Le ragioni del crollo della Repubblica Araba di Siria

Cosa significa il post-Assad per il “mondo multipolare” e gli insegnamenti da trarre

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Le ragioni del crollo della Repubblica Araba di Siria

 

Dopo sessantuno anni di governo del partito Ba'th, cinquantatre dei quali sotto la guida della famiglia Assad, la Repubblica Araba di Siria è caduta. Essa non è stata sconfitta in battaglia, ma è crollata improvvisamente, cogliendo molti di sorpresa. Come è naturale che sia in ogni sconfitta, subito è iniziata la caccia al capro espiatorio, tra chi accusa Russia e Iran di aver abbandonato l’alleato, chi vede proprio in Assad in vero traditore e chi prende in considerazione solo le cause esterne, attribuendo il tutto esclusivamente a un’operazione turco-israeliana. Come al solito, la realtà è ben più complessa e la categoria morale del “tradimento” non aiuta a far luce su quelle che sono dinamiche intricate.

Prima di tutto bisogna guardare in faccia la realtà: se il sistema siriano fosse stato più forte, oggi non saremmo qui a parlare del post-Assad. Si possono chiamare in causa le sanzioni, l’aggressione internazionale, gli omicidi mirati e i bombardamenti, e sarebbe più che giusto, ma, come ricorda Mao Zedong, “secondo la dialettica materialistica, le cause esterne sono la condizione delle trasformazioni e le cause interne ne sono la base; le cause esterne operano attraverso quelle interne[1]. Se la Repubblica Araba di Siria è caduta, è perché le sue autorità non sono riuscite a sviluppare un sistema abbastanza forte da reggere la pressione dell’aggressione internazionale, motivare il popolo alla lotta e difendere l’indipendenza e l’unità nazionale. Questa fu la missione di Bashar al-Assad, che, in definitiva, è fallita.

Bashar, in origine, non avrebbe dovuto diventare presidente. Dopo aver studiato da medico, si recò a Londra per specializzarsi in oftalmologia, venendo richiamato in patria dopo la morte del fratello Bassel, fino a quel momento erede designato del padre Hafiz al-Assad.  I suoi primi anni di governo furono caratterizzati da un’accelerazione dell'apertura economica e politica verso l’Occidente che ebbe rilevanti conseguenze sociali. Vennero introdotte politiche neoliberali che, oltre a diminuire il ruolo dello Stato nell’economia, abbassarono le tasse per i ceti più abbienti e restrinsero lo stato sociale. Le privatizzazioni nel settore agricolo, pilastro dell’economia siriana assieme all’esportazione di petrolio, provocarono un vertiginoso aumento della povertà rurale, specialmente in occasione delle siccità che si verificarono tra 2007 e 2009. Queste politiche economiche fornirono l’humus per le proteste che esplosero nel 2011, inizialmente legate a rivendicazioni sociali, e solo in seguito dirottate da gruppi estremistici controllati da attori stranieri.

La guerra non portò a un cambio di paradigma. Anche se a più riprese vennero aumentati i salari dei lavoratori del settore pubblico e fu mantenuto il controllo statale sulla produzione del petrolio, almeno quella non caduta in mano al nemico, soprattutto nella ricostruzione delle zone liberate vennero promosse misure atte a garantire grandi profitti per veri e propri speculatori di guerra più che a garantire il ripristino di condizioni di vita dignitose per i cittadini. Basti pensare a leggi come quella del 2016 sul partenariato pubblico-privato[2], con la quale si autorizzava  il settore privato a gestire e sviluppare le risorse statali statali in tutti i settori dell'economia, ad eccezione del petrolio. In quell’occasione il Ministro dell'Economia e del Commercio Estero, Humam al-Jazaeri, dichiarò che la legge sarebbe stata “un quadro giuridico per regolare le relazioni tra il settore pubblico e quello privato e risponde alle crescenti esigenze economiche e sociali della Siria, in particolare nel campo dei servizi pubblici e privati in Siria, in particolare nel campo della ricostruzione”, fornendo inoltre “al settore privato l'opportunità di contribuire allo sviluppo economico come partner principale e attivo[3]. Nella realtà dei fatti essa contribuì a indirizzare i progetti di ricostruzione verso gli interessi della grande borghesia, privilegiando per esempio le infrastrutture necessarie alle aziende rispetto all’edilizia, una scelta quantomeno controversa in un paese che a causa della guerra già conosceva milioni di rifugiati interni.


I problemi strutturali: nepotismo e corruzione

Tutto ciò, ovviamente, ha acuito la debolezza e la tenuta di un sistema già strutturalmente piagato da nepotismo e corruzione. Con l’occupazione delle principali zone petrolifere e agricole della Siria prima da parte dell’ISIS, e in seguito da parte di milizie mercenarie filo-statunitensi, le “Forze Democratiche Siriane” a guida curda, la situazione economica è nettamente peggiorata, con punte dell’80% del petrolio siriano saccheggiato dal regime di Washington[4]. Le sanzioni previste dal Caesar Act promosso da Donald Trump nel 2019 hanno inoltre completato l’assedio economico del paese, contribuendo a una progressiva diminuzione del tenore di vita della popolazione e a un’inflazione da capogiro. Come sostenuto da Wang Jin, professore associato presso l'Istituto di studi mediorientali della Northwest University di Xi'an, i problemi economici sono la ragione fondamentale del crollo della Repubblica: “la Siria aveva forze militari affidabili per assicurarsi che la situazione rimanesse sostanzialmente sotto controllo, ma i problemi economici hanno minato la capacità del Paese di mantenere la forza militare, motivo per cui le forze governative sono fuggite o si sono arrese rapidamente[5].

Al 2024 la situazione risultava essere già fondamentalmente diversa rispetto a quella del 2013-2015 o del 2019-2020. Sebbene all’apparenza vi era stabilità, la catastrofe covava. La Repubblica Araba di Siria non è stata battuta in combattimento, ma è implosa, è crollata su se stessa, e le forze ribelli hanno potuto occupare senza opposizione tutte le città in mano governativa. La popolazione non si è opposta. Mentre nei momenti peggiori della guerra era comunque visibile un diffuso sostegno popolare ad Assad, con manifestazioni oceaniche e resistenza ostinata di soldati e di volontari paramilitari, nulla del genere è accaduto negli ultimi giorni. Ciò testimonia sia la stanchezza del popolo che l’incapacità da parte del partito Ba’th  e degli organi istituzionali di sfruttare la crisi per rinnovarsi. E’ emblematico come, dopo le dimissioni del presidente, tutti i consolati e le ambasciate siriane nel mondo, compresa quella moscovita, abbiano immediatamente “aggiornato” la bandiera nazionale tra festeggiamenti e celebrazioni in una chiara manifestazione di come lo Stato fosse fortemente compromesso al suo interno e incapace di continuare ad esistere.

La pressione era quindi altissima, e la situazione estremamente delicata. Si può trovare ogni ragione possibile per minimizzare le colpe della dirigenza siriana, ma la realtà è che il presidente Bashar al-Assad non è stato all’altezza della situazione. Tempi straordinari richiedono uomini straordinari, non tutti possono esserlo, ed evidenziare le mancanze fondamentali di Assad non significa né mancargli di rispetto, né disconoscere i suoi meriti, tra cui quello di aver mantenuto in vita la Siria per più di un decennio contro le aspettative di tutto l’Occidente, ma significa sostanzialmente riconoscere la realtà: quello che ha fatto non è stato abbastanza. Oltre alle mancanze strutturali del sistema siriano, che a partire dagli Anni ‘80 si è allontanato progressivamente dal socialismo, facendo aumentare il potere di una borghesia dalle tinte sempre più “comprador”, pronta a stringere la mano tanto ai russi quanto agli statunitensi, possiamo vedere come la condotta dell’ultimo anno da parte del massimo dirigente siriano si sia stata segnata da vari errori.

A partire dalla relativa stabilizzazione dei fronti, Assad ha diminuito le proprie interazioni con i tradizionali alleati di Mosca e Teheran, preferendo coltivare rapporti con i paesi del Golfo, una volta principali sponsor regionali della destabilizzazione della Siria. A marzo 2023 Assad si recò in visita negli Emirati Arabi Uniti, proseguendo due mesi dopo con un viaggio in Arabia Saudita e il ritorno all’interno della Lega Araba. Proprio a seguito degli accordi presi durante gli incontri a Riyadh, nell’ottobre dello stesso anno vennero chiusi gli uffici di Ansarullah a Damasco. A seguito degli eventi del 7 ottobre, sia per la debolezza interna, sia per evitare frizioni con le monarchie della penisola arabica, Assad scelse di non aprire un fronte diretto contro il regime sionista, permettendo il passaggio dei vitali rifornimenti militari a Libano e Gaza tramite il territorio da lui controllato ma limitando fortemente le attività offensive portate avanti direttamente da questo. Da questi nuovi legami “arabi”, probabilmente, la dirigenza siriana sperava di poter ricavare un allentamento dell’assedio economico, investimenti e una sponda diplomatica più decisa, soprattutto in funzione anti-turca. E’ infatti significativo che, mentre Damasco cercava un miglioramento delle relazioni con i paesi della penisola arabica, naufragavano ripetutamente i tentativi di mediazione con la Turchia offerti da Russia e Iran. Per quanto siano chiare le criticità emerse con l’intervento diretto turco in Siria e per quanto per il governo siriano la presenza militare di Istanbul all’interno dei suoi confini nazionali rappresentasse una comprensibile linea rossa, si deve tener conto anche di quanto affermato da Erdogan proprio negli ultimi giorni di vita della Repubblica, dichiarazioni storpiate sia dai media occidentali che da tanti voci “dissidenti”: “Mentre continuava la resistenza con le organizzazioni terroristiche, abbiamo lanciato un appello ad Assad. Abbiamo detto, determiniamo insieme il futuro della Siria. Tuttavia, non abbiamo ricevuto una risposta positiva. Per ora, dopo Idlib, Hama e Homs sono nelle mani dell'opposizione. Le fastidiose marce in corso nella regione non sono ciò che vogliamo, non le vogliamo. Non ha capito la mano che gli abbiamo teso"[6]. Parlare di “se” è poco utile, ma è sicuramente ipotizzabile che se Assad si fosse incontrato con Erdogan invece che con bin Salman la situazione si sarebbe potuta evolvere in modo diverso.

 

Assad ha mancato ai suoi doveri fondamentali nei confronti della Siria e del campo antimperialista?

Nonostante le criticità sociali, la corruzione, il nepotismo e finanche le violenze, il presidente Bashar al-Assad  giustamente divenne un punto di riferimento non solo per tutti coloro che nel mondo si battevano contro l’egemonia statunitense, ma anche per milioni di siriani, oppositori o sostenitori del governo, desiderosi di lottare per salvaguardare l’indipendenza nazionale e l’esistenza stessa della Siria. Bashar al-Assad incarnava questa lotta, sia a livello nazionale che a livello internazionale. In suo nome, con le sue effigi, gridando il suo nome si sono immolati decine di migliaia di soldati, di volontari e di paramilitari siriani. Sono morti per difendere lo Stato e il paese che lui, nel bene o nel male, incarnava, spesso dovendo fare i conti con un’ufficialità incapace e disinteressata alla loro sopravvivenza.

Nonostante abbia garantito al suo Stato oltre un decennio di sopravvivenza contro un assedio di una violenza difficilmente inimmaginabile, in ultima analisi Bashar al-Assad ha tradito queste speranze, è venuto meno ai suoi doveri. Egli non è stato capace, sicuramente anche per le ristrettezze economiche, di modernizzare le forze armate e di mantenerle nello stato di prontezza al combattimento che la situazione richiedeva, non è stato in grado di creare ufficiali capaci di comandare le truppe, non è stato in grado di costruire una macchina militare di fare a meno dei soldati russi, iraniani e di Hezbollah, che a migliaia sono morti per riprendere le città cedute ai terroristi, da Aleppo a Palmira.

Al contrario di tutti coloro che sono morti in nome della Siria e del suo presidente, Bashar al-Assad non è stato in grado di fare altrettanto. Se a livello personale la sua sopravvivenza è una notizia positiva e confortante, a livello politico essa è umiliante e indecorosa. Proprio a causa della sua silenziosa fuga da Damasco, con l’esercito nel caos e il paese a pezzi, Bashar al-Assad non passerà alla Storia come colui che ha combattuto fino all’ultimo contro un nemico soverchiante, ma come un fuggiasco. A tal proposito voglio ricordare le parole del grande generale Issam Zahreddine, martirizzato presso Deir Ezzor nel 2017 dopo aver contribuito alla sconfitta dello Stato Islamico nella provincia: “Chi non muore con la spada in mano, muore in un’altra maniera. Le vie sono differenti, ma la morte sarà comunque la destinazione. La terra di Hasaka, Deir Ezzor, Daraa, As-Suwayda e di ogni altra città in Siria è nostra terra, e dovunque dovremmo essere martirizzati noi saremo onorati dalla gloria del martirio per la nostra nazione e l’onore. Non temete la morte, rincorretela e vi fuggirà,  fuggitela e vi seguirà”.

Come poteva Assad motivare a lottare e morire per la Repubblica Araba Siriana una popolazione stremata se nemmeno lui, intimamente, era pronto a ciò? La velocità della “transizione dei poteri”, con l’Esercito Arabo Siriano progressivamente ritirato verso Damasco e poi abbandonato a se stesso certifica che da parte della dirigenza siriana non vi sia stata la volontà politica di resistere prima ancora che la capacità militare. Assad avrebbe allora dovuto, messa al sicuro la famiglia e assicurate le opportune direttive, scegliere la morte, per mano propria, come nel caso di Allende, o per mano del nemico, come è avvenuto per Sinwar. La fuga verso la Russia è l’indegna conclusione di una vita politica che altrimenti sarebbe stata segnata più da luci che da ombre. La condotta politica più corretta per Assad e le persone a lui rimaste fedeli al momento non può che essere il mettere al primo posto l’unità nazionale. Nei fatti sembra essere questa la linea decisa, e in questo senso appare meno colpevolizzante l’aver ordinato un pacifico trasferimento dei poteri, per quanto un discorso presidenziale avrebbe potuto agevolare il tutto.

 

Cosa significa il post-Assad per il “mondo multipolare”?

Gli eventi siriani sono indubbiamente una sconfitta per la causa antimperialista, ma rappresentano un fallimento particolare del sistema siriano baathista, e non già del “campo multipolare”. E’ evidente che sia stato Assad con tutta la dirigenza siriana a scegliere di non opporre resistenza, forse anche perché si era compresa l’inevitabilità di un passaggio di fase. E’ inutile, e deleterio, parlare di tradimenti e muovere accuse incrociate: la Repubblica Araba di Siria materialmente non poteva più continuare ad esistere. Questo sicuramente per cause esterne, ma soprattutto per mancanze interne a cui Assad non è riuscito a porre rimedio.

Constatata l’assenza di volontà di resistere, Russia, Iran e tutte le forze dell’Asse della Resistenza hanno iniziato a dialogare con le forze della cosiddetta “opposizione”. Tale mossa, che a qualcuno potrebbe far storcere il naso, è stata assolutamente necessaria. Nella politica internazionale non esistono vuoti, e vi sono interessi strategici da preservare che vanno al di là delle forme istituzionali e delle figure apicali. La scelta non era tra una Siria governata dal Ba’th e una in mano a formazioni tuttora in larga misura riconosciute come terroristiche, ma tra il tentativo di preservare l’esistenza della Siria come Stato nazionale capace di ri-ottenere unità e stabilità  e una situazione di anarchia diffusa conveniente solo a Israele e Stati Uniti. In questo senso vanno lette le aperture diplomatiche e gli appelli dall’unità lanciati da Russia, Iran, Turchia, Cina, Hezbollah, Hamas e Ansarullah.

La caduta di Assad è sicuramente un evento destabilizzante e potenzialmente letale per la resistenza in Libano e Palestina, e forse capace persino di provocare un effetto domino che porti a una forte crisi per lo stesso Iran, ma una gestione accorta di quanto sta avvenendo potrebbe portare a risultati inattesi.

Almeno al momento i nuovi dominatori della parte maggioritaria del paese non sembrano intenzionati a mettere in discussione la presenza militare russa, e l’aggressività sionista, manifestatasi con l’occupazione di parti aggiuntive del Golan, unita alla volontà statunitense di continuare ad occupare tramite i propri servi locali i pozzi petroliferi siriani, mette le nuove autorità davanti alla necessità concreta di opporsi a queste due entità per avere la possibilità di creare uno Stato che non esista solo di facciata come copertura per il potere locale di vari signori della guerra. Senza il petrolio e il grano dell’est non può esistere una repubblica siriana, questo è stato vero per Assad e lo è tuttora per al-Julani.  Volendo prestar fede alle parole delle varie fazioni ancora riconosciute da molti come terroristiche, esse parrebbero intenzionate a difendere l’unità nazionale e la sovranità della Siria, oltre che a tutelare il pluralismo religioso e politico. Potrebbe ovviamente trattarsi di semplice propaganda, ma solo il tempo potrà dirlo. Nel frattempo è bene tener presente che, nel caso in cui le nuove autorità siriane, una volta che queste si siano effettivamente costituite, si posizionino concretamente in maniera opposta agli interessi statunitensi e sionisti nella regione, sarà dovere di ogni antimperialista sostenerle, soprattutto di chi in questi anni ha generosamente sostenuto, nel bene e nel male, la Siria di Bashar al-Assad, proprio per onorare quello che l’immagine del presidente ha rappresentato. Il “Leone di Damasco” non ha tenuto fede alle sue promesse, ma la lotta che incarnava per l’unità e l’indipendenza deve proseguire, e con essa la lotta per l’abbattimento del regime egemonico statunitense.

La vicenda siriana fornisce anche l’occasione per arrivare a un’analisi di classe più corretta del campo antimperialista. Nella maggioranza dei paesi che si oppongono al regime egemonico di Washington importanti settori della grande borghesia appoggiano questa lotta, arrivando in alcuni casi a detenere il controllo politico sullo Stato. Si tratta di alleati? In questa fase assolutamente si. Ma bisogna tenere a mente che proprio la loro natura ambigua e incerta mina la lotta per il multipolarismo. Se da un lato essi sono penalizzati dall’egemonia statunitense, dall’altro i loro interessi economici sono strettamente collegati ad essa. La paura delle sanzioni, la paura di perdere il proprio patrimonio in dollari, spinge loro a tenere sempre un piede sul freno, ostacolando quel processo rivoluzionario che per altri versi appoggiano. Non è un caso che la grande borghesia russa sia stata a lungo opposta all’Operazione Militare Speciale, e che Putin abbia sostanzialmente ignorato la sorte di quei capitalisti che hanno visto le proprie ricchezze “congelate” in Occidente, come non è un caso che la grande borghesia iraniana abbia cercato tramite il presidente Pezeshkian di impedire o indebolire le giuste reazioni contro l’entità sionista, come non è ancora un caso che gli yemeniti, già privati di tutto, abbiano mostrato indomito coraggio attaccando Israele e imponendo un blocco economico capace di influenzare i traffici del Mar Rosso. La lotta per il multipolarismo è portata avanti con più coerenza là dove la classe lavoratrice ha più potere politico, e quindi dove è meno capace di autonomia politica la borghesia nazionale e la borghesia compradora è stata estirpata. Solo tramite l’analisi marxista si riesce a comprendere il perché paesi come l’India o il Brasile tengano a volte atteggiamenti ambigui: non servono categorie morali, ma l’analisi concreta della realtà di classe di quegli Stati.

 

Gli insegnamenti da trarre della vicenda siriana

Giuseppe Mazzini disse che “imparano più i popoli dalla sconfitta che i re dal trionfo”. La sconfitta siriana deve essere un'importante fonte d’insegnamento anche per noi italiani. E’ diffusa anche in ambienti “dissidenti” l’idea che il processo di transizione tra il dominio egemonico USA e il mondo multipolare sarà un qualcosa di facile, indolore e destinato a migliorare la nostra condizione. E’ vero il contrario. Il caso siriano deve servire da lezione. Non esiste nessun "Deus ex machina" multipolare che salverà il mondo, non esiste una serena passeggiata verso il Sol dell'Avvenire: in realtà esiste un'epoca terribile e brutale come solo le grandi cesure storiche sanno essere, un'epoca di privazioni, morti, devastazioni e guerre.

Serve smetterla di pensare di essere in qualche modo “tifosi” di un qualcosa di esterno a noi. Siamo parte di un conflitto che sempre più ci toccherà nel vivo. Quello che dobbiamo avere presente è che la guerra non è finita, che andrà avanti, e che è compito di ognuno fare la propria parte. Gli eventi siriani non devono demoralizzare e indurre a pensare che "tutto sia finito". Bisogna abbandonare le illusioni e prepararsi alla lotta.

 

 

[1] Mao Zedong, Sulla contraddizione, 1937.

[2] https://natlex.ilo.org/dyn/natlex2/r/natlex/fe/details?p3_isn=106717&cs=1wJc9GL5LP_YUA1mUqXz_2lJEw2DM99-t8uJwRAgIoaeA0h_O_g_Av6Yx99PHWtskTvY7t3oTA42ecWKBijtaFQ

[3] Sabbagh, Hazem, President al-Assad issues law on public-private partnership, SANA, 16 aprile 2016.

[4] https://thecradle.co/articles-id/3195

[5] https://www.globaltimes.cn/page/202412/1324602.shtml

[6] https://t.me/lurlo_michelangelosevergnini/1200

Leonardo Sinigaglia

Leonardo Sinigaglia

Nato a Genova il 24 maggio 1999, si è laureato in Storia all'università della stessa città nel 2022. Militante politico, ha partecipato e collaborato a numerose iniziative sia a livello cittadino che nazionale.

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