Finanziaria 2026: quadro marco-economico e principali misure

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Finanziaria 2026: quadro marco-economico e principali misure

 

di Federico Giusti e Emiliano Gentili

  1. Premessa

Siamo intervenuti ripetutamente sulla Legge di Bilancio sviscerandone i contenuti principali per arrivare agli appuntamenti degli scioperi generali con una documentazione esaustiva e in grado di formulare critiche ragionate all’impianto della Manovra, ai suoi obiettivi reali e apparenti, per confutare infine una lunga sequela di luoghi comuni da ascrivere alla propaganda governativa. Il lettore pertanto potrebbe avere già letto parte di quanto andiamo a scrivere. Teniamo tuttavia a precisare che rispetto a questa Manovra nel paese non abbiamo registrato la dovuta attenzione, molti lavoratori sono anestetizzati da anni di sgravi fiscali visti come una conquista, ritengono le detassazioni un buon risultato per aumentare il potere di acquisto dei salari, non prestano la dovuta attenzione ai contenuti normativi dei contratti nazionali abituati da anni di accordi al ribasso e continui rinvii alla contrattazione di secondo livello, ambito privilegiato per la opportunità di accedere a sgravi fiscali, detassazioni e deroghe peggiorative rispetto ai CCNL.

  1. Il Quadro macro-economico

In base al Patto di Stabilità dell’Unione Europea il rapporto deficit/PIL di un Paese membro non deve superare il 3%. Questa regola avrebbe lo scopo di ridurre i valori assoluti del deficit, cioè del debito pubblico, e costituisce il mantra dell’austerità. A quanto pare, però, gli effetti reali non sono quelli attesi e l’effetto depressivo delle politiche di contenimento della spesa pubblica sull’economia e sui consumi sembra condizionare la crescita del PIL in negativo – contribuendo, quindi, non solo alla riduzione del deficit ma anche a quella del PIL.

In questo contesto, pertanto, non possono esservi manovre espansive – ossia che aumentino la spesa – a meno di rompere coi trattati UE: dopo il picco di deficit osservato nella pandemia, durante la quale le regole di stabilità erano state sospese, l’Unione ha riformato e rimesso in vigore il Patto e adesso sta obbligando i vari Paesi a rientrare entro il fatidico valore del 3%.

Il Governo Meloni ha ereditato l’8,6% del 2022, portato l’anno successivo a 7,2% e drasticamente ridotto a 3,4% nel 2024. Per il 2025 le proiezioni parlano di un leggero aumento, dovuto prevalentemente al rallentamento della crescita economica, e difatti è giunta puntuale una Raccomandazione da parte del Consiglio Europeo[1] che indica all’Italia di contenere l’aumento nominale della spesa pubblica entro «l'1,3% nel 2025 e l'1,6% nel 2026». Di norma vi è sempre un aumento della spesa – per via dell’inflazione e dell’aumento della massa degli investimenti, che sono caratteristici di un’economia capitalistica. Per cui non ci si lasci ingannare e si pensi giusto a un fatto: nel 2023 – complici i fondi del PNRR – il valore era addirittura del 5,6%, ma senza ottemperare alle indicazioni comunitarie il Governo Meloni perderebbe la possibilità di accedere ai nuovi fondi europei per la difesa (SAFE), che consistono prevalentemente in crediti e co-finanziamenti – dei quali Leonardo e Fincantieri, i due poli industriali più rilevanti nel settore militare nostrano, sarebbero i principali beneficiari.

In tutto ciò la Finanziaria 2026 è chiamata a programmare il rapporto deficit/PIL per i prossimi anni. Ebbene, i valori definiti sono del 2,8% nel 2026, del 2,6% nel 2027 e addirittura del 2,3% nel 2028: ben oltre quanto richiesto dall’Europa! Si consideri, poi, che fra le entrate di Bilancio sono stati ricompresi anche i fondi PNRR non spesi: questi ultimi, originariamente destinati in massima parte a infrastrutture di pubblica utilità, vengono spostati e destinati a copertura di altre spese effettuate, in maniera tale da ridurre artificiosamente il deficit. Per il 2026 stiamo parlando di 5,07 miliardi.

Dulcis in fundo, nella nuova Finanziaria non sono state rinnovate le misure di calmieramento dei prezzi delle bollette. Queste, pur se in maniera insufficiente, avevano reso più sostenibile la spesa energetica delle famiglie durante gli ultimi anni, a partire cioè dall’applicazione delle sanzioni alla Russia. Il motivo del mancato rinnovo è sempre lo stesso: tali misure erano state finanziate grazie alla sospensione del Patto di Stabilità, ma ora che è tornato in vigore sono state immediatamente abrogate.

 

  • Le misure contenute nella Manovra

Volendo individuare un elemento qualificante della Manovra potremmo considerare la revisione dell’aliquota Irpef, che passerà dal 35% al 33% per il reddito compreso tra una cifra superiore ai 28.000 € e fino a 50.000 €. Questa misura costerà allo Stato 2,9 miliardi per il 2026 ma, secondo le stime dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, circa la metà delle risorse risparmiate dai contribuenti con la riduzione dell’aliquota verrà assorbita dall’8% con reddito più elevato.[2] Osservando la cosa dal punto di vista delle categorie lavorative, invece, fra i beneficiari si troveranno il 96% dei dirigenti, il 53% degli impiegati e solo il 16% di chi svolge lavori operai. Inoltre i dirigenti percepiranno uno sconto fiscale medio di 408 € all’anno – che diventano 379 € per via dei prelievi sui redditi alti inseriti in Finanziaria –, gli impiegati di 123 € e gli operai di ben 23 €![3] Una Manovra per i ricchi, dunque, mascherata come se fosse per il “ceto medio”.

In fatto di sanità siamo al quarto anno di Governo Meloni e, rispetto al suo insediamento, secondo quanto previsto in Manovra per il 2028 il settore avrà perso risorse pari a circa mezzo punto del PIL. Il finanziamento del SSN cresce nominalmente ogni anno – e infatti nella Finanziaria vengono stanziati 2,4 miliardi in più per il 2026 –, ma tale crescita non è sufficiente a compensare l’inflazione, che si riflette sul Fondo nazionale sia in termini di svalutazione del denaro che di incremento del costo delle forniture sanitarie. Per quanto riguarda la forza-lavoro del settore, invece, il Governo si è messo in una botte di ferro prevedendo aumenti sotto il 6% a fronte di un’inflazione cumulata del 17%[4]

L’ultimo aspetto su cui soffermarsi e ragionare collettivamente riguarda quella serie di misure temporanee che intervengono detassando le componenti incrementali e aggiuntive della retribuzione (rinnovi contrattuali, straordinari, premi di produttività): lo Stato in estrema sintesi si sostituisce alle imprese, sostenendone i costi. La misura introduce inoltre un doppio effetto di stabilizzazione: in primis di tipo fiscale, perché porta la tassazione di queste componenti della retribuzione ai livelli ordinari, facendo costare all’impresa un’ora straordinario quanto un’ora di lavoro normale e, con ciò, normalizzando l’utilizzo flessibile della forza-lavoro oltre l’orario e dando luogo conseguentemente a un aumento della precarietà per altri lavoratori assunti; in secundis di tipo politico, perché consolida quel margine ufficiale di contrattazione rappresentato dal secondo livello delle trattative (quello aziendale per capirci), che potrà essere sfruttato dai sindacati cosiddetti “maggiormente rappresentativi” per rafforzare il loro ruolo.

 

[1] Consiglio Europeo, Raccomandazione del 21 Gennaio 2025, che rinnova la Raccomandazione del 26 Luglio 2024.

[2] Audizione della Presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, 6 Novembre 2025, p. 57.

[3] Ivi, pp. 58, 59 e 61.

[4] R. Lisi, Sanità più povera, cittadini più soli: la verità nascosta nella manovra Meloni-Giorgetti, 3 Novembre 2025, https://www.collettiva.it/copertine/economia/legge-bilancio-sanita-salute-poche-risorse-meloni-cqhuvxey.

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