L'Italia e l'Euro: tutte le bugie al capolinea

L'Italia e l'Euro: tutte le bugie al capolinea

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Riceviamo dal direttore Fosco Giannini in antemprima e con grande piacere pubblichiamo su l'AntiDiplomatico questo editoriale sull'euro di Cumpanis

 

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di Juri Carlucci, "Cumpanis"

 

Vi ricordate dell'ECU, European Currency Unit, o Unità di Conto Europea (1979)? L'Italia aveva una percentuale, tra tutta la moneta che circolava nella UE dell'epoca, di circa il 10%. Il cambio con questa “divisa comune”, virtuale, usata nella amministrazione europea e all'interno del sistema bancario (moneta scritturale del Sistema Monetario Europeo- SME), sfiorava le 1500 lire. Si pensi che, nel 1993, 1 dollaro Usa era scambiato per 1571 lire (media annuale). Siamo nel periodo antecedente le trattative che portarono alla introduzione dell'Euro in quella che fu poi definita Eurozona per distinguere i Paesi aderenti alla UE ma non aderenti al trattato che istituiva, appunto, l'Euro. Di mezzo, però, il dramma. La politica italiana entrò in crisi, l'industria italiana entrò in una dura crisi (mai rientrata, sino ad oggi), e anche i bilanci dello Stato erano lo specchio di un sistema che non teneva, tanto che i governi iniziarono a fare macelleria sociale, su pensioni, sui servizi essenziali, nel pubblico impiego, e le manovre finanziarie aggiuntive (scostamenti di bilancio) vennero fatte sulla pelle del popolo italiano. Il trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, metteva le basi della nuova Unione europea dei tecnocrati e il sistema bancario fu fissato, nel biennio 1998-'99, a Francoforte sul Meno con la fondazione della Banca Centrale Europea.

Le bocciature. Non tutto filò liscio per i “carbonari europei”, anzi. Il voto popolare – i referendum confermativi – fecero venire a galla non malumori e mal di pancia ma l'opinione condivisa che questa Unione europea e questa moneta unica non fossero state costruite e create per il bene comune, per i popoli, per il progresso. Tutt'altro. Nell'anno 2000 il Regno di Danimarca sottopose al voto popolare il suo ingresso nell'Eurozona. Un vasto arco di forze tra cui i comunisti e gli anticapitalisti e gli ecologisti si opposero, trascinando il No! alla affermazione con un 53% di votanti. In Italia su tale tema non ci si è mai potuti esprimere! Va anche ricordata l'epopea della “Costituzione europea”. I lavori della cd. Convenzione, presieduta da Valéry Giscard d'Estaing, partorirono un testo inaccettabile (di ben 448 articoli) che non mise al centro i nuovi diritti dei popoli europei e dei migranti (forza lavoro pur volentieri ricercata e sfruttata dal capitalismo nostrano) – né evidenziò la centralità della piena occupazione e della salvaguardia del salario, una strategia per il benessere collettivo. Fu una pagliacciata la firma in Campidoglio, a Roma, nell'ottobre del 2004. Tanto che bastò attendere l'anno successivo, il 2005, per vedere buttare nel cesso quel pacco di fogli: chi volle un impianto giuridico per spadroneggiare per altri cento anni, si ritrovò a confrontarsi con due voti popolari, in Francia e nei Paesi Bassi, che rigettarono quel Trattato e seppellirono quella iniziativa.

L'Italia e l'Euro. A livello di percentuale, il rapporto debito pubblico/prodotto interno lordo, in Italia, per l'anno 2021 si attesta ed uguaglia quello monstre del 1919, ovvero il 159% circa, secondo i calcoli ISTAT rivisti ora in leggera flessione dopo i buoni dati di rimbalzo della economia italiana negli ultimi quattro trimestri dovuti, perlopiù a dei discreti livelli di esportazione, compressi durante il primo anno di pandemia.

Con tale zavorra in costante crescita dagli anni '60 del secolo scorso il sistema Italia, oggi, è in declino. Basta guardarsi attorno per vedere i tassi di disoccupazione alle stelle, il sistema produttivo che arranca e gli imprenditori che delocalizzano fuggendo di notte, le infrastrutture senza adeguata manutenzione e i servizi pubblici ridotti all'osso. Sui giornali finanziari si può leggere: “... è un debito pubblico che aumenta ma che ci costa sempre meno”, come se non ci debba far riflettere questa situazione che non riusciamo più a gestire, oggettivamente.

Quantifichiamo questo debito pubblico (il 30% è detenuto in mano straniere), quantifichiamo gli interessi che paghiamo per mantenerlo (ed evitare il default) e vediamo le coperture. Il debito pubblico (Italia) ormai sfiora i 2.600 miliardi di euro. Paghiamo su di esso una media che oscilla tra i 60 e i 65 miliardi €/annui. Per i prossimi dieci anni le stime si spingono a calcolare circa 700 miliardi di interessi per sostenere questa voragine. Negli ultimi 30 anni (dal 1990 al 2020) abbiamo sborsato, complessivamente, 2.200 miliardi di euro di interessi. Cosa accadrà? Ci chiederanno di ristrutturare il nostro debito ben sapendo che il 70% di questo è detenuto da operatori residenti? Oppure ci indicheranno la porta accompagnandoci fuori dalla UE? O addirittura sarà l'Italia a fare il primo passo (cosa da sperare, giunti a questo punto)?

Nelle ore in cui il professor Giuseppe Conte si apprestava per la prima volta (2018) a prendere l'incarico dal presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, dopo una lunga impasse, Carlo Bastasin (Luiss/ Brookings) personalità che conosce bene il professor Mario Draghi, scriveva: “Scadenze politiche di questo tipo attirano gli investitori finanziari verso 'scommesse asimmetriche' in cui la vendita di obbligazioni sovrane, invece di acquistarle, comporta maggiori ricompense e pochi rischi. Nel giro di poche settimane o addirittura giorni, l'Italia avrebbe perso l'accesso ai mercati. Un Paese europeo che non riesce a finanziare il proprio debito potrebbe comunque richiedere l'assistenza finanziaria delle istituzioni europee. Tuttavia, il governo deve sottoscrivere un protocollo d'intesa e farlo approvare dal Parlamento. Un governo puramente tecnocratico non sarebbe stato in grado di garantire l'approvazione del Parlamento. Potrebbe derivarne un'uscita inerziale non intenzionale dall'euro”.

Ora: la crescita, in Italia, dopo l'introduzione dell'Euro (1999/2002) non vi è stata. I dati sul tavolo sono spietati. Meno di 3 punti percentuali di PIL raggiunti, complessivamente, in più di tre lustri, fino a che è esplosa la pandemia (febbraio 2020). Il nostro Paese non è ancorato ad una politica economica comune e la disoccupazione è dilagante, nel sud come nel centro-nord. Manovrare i tassi di interesse è impossibile perché è prerogativa della BCE, ne si può stampare carta moneta. Che ci stiamo a fare, allora, in un sistema che ci presta una moneta comune sopravvalutata (vedi il cambio euro/dollaro) e che non facilità le esportazioni delle nostre imprese? (Il 2021, come detto sopra, non fa testo, perciò si veda il complessivo biennio 2020 - 2021).

Scriveva l'economista Domenico Moro: “A questo proposito, va precisato lo stretto legame esistente tra l’integrazione europea e la ripresa dell’imperialismo, inteso come fase economica e politica del capitalismo. L’euro e i trattati riducono il mercato e la domanda interna, accentuando la tendenza delle imprese ad andare all’estero per conquistare mercati di sbocco alle merci e ai capitali e approvvigionarsi di materie prime a buon mercato. In questo modo, anche a causa dell’aumento delle divergenze economiche tra Paesi europei, si accentua la competizione tra imprese, e di conseguenza tra Stati, che spalleggiano i propri capitali 'nazionali'” […] “... risulta la necessità per i comunisti di definire, oltre che un punto di vista condiviso sull’integrazione europea e sulla natura della formazione economico-sociale italiana, un programma e una proposta complessivi per la fase in atto. Al centro di questa proposta non può che esserci l’uscita dalla Ue e dall’euro (oltre che dalla Nato)”, per giungere alla “... definizione delle modalità di un rinnovato intervento dello Stato nell’economia non solo come regolatore ma direttamente come produttore di beni e servizi, a partire dalle ripubblicizzazioni delle imprese monopolistiche o oligopolistiche privatizzate”.

Da queste righe che ho rilanciato qui si intende bene quanto sia all'ordine del giorno per le forze progressiste e comuniste tenere una chiara posizione di rottura con il processo di integrazione capitalistica europea. Dunque, costruire l'UNITÀ dei comunisti in Italia e rinvigorire l'alleanza internazionale tra le forze che si oppongono all'imperialismo europeo, all'Euro e alla NATO.

 

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