Il marxismo del XXI secolo e la cecità italiana
di Alessandro Pascale
Nel silenzio e nell’indifferenza assordante della quasi totalità del movimento comunista italiano, dal XX Congresso del Partito Comunista Cinese è uscita un’importantissima novità: Ii pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era è stato definito il marxismo del 21 secolo. Esagerazione? Culto della personalità? Niente di tutto questo. A porre in risalto la questione, approfondendola meticolosamente, è il solito encomiabile trio composto da Roberto Sidoli, Daniele Burgio e Massimo Leoni, che ha provveduto a tradurre dal cinese un articolo (Il pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era è il marxismo del XXI secolo) scritto a metà giugno del 2020 dal compagno He Yiting, allora vice direttore della prestigiosa Scuola di Partito centrale del partito comunista cinese.
Oltre a ciò i nostri compagni sono andati oltre, pubblicando un corposo saggio di approfondimento (Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del Ventunesimo secolo) che presenta bene le questioni in campo e argomenta a favore della svolta politica avvenuta, riconoscendo i limiti del marxismo occidentale (già esposti in passato da Domenico Losurdo ne Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere) e il valore aggiunto derivato dalle idee del leader cinese ad un corpus teorico che dopo Mao ha continuato ad innovarsi, senza rinnegare il marxismo-leninismo ma arricchendolo, o andando oltre.
Per i nostalgici proprio qui sta il pomo della discordia: si tratta di arricchimento dato dalle esperienze e tattiche nuove, oppure di tradimento, travisamento e superamento a scapito di qualcosa che abbandona l’ideale socialista? Se il sottoscritto non aveva dubbi già prima sul fatto che i cinesi abbiano arricchito, e non tradito, la teoria e la prassi socialista, dopo la lettura del lavoro di Sidoli e soci posso dire che abbiamo un’importante arma in più da utilizzare per una formazione e una propaganda politica che si agganci ad un esempio concreto e solido come quello cinese. Tutto ciò nella consapevolezza storica ormai acquisita (almeno da parte nostra) che se continuiamo a rivendicare tutte le conquiste e i meriti del marxismo-leninismo nel corso dell’ultimo secolo, d’altro lato non possiamo certo chiudere gli occhi sui problemi che in fin dei conti hanno portato alla caduta dell’URSS. Tali fenomeni, che avuto contraccolpi sull’intero Occidente (si pensi al passaggio dal PCI al PD), non si possono spiegare solo con la formula del “tradimento” del marxismo-leninismo, perché come abbiamo già argomentato (in particolar modo nella Storia del Comunismo ed in scritti successivi), il problema è di come si sia potuto concretizzare un tradimento del marxismo-leninismo in una società socialista che dichiarava di aver eliminato irreversibilmente la divisione sociale in classi.
Il marxismo-leninismo (arricchito della lezione attualizzata di Gramsci) mantiene tutt’oggi una sua vitalità, sia nei princìpi teorici, che nella prassi concreta, e la cosa rimane particolarmente vera soprattutto per i partiti comunisti che si trovano ancora di fronte alla necessità di conquistare l’egemonia non tanto in campo sociale (stadio che si accompagna al livello superiore di conquistare il potere politico) ma già solo nella sfera della “sinistra” culturale, in quella che gli autori del saggio chiamano “eterna sinistra”, riprendendo un’interessante categoria su cui sarebbe opportuno ragionare.
Accettare il “xijinpingsmo” non comporta insomma particolari acrobazie per gli attuali disgraziati partiti comunisti occidentali, ma permette certamente di disporre di uno strumento fondamentale per quei partiti che al governo di una paese ci sono già, o sono prossimi a diventarlo.
A noi conviene comunque accettare e far propria questa visione, per il semplice fatto che tale impostazione teorica parte dal riconoscimento delle specificità nazionali (tema peraltro assai spinoso), riconoscendo quindi agli italiani, ai francesi, ai brasiliani, ai marocchini (ecc.) i propri percorsi autonomi verso il socialismo; d’altra parte non possiamo non riconoscere questa visione, per il semplice fatto che essa caratterizza nei fatti un socialismo che per ora funziona nei risultati raggiunti, promettendo di ottenerne ulteriori ancora più sfavillanti. Riconoscere tale lezione politica, abbandonando l’arroganza eurocentrica coltivata ad arte dalla borghesia ed accettando il fatto di essere inferiori culturalmente e politicamente ai compagni cinesi, significa consentirci di comprendere anche i limiti del marxismo-leninismo, ma soprattutto di comprendere le dinamiche del mondo attuale e di capire come orientare proficuamente la nostra progettualità politica per il bene del proletariato mondiale, e non solo della sua parte minoritaria che vive nel nostro paese (e tantomeno solo della sua parte italiana che vive nel nostro paese).
Una volta compresa tale questione strategica, altra cosa ancora sarà la scelta della tattica politica con cui cercare di acquisire maggiore peso politico, alla ricerca di quella decisiva egemonia sulla classe lavoratrice locale. I cinesi insegnano da mezzo secolo ad essere flessibili e pragmatici in tal senso. I comunisti italiani, che pure avrebbero alle spalle lezioni di Machiavelli, tendono spesso a restare ancorati ad un fanatismo rigorista degno di Savonarola, seguendo il dogma sessantottino del “tutto o niente”.
Il risultato è che da decenni rimaniamo con il “niente” in tasca. C’è di che riflettere a sufficienza.