La nozione di disoccupazione
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di Federico Giusti
Nella classica nozione economica per disoccupazione intendiamo la mancanza temporanea o permanente di un’occupazione retribuita, dovuta o a alla volontà del lavoratore di non accettare offerte occupazionali (o di non cercarsele) oppure per cause indipendenti dalla sua volontà.
La nostra premessa potrebbe essere suscettibile di critiche ma vogliamo partire da una nozione generica per arrivare a due punti fermi ossia che la mancanza di lavoro non è proprio un fenomeno naturale quanto invece un prodotto determinato dall’accumulazione capitalistica. Se vogliamo riprendere l'analisi di Marx possiamo parlare di quanto sia indispensabile l' “esercito industriale di riserva”.
Immaginiamoci l'avvento prossimo della Intelligenza artificiale ipotizzando gli effetti possibili sulla occupazione, la tecnologia ha abituato la generazione dei sessantenni a cambiamenti bruschi, ad esempio chi ricorda il fattorino sugli autobus o, tra alcuni anni, avrà memoria della cassiera negli ipermercati?
Siamo del tutto impreparati all'avvento della intelligenza artificiale, timidamente i sindacati iniziano un approccio parziale e tardivo teso solo a stabilire un insieme di regole che potrebbero, una volta definite, essere già superate. E nel mezzo di cambiamenti epocali la classe lavoratrice appare del tutto ignara dei processi in atto, ogni rivoluzione industriale distrugge posti di lavoro per crearne di nuovi, ancora da capire se questa regola valida per il passato sia ancora adatta a interpretare il futuro.
La innovazione tecnologica determina la inutilità di parte della forza lavoro che risulterà eccedente alla valorizzazione del capitale e per questo sacrificabile. Dovrebbe essere poi lo Stato a prevedere in anticipo questi esuberi e spingere per la riqualificazione del personale in esubero indirizzandolo verso altri ambiti produttivi.
L'idea che il capitalismo garantisca la piena occupazione appartiene al libro dei sogni del libero mercato come anche l'idea che dalla ricchezza estrema di pochi possa nascere qualche beneficio per i tanti esclusi, per non parlare poi della mera illusione che gli investimenti derivanti dai processi tecnologici innovativi siano sufficienti a riassorbire automaticamente i disoccupati provocati magari dai cambiamenti nel frattempo intervenuti.
Per raggiungere la piena occupazione, nel secolo scorso, abbiamo pensato alla riduzione dell'orario di lavoro che avrebbe permesso anche una qualità della vita decisamente migliore (tempo libero a disposizione ad esempio) ma questa sorta di automatismo nella società capitalistica non funziona.
E in ogni caso si renderebbe indispensabile l'intervento attivo dello Stato , la cui presenza oggi viene pensata solo a sostegno dei datori e dei padroni per sostituirsi loro nel compito di accrescere i salari e rinunciando in sostanza alle entrate fiscali senza le quali, nel tempo, avremo lo sgretolamento dello stato sociale
Il vecchio riformismo di stampo liberale che dette vita allo Stato sociale è un lontano ricordo, lo stesso linguaggio utilizzato per il lavoro ha sostituito i diritti sociali in doveri, si soddisfano i bisogni solo se compatibili con le esigenze di bilancio. Perfino la contrattazione è stata in buona parte soppiantata da nuovi istituti contrattuali quali il confronto e la informazione a sancire la erosione del potere contrattuale. Sono profondamente cambiati i linguaggi ma soprattutto i rapporti di forza per cui le nozioni di riferimento sono quelle a tutela degli interessi dei dominanti.
Parlare di morosità incolpevole per quanti, licenziati o con riduzioni salariali, sono impossibilitati a pagare un mutuo o un canone locativo, si scontra con il principio della sacra proprietà e del mercato, allo stesso tempo il disoccupato involontario appare come sinonimo di ozio.
Davanti alle proteste di lavoratori costretti ad orari settimanali di oltre 50 ore, senza maggiorazioni festive e notturne, senza lo stacco delle 11 ore tra un turno e l'altro, la risposta è stata sibillina: non avete voglia di lavorare, poi lamentatevi se state a casa senza un euro.
Da qui a considerare la classe lavoratrice approfittatrice e oziosa il passo è breve come giudicare pretestuose semplici rivendicazioni a tutela dei diritti che un tempo definivamo inalienabili.
Riserviamo maggiore attenzione ai linguaggi, alle espressioni diffuse, ad esempio il termine disoccupato (senza lavoro) , venne due secoli fa sostituito con il termine inglese unemployed ossia: “inattivo” , “temporaneamente privo di lavoro”..
Ma non è dato sapere quanto sia lunga questa indisponibilità, se solo temporanea, da qui nascono i luoghi comuni con i quali affrontiamo la impossibilità di ricollocare varie tipologie di uomini e donne per i quali la condizione di disoccupazione appare senza via di uscita.
Se nel corso del tempo la disoccupazione si trasforma in problema sociale, negli ultimi 30 anni è sopraggiunta la colpevolizzazione dei senza lavoro, dei senza casa, come se la indisponibilità a farsi sfruttare o la indigenza determinata dallo stato di disoccupazione fossero una condizione deprecabile da parassiti sociali. E perfino in ambito sanitario, grazie ai continui tagli della spesa per la salute, abbiamo incontrato situazioni disdicevoli come la priorità di cura riconosciuta a dei giovani, a quanti non avevano avuto nel corso della loro esistenza travagliate dipendenze.
Da troppo tempo lasciamo correre, evitiamo di indignarci senza riservare la dovuta attenzione a atteggiamenti sociali, culturali e politici che nel tempo hanno alimentato vulgate e approcci assai pericolosi.
Non parliamo di sdegno etico e morale ma di quella antica propensione a comprendere la realtà avendo gli strumenti per analizzarla prima. Esigere la dovuta attenzione verso le vecchie forme di sfruttamento ottocentesco che si ripresentano anche in alcuni distretti industriali del nostro territorio, o pretendere di studiare gli effetti della Intelligenza artificiale sul lavoro e sull'occupazione dovrebbero essere parte di quel giusto approccio alla realtà. che dovrebbe caratterizzare l'operato di sindacati e realtà politiche conflittuali
Negli anni 2000,studiosi e intellettuali e pochi giornalisti iniziarono a discutere dell'arricchimento negli Usa da parte di una minoranza esigua della popolazione che andava accumulando enormi ricchezze. Dopo alcuni anni sono nati movimenti che si definivano il 99 per cento della popolazione contro gli abusi dell'1 per cento.
Eppure già da 20 anni negli Usa era iniziata l'ascesa dei redditi di pochissimi mentre lo spettro della disoccupazione e della miseria si affacciava alle porte della classe lavoratrice e di quella media specie dopo le crisi speculative dei mutui.
Con anni di ritardo sono nate ricerche e studi sulle disuguaglianze di reddito, sulla iniqua distribuzione dello stesso. In Italia siamo arrivati a porci qualche domanda solo dopo avere compreso che gli stipendi dei managers avevano raggiunto livelli sconosciuti e la forbice salariale rispetto ai quadri e agli operai si era allargata a dismisura.
A forza di pensare che gli sgravi fiscali e le detassazioni siano il solo strumento per alzare i salari, sono stati avvolti nell'oblio gli studi sulle dinamiche salariali e certi temi, divenuti nel frattempo scomodo, hanno permesso la egemonia culturale e politica dei cantori della nuova era, quella dello sfruttamento selvaggio unito alla colpevolizzazione della miseria e alla criminalizzazione degli oppositori sociali e politici.
A forza di giocare con la tecnologia si pensa di poterla governare quando invece i processi decisionali sono nelle mani di pochi mentre noi brancoliamo nel buio. Vale per la intelligenza artificiale, vale per molto altro.
La scommessa non è quella di subire i processi ma di prevenirli in largo anticipo evitando la cultura della riduzione del danno, sempre che si voglia alzare la testa almeno per le generazioni future.

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