto lo TSAR lo era nella compagine imperiale dell’era precedente. Come a dire, parafrasando :“si rimarrà uniti fintanto che esisterà il partito e saremo socialisti!”. Lenin ha affidato l’avvenire e l’integrità geografica di una galassia culturale come quella russa ex imperiale ad un fondamento ideologico (precario al pari di ogni costruzione umana) come se esso fosse eterno! In questo egli ha oggettivamente commesso un errore, con tutte le sue buone intenzioni. O forse lui stesso non intendeva dovesse essere “eterno”? Nessuno potrà saperlo perché dopo di lui le cose si assestarono e cristallizzarono come si sa.

Il collasso della grande casa nel 1991 fu definito da Putin come “la più grande catastrofe del XX secolo” per la Russia (citazione nota): questo, ragionando a mente più lucida porterebbe a ritenere come forse il presidente non abbia fino in fondo espresso il suo reale pensiero: l’impostazione di netto rifiuto del comunismo che emerge dal discorso – e che ha provocato lo sdegno di tutta l’utenza comunista che ho il piacere di seguire da anni – è forse (oserei osservare) stata una necessità di forza maggiore: può essere che a scanso di un suo reale sentimento in materia (che deve essere più sfaccettato rispetto alla dichiarazione pubblica) abbia deciso più politicamente di “scegliere” per potersi mostrare compatto e comprensibile di fronte all’opinione pubblica del proprio paese in un momento critico. Nello scegliere definitivamente a quale patriottismo rifarsi…ha dovuto tagliare un ramo, sacrificare un pezzo importante di “patria” (quella della pluridecennale memoria sovietica) al fine di poter presentare una narrazione più lineare, organica e non contraddittoria: per evitare le accuse di comunismo (che all’estero infuriano) e presentarsi in modo più “fresco” (non dimentichiamo che spesso il rifarsi alla tradizione sovietica sa di “vecchio e ammuffito” per una fascia piuttosto alta dell’opinione pubblica interna).

Il presidente di Russia ha per così dire fatto una scelta importante nella memoria condivisa da impostare come narrazione patriottica istituzionale e lo ha fatto a spese di una parte che forse avrebbe dovuto preservare di più.

A mio avviso, tuttavia, non è nemmeno questo la parte più critica del discorso: ce n’è ancora un’altra, che le sovrasta tutte e consiste nell’ASSENZA (spiego nel prossimo e conclusivo).

Vladimir Vladimirovi? Putin molto prima di diventare un politico è stato un militare, ai massimi livelli. Tutti i militari, di ogni grado e ruolo, prendono e danno ordini naturalmente: quelli del suo rango, tuttavia, evadono di un singolo passo questa soglia elementare, accostandosi a quel qualcosa che si chiama missione. “Missione” è qualcosa di più che un ordine: ha accezione concreta che consiste per l’appunto in un obiettivo imposto dall’alto, ma al tempo medesimo ne ha anche un’altra più profonda che la precede, la supera in ampiezza sottintendendo un’identità morale da parte di chi agisce. Rappresenta in altre parole l’ordine che va oltre la mera esecuzione, ma presuppone la finalità, la presenza di una scala di valori in ultima istanza.

L’attuale presidente di Russia apparteneva a quella razza di individui che non vestiva l’uniforme per salario a fine mese o un posto assicurato (non si arriva alla posizione che deteneva con tale mentalità) bensì con visioni – condivisibili o meno – che poi trasferirà alla successiva carriera politica. Uno di quegli elementi – di quelli altamente intelligenti chiaramente, non il nazionalista con paraocchi – che non hanno mai accettato la disintegrazione della casa sovietica o meglio della “Russia-potenza” che per essi erano sinonimi.

Vladimir Vladimirovi? Putin ha essenzialmente ESAURITO tale carriera – oltre 20 anni ai vertici – sebbene rimarrà ancora in carica per parecchio tempo presumibilmente: il grosso del suo tempo terreno a disposizione è andato e lui ne è consapevole (sbaglia chi dice che non lo sia). Questo apre uno struggente dilemma sul destino della “missione”…sì, perché la sostanza fisica può deperire, squagliarsi, ma il senso mistico della “missione” resta inalterato. Che fare? Come comportarsi? Di regola gli uomini politici si scelgono con cura un successore, “delfino”: lo si cerca, seleziona in mezzo a molti, lo si coltiva e fa crescere con molto tempo e pazienza, sperando non vi siano imprevisti o sorprese. Non è noto se il presidente di Russia l’abbia fatto (sembra davvero di no) e a prescindere da questo poi quali garanzie vi sarebbero che l’erede al trono si comporti davvero come dovrebbe? Che sia all’altezza del compito sul campo quanto lo era sulla carta?

No, niente delfini…o perlomeno, serve qualcosa di più risolutivo, di permanente che una persona di carne ed ossa potrebbe non poter assicurare. Il pensiero, l’idea che si pone è la seguente: forse, proprio la decisione da tempo maturata, e proclamata dal suo lungo discorso può considerarsi di per sé stessa come una forma di successione.

Anziché affidare ad un più giovane rampollo la propria eredità, Vladimir Putin ha preso una “decisione irrevocabile” per l’intero paese: una grave azione che - anche a fronte di grandi rischi economici e militari - ne forzi letteralmente le rotaie al di fuori del binario storico venutosi a creare nei 20/30 anni successivi al 1991, proiettandola nuovamente – costi quel che costi – nella perduta dimensione di potenza. QUALSIASI siano i presidenti che a lui seguiranno (affidabili o meno che siano), essi dovranno giocoforza adeguarsi al contesto globale che Putin lascia loro, ad un campo da gioco da lui stabilito secondo la sua visione.

E’ questa probabilmente un’interpretazione della realtà troppo astratta, troppo filosofica e priva di base scientifica eppure un’impressione resta: appare come se l’attuale presidente in carica anziché industriarsi a scegliere un leader ideale per la Russia, abbia invece scelto una “impostazione di gioco” alternativa per la Russia (Come una specie di ingegnere informatico che anziché limitarsi ad assumere un pilota/giocatore a gestire una nave virtuale – per dirne una - faccia in modo di operare su un livello più profondo di programmazione, ottenendo una differente struttura o posizionamento della nave medesima che ne faciliti il moto in una determinata direzione, a prescindere dal timoniere, almeno entro un certo limite. L’analogia è del tutto immaginaria, del tutto inverosimile che in modo pienamente consapevolmente Putin abbia escogitato tutto questo: perché se così fosse allora sfiorerebbe il genio o il diabolico).

Insomma, un’eredità che consiste non tanto nella scelta di un altro uomo dopo di sé, ma piuttosto in uno STATO DI COSE che lascia dietro di sé: il discorso di ieri nella sua totalità, simboleggia e riflette anche questo.

Eppure, manca sempre qualcosa.

 Putin parla a lungo, dice molte cose, più o meno condivisibili, parla del proprio paese e della sua storia secolare cui si rifà: nel farlo parla soprattutto dei suoi nemici, dei suoi rivali, delle minacce nascoste, aperte. Si sofferma di meno su quanto invece unisce, a prescindere dalla supposta minaccia, sorvolando come uno stato sul modello russo (per di più allargato ad altri satelliti della galassia ex sovietica) non può sopravvivere esclusivamente in funzione di una “contrapposizione al mondo esterno”. Che la madre Russia abbia come alleati “solo esercito e marina” (cit.) non era abbastanza nemmeno al tempo di Alessandro III (1890), figuriamoci nel 2022. Ad una premessa ambiziosa come quelle di ieri sera, occorreva accompagnare un altrettanto grandioso progetto unitario in teoria (come l’unione doganale in parte realizzata, chiamata “Unione euroasiatica” ad esempio) che tuttavia non ho sentito.

Siamo dunque di fronte ad una mancanza, una ASSENZA. Essa è un problema talvolta ancor più difficile da risolvere che non una “presenza” (non desiderata): quest’ultima può essere cancellata, ma invece colmare la prima è più arduo. La ricerca dell’UNO, di quell’elemento unitario, come proseguirà? Un tempo c’erano gli tsar con le loro dinastie investite dal cielo. Poi venne il tempo del partito unico investito del popolo. Adesso cosa ci sarà?

Questo l’enigma futuro del pianeta Russia, che nemmeno il testamento del suo ultimo presidente ha al momento sciolto.

 

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