Nessun accordo con il nemico

Nessun accordo con il nemico

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Per uno studioso di economia che si ispira esplicitamente al marxismo e  che – “difetto” ancora più grave – non appartiene alla corporazione degli economisti accademici, trovare una collocazione editoriale per i propri scritti è impresa al limite dell’impossibile. Pasquale Cicalese ci è riuscito grazie alla coraggiosa iniziativa degli amici del sito Lantidiplomatico https://www.lantidiplomatico.it/  i quali, dall’agosto 2020, hanno lanciato la L. A. D. Gruppo editoriale, una casa editrice che pubblica e.book  e libri acquistabili online. Il suo libro Piano contro mercato. Per un salario sociale di classe raccoglie una serie di articoli pubblicati su diversi siti (Marx 21ContropianoLantidiplomaticoCarmillaonline e La Contraddizione) in un arco temporale che va dal 2012 al 2020.  
 
 
 
 
 
 
Nella “Prefazione” Guido Salerno Aletta – nome noto ai lettori di Milano Finanza - anticipa le ragioni di un titolo che evoca lo scontro fra i due modelli di sviluppo che oggi si fronteggiano a livello globale: da un lato, il dominio del Mercato che caratterizza il mondo occidentale, dall’altro il dominio della Politica che caratterizza la Cina, ovvero centralità dell’accumulazione finanziaria versus centralità del salario sociale. Mentre nelle prime righe della “Postfazione” Vladimiro Giacché dichiara senza mezzi termini di considerare Pasquale Cicalese  “uno dei pochi economisti italiani che valga la pena di leggere”, e questo non tanto e non solo perché non è un economista accademico, quanto perché “poche categorie professionali sono uscite screditate come questa dalla Grande Recessione e, più in generale, dalle vicende economiche dell’ultimo decennio”. Provo a spiegare perché condivido questo giudizio.    
 
Una premessa, prima di entrare nel merito: nel clima da guerra fredda che viene rapidamente montando, gli argomenti ai quali le nostre élite ricorrono per mobilitare l’opinione pubblica contro il “pericolo giallo” sono squisitamente ideologici. Non potendo negare i clamorosi successi economici che il sistema cinese ha ottenuto negli ultimi decenni, con una formidabile accelerazione proprio nel momento in cui l’Occidente conosce una sequenza di crisi drammatiche, l’attacco ruota attorno alle accuse di totalitarismo, violazione dei diritti civili ecc. Né le sinistre si limitano a fare coro: forniscono ulteriori argomenti per dissuadere le classi subalterne dal nutrire la tentazione di guardare a Oriente, negando che la Cina sia un Paese socialista, sia pure con caratteristiche inedite, dipingendola come un sistema capitalista sui generis, impegnato in uno scontro imperialista simmetrico con le potenze occidentali. Ergo: se le logiche di potere sono identiche, meglio optare per il campo che almeno garantisce regole democratiche al proprio interno.  
 
Cicalese evita di lasciarsi catturare da questa querelle ideologico-propagandistica e, invece di impegnarsi in un dibattito astratto su quali credenziali debba possedere un Paese per meritare la definizione di socialista, da vero marxista ragiona sulle concrete scelte politico-economiche compiute dal regime di Pechino, dimostrando, attraverso un confronto serrato con le le strategie adottate dalle controparti occidentali, come esse abbiano costantemente avuto come bussola l’obiettivo prioritario di promuovere la crescita del salario sociale e del benessere popolare. E la democrazia? Consiglio a chi legge di studiarsi Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, del sociologo canadese Daniel A. Bell (Luiss, Roma) che vive e insegna in Cina da dodici anni. Così potrà rendersi conto del fatto che la schiacciante maggioranza del popolo cinese non ha alcuna fretta di “conquistare” una democrazia di tipo occidentale, mentre accorda il proprio consenso al governo in base alla sua reale capacità di migliorarne le condizioni di vita. Ma veniamo ai dati di fatto citati da Cicalese (segnalerò gli anni in cui sono usciti gli articoli che cito). 
 
2013. Viene smantellato il sistema dello hukou, che discriminava i migranti interni che si trasferivano dalle campagne alle città, negando loro la possibilità usufruire del diritto all’istruzione, agli alloggi popolari alla sanità gratuita. Il provvedimento riguarda centinaia di milioni di lavoratori che a partire da allora hanno potuto godere del pieno accesso ai diritti sociali (in controtendenza rispetto allo smantellamento del welfare in atto nei Paesi a regime neoliberista). Nello stesso periodo, la Cina inizia a cogliere i frutti di decenni di giganteschi investimenti in istruzione e ricerca (l’elevata qualificazione della forza lavoro consente di ottenere un forte aumento del tasso di produttività totale). La ricchezza sociale generata da tali scelte, scrive Cicalese, è anche dovuta al fatto che il 72% del valore aggiunto è generato da colossi pubblici tassati alla fonte, per cui i bilanci statali restano in salute malgrado le massicce spese in investimenti. 
 
2014-2015. Dopo avere affrontato la crisi del 2008 con misure opposte a quelle adottate in Occidente (da un lato, la filosofia ossimoricamente definita di “austerità espansiva”, dall'altro, politiche fiscali espansive, con piani infrastrutturali per 600 miliardi di dollari - ferrovie, autostrade, porti ecc. - finalizzati allo sviluppo della logistica e della produttività totale, e attraverso aumenti salariali del 12% in media), la Cina fronteggia una nuova fase di turbolenze finanziarie con quella che Cicalese chiama “dittatura finanziaria del proletariato”: la banca centrale e il governo intervengono a frenare il crollo acquistando partecipazioni azionarie e obbligando le aziende di Stato ad acquistare azioni proprie.
 
2014 – 2018. Negli articoli usciti in questo lustro Cicalese segue passo dopo passo la proiezione della Cina sui mercati globali, evidenziando le caratteristiche che ne distinguono la logica da quella del processo di globalizzazione a trazione euroatlantica. L’ordine di partire alla conquista del mondo è impartito inizialmente a 500 imprese pubbliche con una media di 90.000 addetti l’una (Cicalese sottolinea il fatto che spesso sono guidate da generali dell’Esercito Popolare, il che evidenzia la natura non meramente economica del progetto). Tutte queste proiezioni internazionali, molte delle quali si aggregano attorno all’ambiziosissimo progetto della Via della Seta, hanno infatti una forte caratterizzazione politica e chiari obiettivi di medio lungo periodo. La rotta eurasiatica mira a promuovere nei Paesi coinvolti lo sviluppo di una classe media di un miliardo di persone, in grado di rimpiazzare gli Stati Uniti come mercato di sbocco dei prodotti made in China. I colossali investimenti diretti sul teatro europeo si propongono di sfidare le mire egemoniche degli Stati Uniti sul Vecchio Continente: da un lato, le mosse della Fed cercano di intercettare il surplus europeo per permettere agli Usa di continuare a crescere a debito, dall’altro i cinesi cercano di intrecciare i loro investimenti con quelli europei per creare collegamenti marittimi e terrestri fra Asia centrale, Medio Oriente ed Europa. 
 
La Cina è tuttavia consapevole che le sue strategie sono destinate a incontrare forti resistenze, anche perché gli europei temono il connubio fra imprese pubbliche e private cinesi nei settori high tech, tanto da rassegnarsi a svolgere un ruolo subordinato a rimorchio degli Stati Uniti (vedi il fatto che si sono lasciati imporre da Washington scelte anti russe in contrasto con i loro stessi interessi). Quindi si destreggia con abilità, sfruttando le contraddizioni del gioco a quattro che la vede impegnata con Usa, Russia e Ue. In primo luogo (vedi articoli dal 2016 al 2019) stringe relazioni sempre più strette con la Russia: nel 2017 l’interscambio fra i due Paesi raggiunge gli 80 miliardi di dollari; viene inaugurato un secondo oleodotto dalla Siberia che consente di raddoppiare le forniture di greggio russo, cui seguirà nel 2019 un gasdotto che implica forniture per 400 miliardi di dollari. Infine nel 2019 viene raggiunto un accordo che prevede di estendere all’intero territorio russo la produzione di soia da esportare in Cina. Inoltre si muove con flessibilità tattica nelle trattative dirette con gli Stati Uniti. Per esempio: nel 2017 vengono tolte le restrizioni che impedivano alle finanziarie americane di detenere il 51% di imprese cinesi: apparentemente una sconfitta, se non fosse che, nel contempo, il governo cinese fa capire che gli organi del PCC dovranno avere più peso e voce nelle società estere e non solo in quelle cinesi. 
 
In conclusione: negli ultimi decenni la Cina è riuscita 1) a crescere a ritmi impensabili per qualunque Paese capitalista occidentale; 2) a uscire indenne dalle crisi che hanno squassato l’economia globale in questo inizio secolo (ivi compresa quella del Covid19, anche se le cronache di Cicalese non arrivano fino allo scoppio della pandemia); 3) a eliminare la piaga della povertà aumentando considerevolmente il tenore di vita di centinaia di milioni di persone; 4) a implementare un salario sociale destinato a raggiungere i livelli di quello del “trentennio dorato” occidentale, le cui conquiste rischiano viceversa di venire riassorbite dalla controrivoluzione liberista; 5) a proiettare il suo modello di sviluppo verso molti Paesi di Asia Centrale, Medio Oriente, Africa e America Latina. Il tutto mantenendo saldamente nelle mani dello Stato-partito il controllo dell'economia. Non è “vero” socialismo? Può darsi, ma somiglia molto a quanto sognavano di realizzare le socialdemocrazie occidentali prima di convertirsi al liberismo. 
 
Veniamo agli articoli che ripercorrono la storia dei guai di casa nostra. In un pezzo del 2016, Cicalese parla di un quadro economico frutto della risposta borghese alla sfida operaia di fine Sessanta inizio Settanta: decentramento produttivo ed esplosione del lavoro “indipendente”, scrive, non furono dettati da necessità economiche, bensì dalla volontà di porre fine a un ciclo decennale di lotte,  ma né queste strategie né, tantomeno, lo smantellamento dell’economia pubblica sono bastate a fronteggiare la crisi. Al punto che la fotografia del panorama industriale del Paese che Cicalese scatta alla data dell’articolo in questione è la seguente: il 25% del capitale industriale è stato distrutto e la metà di ciò che rimane è fatto di piccole o piccolissime imprese che operano come subfornitori delle grandi imprese nostrane e delle multinazionali tedesche e francesi.  
 
Già nel 2013 aveva scritto che, data l’incapacità della nostra classe imprenditoriale di sfruttare lo spazio liberato dagli oligopoli industriali pubblici smantellati da Draghi, Amato e Prodi, l’unica chance di rilancio sarebbe potuta arrivare solo da un rilancio dell’intervento pubblico in economia, ma ciò era reso impossibile da quei trattati europei che imponevano politiche economiche tutte indirizzate dal lato dell’offerta, della deflazione salariale e dell’export. In questo contesto, che nel 2017 appare immutato e anzi peggiorato, gli industriali italiani hanno un’unica opzione: strappare qualche margine di competitività rispetto ai tedeschi esasperandone gli orientamenti mercantilisti. La sola opportunità di sottrarsi a questa trappola sarebbe stata sfruttare l’interesse cinese a piazzare “teste di ponte” nel Mediterraneo per implementare il progetto della Via della Seta. Venendo incontro a questo interesse, l’Italia avrebbe avuto ottime chance di crescita economica e di emanciparsi dai vincoli di bilancio imposti dai trattati Ue. Nel 2019 Cicalese intravede un timido passo in questa direzione, con gli accordi che il primo governo Conte stipula con la Cina (che non a caso irritano i partner europei). Ma gli anni successivi, fino alla crisi del secondo governo Conte e all’insediamento del “proconsole imperiale” Mario Draghi (eventi successivi a quelli descritti nel libro), poseranno una pietra tombale su questa chance. 
 
Ho rubato la metafora del proconsole imperiale ad Alessandro Visalli che ne fa uso in uno spiritoso post sul suo blog  http://tempofertile.blogspot.com/2021/02/il-proconsole-imperiale-draghi-serpenti.html . Visalli si riferisce alla figura di Rutilio Namaziano e al suo tentativo di rianimare il boccheggiante Impero romano (siamo attorno al 417 a.C.) mobilitando l’élite senatoriale e chiamando tutti i “migliori” (vi ricorda qualcosa?) a impegnarsi per rianimare gli antichi fasti imperiali e a far fronte alla minaccia delle orde barbariche. E ora anche noi, scrive Visalli, siamo stati raggiunti da un proconsole “legittimato al governo in ogni provincia imperiale”, risplendente nella sua virtus e nel suo meritum. Il suo appello è di quelli che non si possono rifiutare e infatti nessuno ha il coraggio di sottrarsi. Ma perché questo drammatico appello, si chiede Visalli, visto che il sia pur debole governo Conte II “stava più o meno tenendo il campo, non tanto meglio né tanto peggio dei predecessori”. Le ragioni non vanno cercate nella crisi italiana, risponde, occorre piuttosto guardare “alla geopolitica del virus, alla crisi di potenza, ed allo sforzo disperato di riaffermarsi di un ordo che è disposizione ordinata, schiera militare, rango e ceto, quindi sistema, metodo, regolarità, norma. Ma anche rito, sacramento, benedizione. L’ordine di cui Draghi è eminente membro, clarissimus, attraversa l’intero occidente, si manifesta ovunque ci sia una longa manus della alta finanza di osservanza angloamericana, attraversa tutte le stanze ed i palazzi, è ascoltato sempre per primo e per ultimo, dispone del potere di morte”.
 
 
 
 
 
Eppure Draghi, che oggi la tremebonda falange delle sinistre tradizionali e populiste acclama come salvatore della patria, è pur sempre colui che, come ricorda Cicalese in molti articoli, è stato fra i massimi tessitori del declassamento dell’Italia nel concerto delle potenze industriali europee e mondiali, della sua cattura nella gabbia dei trattati Ue che gli riserva il ruolo di nazione subalterna e ossequiosa dei diktat della finanza internazionale, diktat accettati di buon grado, e anzi implorati, come scudo contro l’orda dei barbari interni (le lotte operaie) e che ora, più che ribadire l’imperium dell’Europa a trazione franco-tedesca (mai seriamente messa in discussione, come conferma l’altrettanto ossequioso omaggio della destra presunta sovranista), rispecchiano le condizioni del più potente dominus d’Oltreoceano. Avete notato l’insistenza con cui la collocazione atlantista viene ossessivamente ribadita prima di quella europeista? Il fatto è che oggi, a fare paura, non sono più i barbari interni, asfaltati da decenni di sconfitte e presumibilmente incapaci di reagire alle nuove amare medicine che dovranno ingoiare, ma quelli esterni, quel “pericolo giallo” che con la sua mera esistenza certifica che vi è un’alternativa concreta a questo sistema in disgregazione. Altro che accordi con il “nemico”: alle armi, alle armi!

Carlo Formenti

Carlo Formenti

Giornalista, professore e ricercatore in pensione. Autore di "Il socialismo è morto. Viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista" (Meltemi, 2019)

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