Gramsci e l'indifferenza (oggi)

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Gramsci e l'indifferenza (oggi)

 

Gramsci odiava l’indifferenza; io odio la sua forma attuale, ossia la retorica della rassegnazione e dell’inevitabilità («non si torna indietro», «ormai è così», «non c'è niente da fare», «bisogna essere pragmatici»): la quale fa il gioco dei ricchi, dei vincenti e dei colonialisti stranieri (o non vi siete accorti della forzata americanizzazione del nostro paese?), che infatti la promuovono a tempo pieno attraverso i media da loro controllati (praticamente tutti), con la complicità di intellettuali senza coraggio e soprattutto senza idee e di tante brave persone che però proprio non possono rinunciare ai prodotti, alle interpretazioni e alle «esperienze» imposte dalla pubblicità e dalla propaganda.

Ma si capisce: questa è l’epoca dell’analfabetismo di ritorno, in cui lo studio, l’attenzione e l’istruzione che per millenni erano state intenzionalmente precluse ai popoli e che negli ultimi due secoli erano state finalmente conquistate, passo dopo passo, da lunghe battaglie politiche e sindacali, oggi vengono ignorate o disprezzate da molti di coloro che vi hanno accesso. Non solo; è pure l’epoca della non-coscienza di ritorno, vanificando anche in questo i sacrifici e l’impegno di alcune generazioni.

Ciò nonostante a livello sociale e culturale niente è scritto e non esistono destini manifesti: solo scelte e solo responsabilità. Notò Nietzsche che la storia dei grandi monumenti del passato (edifici ma anche opere di pensiero e strutture giuridiche) serve sostanzialmente a impedire al presente di adagiarsi nel fatalismo: perché è ovvio che se fu possibile in passato è possibile di nuovo. Non vorrei essere frainteso: sono convinto che il neoliberismo sia di gran lunga il regime più egemonico mai esistito, al punto da poter fare a meno del fascismo e di repressioni su larga scala (ma ci saranno non appena si sentirà minacciato); per cui ritengo più probabile che l’umanità si estingua piuttosto che trovi la forza di ribellarsi o anche solo di liberarsi dal consumismo e dall’edonismo. Non per questo ho alcuna intenzione di arrendermi: sono gli americani e i loro seguaci a combattere solo le guerre che sono sicuri di vincere.

Il pessimismo della ragione (sto citando ancora Gramsci) è inevitabile: il mondo sta peggiorando o comunque non migliora; peraltro come potrebbe visto che nessuno più agisce in nome di valori, virtù, un bene comune, bensì per avere successo e visibilità individualmente? Tuttavia quel pessimismo si trasforma in stimolo all’azione se accompagnato dall’ottimismo della volontà. Siamo in tanti, ancora, ad ambire a qualcosa di più dell’immediata realizzazione delle nostre pulsioni egoistiche: perché allora non coalizzarci, organizzarci, identificare dei fini per i quali valga la pena di impegnarsi e addirittura sacrificarsi, e così recuperare il piacere (che si basta: a quel punto vincere torna a essere l’obiettivo, forse lontano, e non più la condizione necessaria) della lotta condivisa, solidale, intergenerazionale, con amici e compagni?

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

 

Professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

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