La crisi fiscale degli Stati Uniti è all’orizzonte?

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La crisi fiscale degli Stati Uniti è all’orizzonte?

 

 

di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Nel marzo 2024, le detenzioni straniere di Treasury Bond statunitensi sono aumentate su base annua da 7.563,1 a 8.091,8 miliardi di dollari, a fronte di emissioni da parte del Dipartimento del Tesoro cresciute nel medesimo lasso di tempo da 22.905,6 a 24.967,7 miliardi di dollari.

Nello specifico, il saldo delle de­tenzioni di Treasury Bond Foreign Official, composte principalmente dalle riserve delle Banche Centrali straniere, è risultato positivo per “appena” 45,1 miliardi di dollari (da 3.769,9 a 3.815,0 miliardi), nonostante l’incremento dei tassi varato nel frattempo dalla Federal Reserve dal 4,75 al 5,50%. Per quanto concerne le de­tenzioni Foreign Non Official, afferenti agli investitori privati stranieri, il loro valore complessivo è invece aumentato entro il medesimo arco temporale di ben 483,6 miliardi di dollari (da 3.793,2 a 4.276,8 miliardi).

Una divaricazione palese, dovuta anzitutto dalla sempre più accentuata propensione della Repubblica Popolare Cinese a ridurre la propria partecipazione al finanziamento del debito statunitense, nell’ambito di un processo di “scaricamento” di Treasury Bond che va protraendosi ormai da anni, ma che negli ultimi tempi ha raggiunto ritmi record. Come ha rilevato «Bloomberg», la People’s Bank of China ha venduto soltanto nel primo trimestre del 2024 Buoni del Tesoro statunitensi per un controvalore di 53,3 miliardi di dollari. Segno che Pechino ha ormai abbandonato la vecchia strategia di “accumulazione primitiva” trainata dall’export, che presupponeva l’acquisto massiccio di Treasury Bond statunitensi al fine di mantenere ampia la forbice tra yuan-renminbi e dollaro e garantire massima competitività alle merci cinesi sul mercato Usa. La graduale esasperazione delle tensioni sino-statunitensi, culminata in questi giorni con l’incremento astronomico dei dazi Usa sulle merci cinesi, ha indubbiamente incentivato il cambio di registro attuato dalla classe dirigente dell’ex Celeste Impero, orientandola verso il riciclo dei proventi derivanti dallo “scaricamento” progressivo dei treasury Bond in proprio possesso nell’acquisto di oro fisico.

Parte assai rilevante del resto del mondo sembra incline ad emulare l’esempio cinese, principalmente in un’ottica di tutela dai rischi connessi alla “militarizzazione” del dollaro attuata dalla classe dirigente di Washington con le sanzioni senza precedenti irrogate nei confronti della Russia. Anche il Giappone, alleato chiave degli Stati Uniti e principale detentore straniero di Treasury Bond statunitensi, sembra vacillare: la caduta verticale e apparentemente senza fine dello yen è suscettibile di forzare prima o poi l’apparato dirigenziale di Tokyo a predisporre una correzione basata sul ridimensionamento delle proprie detenzioni di titoli Usa. Un altro fattore determinante rispetto al processo di allontanamento delle Banche Centrali straniere dal mercato dei Treasury Bond è indubbiamente costituito dal dissesto dei conti pubblici statunitensi. La combinazione tra sconti fiscali previsti dal Tax Cuts and Jobs Act approvato dall’amministrazione Trump nel 2017, intervento “alluvionale” di governo e Federal Reserve per sostenere l’economia durante la fase pandemica e incremento progressivo dei tassi di interesse attuato dalla Federal Reserve ha condotto a una crescita vertiginosa dell’esborso per il pagamento degli interessi sul debito statunitense.

Stando ai calcoli formulati dal Congressional Budget Office (Cbo), questa voce di spesa dovrebbe raggiungere alla fine di quest’anno la cifra sbalorditiva di 870 miliardi di dollari, a fronte degli 822 previsti per il cruciale settore della difesa e degli 852,9 assorbiti da Medicaid. In riferimento al 2023, si parla di un incremento su base annua del 32% (nel 2023, la spesa per interessi ha toccato quota 659 miliardi di dollari, pari al 2,4% del Pil), che secondo le proiezioni formulate dal Cbo dovrebbe continuare a crescere a 951 miliardi nel 2025 e a 1.628 miliardi nel 2034 (quando dovrebbe equivalere al 3,9% del Pil).

Allo stato attuale, parte più che preponderante dei Buoni del Tesoro immessi sul mercato dalle Banche Centrali straniere viene rastrellata da investitori privati, attratti dagli elevati rendimenti garantiti dalla politica monetaria portata avanti dalla Federal Reserve. La stessa logica operativa focalizzata sul profitto a breve termine che ne indirizza le mosse è tuttavia suscettibile di indurli a liquidare rapidamente i propri investimenti in Treasury Bond qualora i relativi margini di remunerazione dovessero assottigliarsi per effetto di un abbassamento dei tassi, che la Fed disporrebbe inesorabilmente in presenza di una fase recessiva.

Nel qual caso, verrebbe a delinearsi una devastante crisi fiscale che secondo Michael Feroli, capo economista di Jp Morgan Chase, risulterebbe paragonabile a quella affrontata dalla Gran Bretagna nel momento in cui il governo guidato da Liz Truss tentò di attuare tagli fiscali privi di copertura finanziaria. Analogamente, una penuria di acquirenti inchioderebbe la Federal Reserve a un interventismo, foriero di inflazione galoppante. Torsten Slok, noto operatore di Wall Street, ha osservato che «se hai un debito in aumento e un deficit piuttosto significativo, la tua vulnerabilità in caso di shock è decisamente superiore alla norma».

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