Georgia, verso una nuova rivoluzione colorata?

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di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Da diversi giorni, la Georgia è sconvolta da moti di piazza diretti contro l’approvazione parlamentare della legge che sanciva l’introduzione dell’obbligo di iscrizione sul registro degli agenti stranieri nei confronti di qualsiasi associazione che copra almeno il 20% del proprio fabbisogno finanziario con fondi provenienti dall’estero. La misura nasce dall’esigenza di ridurre la capacità di condizionamento sulla vita politica nazionale esercitata dalle potenze straniere, identificabili non solo nella Federazione Russa, ma anche e soprattutto negli Stati Uniti. Il cui attivismo nello spazio ex-sovietico – e non solo – si realizza a tutt’oggi per tramite di una vasta costellazione di Organizzazioni Non Governative (Ong). La sigla identificativa Quasi-Autonomous Non-Governmental Organization (Qango) che le caratterizza tradisce la parzialità di queste associazioni, tutte riconducibili a uffici e agenzie statunitensi che se ne servono per portare avanti i loro piani strategici senza lasciare tracce che possano ricondurre a Washington, attraverso una sorta di diplomazia parallela e in buona parte privata condotta anche con l’ausilio di think-tank allineati come l’American Enterprise Institute (Aei) o il Center for Strategic and International Studies.

Un parte assai ragguardevole delle Ong fanno capo al Dipartimento di Stato, alla Cia e all’United States Agency for International Development (Usaid). Nonché al National Endowment for Democracy (Ned), una società privata senza scopo di lucro istituita dal Congresso nel 1983 dietro raccomandazione del direttore della Cia William Casey per provvedere al fruttuoso reimpiego dei finanziamenti pubblici stanziati annualmente per la “promozione della democrazia nel mondo”. In realtà, la funzione del Ned consisteva nell’assicurare la tutela degli interessi statunitensi all’estero evitando il ricorso alle metodologie di cui la Cia aveva fatto largo impiego nei decenni passati attirandosi forti critiche anche all’interno degli stessi Stati Uniti. Lo ha riconosciuto da senza mezzi termini lo stesso Allen Weinstein, che in qualità di architetto di punta del Ned dichiarò al «Washington Post» che «buona parte delle operazioni che portiamo avanti oggi [attraverso il Ned], venticinque anni fa era gestita dalla Cia». Sul piano pratico, il Ned si occupa, al pari delle agenzie e degli uffici dipartimentali parimenti coinvolti nei progetti di democracy building all’estero (!), di sovvenzionare, per tramite della strutturata rete di Ong, singoli candidati stranieri accuratamente selezionati, così da garantire loro maggiori possibilità di successo sul piano elettorale o per quanto concerne il rovesciamento di governi sgraditi senza ricorrere ai dispendiosi e ormai inadeguati metodi convenzionali tipici della Cia e del Pentagono. Il fine ultimo è quello di promuovere la diffusione di sistemi aperti al “libero mercato” e di installare al potere classi dirigenti alleate disposte a estinguere il debito di gratitudine contratto con i sovvenzionatori Usa con l’adozione di misure confacenti agli interessi statunitensi.

I georgiani ne hanno piena consapevolezza, avendo assistito giusto vent’anni addietro alla realizzazione sul proprio territorio della cosiddetta Rivoluzione delle Rose, un’operazione di “regime change” – costruita al pari delle altre sulla base delle teorizzazioni formulate dal politologo Gene Sharp in collaborazione con l’ex colonnello Robert Helvey – analoga a quella che aveva portato alla caduta di Miloševi? in Jugoslavia e pesantemente sovvenzionata dalla Open Society di George Soros. Il nuovo presidente Mikheil Saaka­shvili, un giovane avvocato sfornato dalla Columbia University e insediatosi in sostituzione del deposto Eduard ?evardnadze, assunse fin da subito una serie di iniziative di apertura all’Occidente, tra cui l’intensificazione degli incontri con gli alti rappresentanti della Nato per perorare l’adesione della Georgia all’Alleanza Atlantica, la concessione agli Usa del placet per la realizzazione di una base militare presso l’enclave di Krtsanisi e lo sblocco dei lavori per la realizzazione del cruciale oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, concepito specificamente per garantire l’afflusso di petrolio azero verso il mercato europeo aggirando la Federazione Russa.

Sotto la direzione di Saakashvili, il governo di Tbilisi accolse quindi centinaia di istruttori statunitensi preposti all’addestramento delle forze armate locali, e annunciò l’intenzione di avviare l’iter burocratico formale per l’ingresso della Georgia nella Nato. Aspirazioni che divennero oggetto di acceso dibattito in occasione del vertice dell’Alleanza Atlantica tenutosi a Bucarest nell’aprile 2008, nel corso del quale i partecipanti al summit affermarono la “politica della porta aperta”, che predisponeva il futuro allargamento della Nato e sanciva «l’accoglimento delle aspirazioni di Ucraina e Georgia in materia di adesione all’Alleanza Atlantica. Oggi abbiamo deciso che questi due Paesi diverranno membri della Nato». Ad appena quattro mesi di distanza, un gruppo di forze speciali georgiane penetrò nel territorio dell’Ossezia del Sud, lanciando un attacco contro la regione secessionista popolata prevalentemente da russi etnici a cui Mosca reagì con un pronto intervento militare, culminato con la cocente sconfitta dell’esercito georgiano e la definitiva sottrazione a Tbilisi del controllo de facto delle regioni secessioniste di Abkhazia e Ossezia del Sud.

La durissima risposta russa concorse a sottrarre gradualmente popolarità a Saakashvili, ma non ad arrestare il processo di avvicinamento della Georgia alla Nato.

Nel 2014, a coronamento dello sforzo militare sostenuto da Tbilisi con l’invio di circa 12.000 militari in Afghanistan in funzione di supporto alle operazioni condotte dalle Nato, la Georgia è stata integrata nella Enhanced Opportunities Partnership (Eop) dell’Alleanza Atlantica e selezionata come beneficiaria del Substantial Package. Entrambi i programmi mirano ad accentuare il livello di cooperazione e interoperabilità – sia in materia militare che di intelligence – tra le forze georgiane e quelle dei Paesi membri della Nato attraverso l’organizzazione di corsi di addestramento da affidare a istruttori europei e statunitensi e l’inclusione di personale georgiano nelle esercitazioni condotte sotto le insegne dell’Alleanza Atlantica. Sotto la presidenza di Salomé Zurabishvili, poi, l’apparato dirigenziale di Tbilisi ha ulteriormente intensificato gli sforzi diplomatici volti ad ottenere l’accesso non solo all’Unione Europea, ma anche alla Nato, in linea con lo scenario tratteggiato nel marzo 2021 dal segretario generale Jens Stoltenberg secondo cui «l’espansione dell’Alleanza Atlantica verso il Mar Nero rappresenta un prerequisito per la sicurezza europea e globale». Una prospettiva che, sempre secondo Stoltenberg, la Russia non avrà modo di scongiurare a differenza di quanto accaduto con la guerra-lampo dell’agosto 2008.

La situazione è mutata radicalmente per effetto dell’attacco russo all’Ucraina, e della contestuale ondata di sanzioni occidentali e contro-sanzioni russe che ne è scaturita. Per un Paese come la Georgia, collocato in una posizione geografica assai critica e privo di un peso demografico, economico e militare di livello, conformarsi alla linea dello scontro con la Russia seguita dallo schieramento occidentale rappresenta una opzione assolutamente suicida. La nazione si ritroverebbe non soltanto isolata dal punto di vista economico-commerciale, ma anche esposta a una ritorsione militare russa dagli effetti potenzialmente ancor più devastante rispetto a quella del 2008 senza poter contare sul supporto della Nato, già impegnata a sostenere l’Ucraina tra difficoltà sempre più manifeste. Di qui la decisione, da parte del governo di Tbilisi, di assumere una postura neutrale e respingere al mittente sia le istanze di alcune forze politiche interne favorevoli all’adozione di una linea maggiormente conflittuale nei confronti di Mosca, sia le pressioni esercitate da Kiev in relazione all’apertura di un secondo fronte di guerra contro la Russia – la Georgia figurava infatti, assieme a Giappone, Polonia, Moldavia, nel novero dei Paesi confinanti con la Russia a cui il segretario del Consiglio per la Sicurezza Nazionale ucraino Aleksey Danilov aveva rivolto l’esortazione ad aprire “secondi fronti” – le isole Kurili per il Giappone, Kaliningrad per la Polonia, la Transnistria per la Moldavia – per coadiuvare lo sforzo bellico di Kiev. Lo ha dichiarato lo stesso primo ministro Irakli Garibashvili, il quale ha bollato determinati settori della politica locale collocati all’opposizione come alleati del governo ucraino, la cui ipotetica conquista del potere avrebbe trasformato la Georgia in un «poligono di tiro».

Lo scorso febbraio, a dispetto della riaffermazione di neutralità ad opera di Tbilisi, la Nato è tornata alla carica rendendo nota l’intenzione di «adempiere agli obblighi nei confronti dei partner che si trovano in una situazione di pericolo». Ovvero di «incrementare il sostegno per affinare le capacità in termini di difesa, stabilità e compatibilità con la Nato» di Georgia, Bosnia-Erzegovina e Moldavia. Il 7 marzo successivo, il segretario del Bureau of International Narcotics and Law Enforcement Affairs Todd Robinson si è recato in visita a Tbilisi per presenziare alla Women in Policing Conference annuale, cogliendo l’occasione per esternare la posizione del governo degli Stati Uniti in merito alla legge sugli agenti stranieri appena approvata dal parlamento georgiano. «Si tratta ovviamente – ha dichiarato Robinson –  di una legge basata sugli interessi della Russia e non della Georgia. Pensiamo che sia nell’interesse della Georgia lavorare più approfonditamente nella direzione dell’integrazione euro-atlantica; questa legge non lo fa. Non pensiamo che sia la cosa giusta per la Georgia. Ancora più importante, i georgiani non pensano che sia la cosa giusta per la Georgia […]. Questa legge non si orienta verso ciò che i georgiani vogliono, che è l’integrazione euro-atlantica. Siamo qui per aiutare la Georgia a coronare la sua aspirazione, che è l’integrazione euro-atlantica, ed è quello che continueremo a fare». Un’ingerenza conclamata, ma certamente non nuova per uno come Robinson che nel 2018, quando svolgeva l’incarico di ambasciatore statunitense a Caracas, era stato espulso dal Venezuela con apposito provvedimento di Nicolas Maduro per aver cospirato contro il governo bolivariano e cercato di condizionare le elezioni presidenziali tenutesi nel maggio di quell’anno.

Valutazioni in linea con quelle pronunciate da Robinson, secondo cui la legge sugli agenti stranieri approvata dal Parlamento di Tbilisi risulterebbe “ispirata” dal Cremlino e d’ostacolo all’integrazione della Georgia nello schieramento occidentale anelata dalla popolazione georgiana, sono state formulate dai rappresentanti degli stessi organismi coinvolti nella Rivoluzione delle Rose del 2003. Samantha Power, a capo dell’Usaid, ha dichiarato che «le proposte di legge sugli agenti stranieri della Georgia minacciano gravemente il futuro euro-atlantico della Georgia e la capacità dei georgiani di soddisfare le proprie aspirazioni economiche, sociali e di altro tipo. Chiedo al Parlamento georgiano di abbandonare queste proposte di legge». L’ambasciata statunitense a Tbilisi ha rincarato la dose, affermando che «oggi è un giorno buio per la democrazia della Georgia. L’avanzamento in Parlamento di queste leggi ispirate dal Cremlino è incompatibile con il chiaro desiderio del popolo georgiano di integrazione europea e di sviluppo democratico. Perseguire queste leggi danneggerà le relazioni della Georgia con i suoi partner strategici e minerà l’importante lavoro di tante organizzazioni georgiane che lavorano per aiutare i loro concittadini. Simili progetti di legge sollevano domande reali sull’impegno del partito di governo per l’integrazione euro-atlantica».

Significativamente, le proteste di piazza sono scattate in virtuale concomitanza sia con il viaggio di Robinson a Tbilisi che con la visita della presidente della Repubblica Saolomé Zourabichvili negli Stati Uniti, e analogamente a molte rivoluzioni colorate del passato (quella in Iran del 2009 in primis) si sono caratterizzate per la presenza massiccia di cartelli e manifesti contenenti slogan in lingua inglese. Nonché di un numero di bandiere degli Stati Uniti, dell’Ucraina e dell’Unione Europea comparabile – se non superiore – a quelle della Georgia. Segno che i destinatari del messaggio si trovavano ben al di fuori dei confini nazionali, come si evince del resto dalla comparsa sulle prime pagine di gran parte dei principali quotidiani europei della stessa, identica fotografia raffigurante una manifestante circondata da polizia e dimostranti con in mano una bandiera europea.




Oltre che dalla prontezza sfoggiata dagli stessi giornali nel fungere da cassa di risonanza alla narrazione imperniata sulla stigmatizzazione della presunta “svolta filo-russa” dell’esecutivo di Tbilisi confezionata negli Stati Uniti e fatta immediatamente propria dalla stessa Zourabichvili, che durante il suo soggiorno negli Usa ha inviato un messaggio videoregistrato contenente una dichiarazione di sostegno ai manifestanti e l’impegno ad avvalersi dei poteri di veto per bloccare l’entrata in vigore della legge.

Eppure, come rileva il professor Francesco Dall’Aglio, «la legge russa sugli “agenti stranieri”, adottata nel 2012 e via via inasprita nel corso degli anni (l’ultima volta nel settembre 2022) obbliga chiunque riceva o abbia mai ricevuto non meglio specificati “sostegno” o “influenza” dall’estero (anche non finanziari), o sia stato “affiliato” a entità straniere a dichiararsi “agente straniero”, perdendo il diritto a ricevere finanziamenti statali, lavorare nelle università statali o insegnare nelle scuole, e rischiando di avere i propri canali di comunicazione (tipo il sito web) chiusi dalle autorità senza bisogno di un ordine del tribunale […]. La proposta di legge georgiana imponeva a media e associazioni (non privati cittadini) che ricevono dall’estero più del 20% dei propri fondi di registrarsi in un apposito elenco e inviare al Ministero degli Interni la propria documentazione finanziaria una volta all’anno, pena una multa corrispondente a 9.550 dollari. In caso non si ottemperi a questa disposizione sono previste varie misure amministrative che, nei casi più gravi, diventerebbero penali. Più che alla “legge russa” sembrerebbe quindi somigliare al Foreign Agents Registration Act statunitense, che impone la “public disclosure” di individui o enti che svolgano attività di lobbying o di sostegno a governi, organizzazioni o cittadini stranieri tramite registrazione presso il Ministero della Giustizia nella quale va dichiarato il loro rapporto con questi enti stranieri, la propria attività a loro favore e i compensi percepiti […]. Legge “americana”, dunque, più che “russa”. Potenzialmente illiberale, manipolabile e utilizzabile contro avversari politici? Certamente, così come potenzialmente illiberale, manipolabile e utilizzabile contro avversari politici è quella Usa». Una strumentalizzazione palese, dunque, funzionale a condizionare l’operato dell’esecutivo georgiano e seminare caos all’interno del Paese, che secondo l’«Economist» stava pericolosamente scarrellando verso l’orbita del Cremlino già dalla fine di gennaio a causa dello stato di detenzione che riservava all’ex presidente Saakashvili.

Dipinto come una sorta di marionetta del Cremlino dai media occidentali e “ammonito” in maniera inequivocabile dal capo dello Stato, il governo dalle tendenze spiccatamente liberali, europeiste ed atlantiste guidato dal premier Garibashvili è rapidamente corso ai ripari, concordando con il Parlamento il ritiro della legge sugli agenti stranieri nel tentativo di placare le proteste e prevenire il rischio di escalation “in stile Euro-Majdan” che si celava dietro l’angolo. Da diverse ore, infatti, le manifestazioni avevano cominciato ad assumere connotazioni palesemente violente, con l’assedio al Parlamento, la demolizione delle barriere anti-sommossa e il lancio di bombe molotov contro la polizia. Approdati alla conclusione che una reazione scomposta da parte delle forze dell’ordine a riflettori mediatici occidentali accesi avrebbe indubbiamente portato alla degenerazione dello scontro, gli esponenti del partito Sogno Georgiano (promotore del disegno di legge) hanno emesso un comunicato congiunto con le altre forze di governo in cui, oltre a riconfermare il ritiro del provvedimento, si affermava che «occorre prestare attenzione alla pace, alla tranquillità e allo sviluppo economico nel nostro Paese, così come ai progressi della Georgia verso l’integrazione europea», e si notificava l’avvio di consultazioni dirette con la popolazione.

La marcia indietro innestata dall’esecutivo di Tbilisi rappresenta un indubbio successo realizzato dallo schieramento euro-atlantico, perché rivitalizzando i segmenti della società georgiana maggiormente percettivi alle “sirene” occidentali rischia di condurre a una ridefinizione dei rapporti di forza locali gravida di conseguenze sul versante geopolitico. Il piccolo Paese caucasico potrebbe infatti trasformarsi, più o meno obtorto collo e a costo di sacrificare sia la stabilità socio-economica che la sicurezza militare, in un anello della catena di contenimento della Federazione Russa allestita dallo schieramento Usa/Nato a partire dalla seconda metà degli anni ’90, conformemente alle raccomandazioni enumerate dalla Rand Corporation in uno studio risalente al maggio del 2019.

All’interno del documento, in cui il criterio di valutazione costituito dal rapporto tra costi e benefici viene applicato a un ventaglio di iniziative potenziali che consentano di portare un attacco simultaneo e multi-stratificato contro i principali punti deboli della Russia finalizzato a condannare Mosca a un micidiale “sbilanciamento” da “sovra-estensione”, l’influentissimo think-tank statunitense giunse alla conclusione che la strada maggiormente percorribile contemplava: l’incremento del volume delle forniture militari all’Ucraina, l’intensificazione del sostegno ai gruppi ribelli operanti in Siria, la promozione di programmi di liberalizzazione in Bielorussia, il blocco economico della Transnistria e il ridimensionamento dell’influenza russa in Asia centrale. Nonché il consolidamento dell’influenza statunitense nel Caucaso meridionale, da ottenere anzitutto mediante l’instaurazione «di una più stretta relazione della Nato con Georgia ed Azerbaijan, in modo da portare la Russia a rafforzare la propria presenza militare nelle regioni meridionali del Paese, oltre che in Ossezia del Sud, Abkhazia e Armenia […]. Gli Stati Uniti potrebbero anche rinnovare gli sforzi per portare la Georgia nella Nato. La Georgia ha cercato a lungo l’adesione all’Alleanza; è entrata a far parte del Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico nel 1992, poco dopo l’indipendenza, ed ha aderito al programma Partnership for Peace nel 1994. In teoria, gli alleati hanno instradato la Georgia su un percorso di adesione, ma la guerra russo-georgiana del 2008 ha posto questo processo in stand-by. La Georgia, tuttavia, non ha mai rinunciato alle ambizioni atlantiste, come testimoniato dalla partecipazione alle operazioni Nato nel Mediterraneo, in Kosovo e in Afghanistan […]. Tutto ciò produrrebbe l’effetto di obbligare Mosca ad aumentare le spese militari proprio perché configurerebbe una chiara sfida agli interessi politici e possibilmente strategici russi in luoghi come Ucraina, Bielorussia e Georgia».  E Kazakistan, caduto vittima (gennaio 2022) di uno scontro intestino particolarmente aspro e insidioso che coniugandosi a quelli verificatesi negli altri Paesi summenzionati è andato a formare un “arco di crisi” in grado di tenere il Cremlino in costante stato di fibrillazione, vincolandolo a una estenuante opera di “aggiustamento” destinato a sovraccaricare di lavoro gli apparati militari, diplomatici e di intelligence russi esponendoli proprio a quel concreto rischio di sovraesposizione indicato elevato a finalità strategica dal think-tank Usa.

Se l’Ucraina, identificata nello studio come «maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia» su cui far leva per imporre a Mosca il prezzo più alto «senza provocare un conflitto su scala molto maggiore», è stata oggettivamente piegata al fine strumentale indicato dalla Rand Corporation (con esiti ormai tristemente noti), resta comunque tutt’altro che scontato che la Georgia incorra nel medesimo destino. Per un verso, nota l’analista Fëdor Lukyanov, «il gioco del distacco presuppone forti posizioni interne (potere) ed esterne (riconoscimento da parte delle élite del diritto a una certa sovranità). In altre parole, per insistere su una “terza via” neutrale in una condizione di centralità rispetto agli eventi in corso occorre avere una stazza paragonabile a quella della Turchia, o quantomeno dell’Ungheria. La Georgia non risponde a simili requisiti, perché tutti i governi succedutisi nel corso del tempo hanno cercato di costruire un’identità politica basata sul desiderio di associazione “all’Occidente”, con pressoché ogni mezzo possibile. E a qualsiasi condizione […]. Per di più, a causa della sua posizione geografica (lontana dagli attuali confini dell’Unione Europea), la Georgia non ha mai veramente sperimentato i benefici di simili aspirazioni. Tuttavia, ciò non ha impedito che l’allineamento a Bruxelles venisse proclamato come obiettivo e persino come mezzo per raggiungere un fine. Ora, il tentativo di inottemperanza ai diktat europei viene percepito come un tradimento degli “ideali europei”, che implicano il sacrificio di sé […]. Di conseguenza, la pressione interna di una minoranza irrequieta risulta sostenuta e rafforzata da pressioni esterne esercitate dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti». Secondo Lukyanov, tuttavia, per quanto un cambio di regime in “stile Euro-Majdan” rimanga improbabile in virtù dell’assenza all’interno dell’opposizione georgiana di forze eversive comparabili a quelle viste all’opera a Kiev, il futuro del Paese rimane in bilico. A determinarlo sarà verosimilmente la capacità – o incapacità, vista la limitatezza dei mezzi a disposizione – che l’apparato dirigenziale di Tbilisi sarà in grado di opporre alla crescente pressione esercitata congiuntamente da Unione Europea e Stati Uniti per costringere la Georgia ad abbandonare la sua condizione di neutralità.

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