Colombia: “S.O.S. Basta Duque! No más represión”

Colombia: “S.O.S. Basta Duque! No más represión”

Presentiamo una sintesi della rubrica Brecce, un programma di Radio Quarantena

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Trema il narco-governo di Ivan Duque per la pressione del popolo colombiano, che da più di dieci giorni sfida le pallottole della polizia. L’hashtag “S.O.S. Basta Duque! No más represión” sta inondando le reti sociali. La repressione subito battezzata dall’ex presidente Alvaro Uribe con un twitter di incitamento al massacro, ha già causato una trentina di morti, un centinaio di scomparsi e circa un migliaio di feriti, alcuni dei quali gravi: colpiti dalla micidiale tecnica di accecamento, nuova forma di repressione che abbiamo visto in azione in Francia, in Cile e in altre parti dell’America Latina.

Numerose anche le violenze sessuali contro manifestanti prevalentemente giovanissimi, che denunciano il furto di futuro nel paese più diseguale dell’America Latina, che già è il continente con più disuguaglianze al mondo. “Nos están matando”, ci stanno uccidendo, denunciano quei giovani in un altro hashtag che sta arrivando ai media e a tutte le grandi istituzioni internazionali.

E le risposte cominciano a farsi sentire, così come emergono i silenzi complici di quanti, come il segretario generale dell’Osa, Luis Almagro, risulta sempre impegnato a tramare contro il Venezuela e Cuba e a impedire la vittoria dei governi non graditi a Washington nella regione. Sono però arrivate le “preoccupazioni” dell’Onu, della Ue e anche di Amnesty International, che ha sostenuto le denunce dei manifestanti.

In Italia, si è fatta sentire anche Laura Boldrini, parlamentare del PD e presidente del Comitato per i diritti umani nel mondo. In una interrogazione al ministro degli Esteri, Boldrini ha chiesto al governo colombiano “quali azioni intenda compiere per promuovere occasioni di dialogo per superare la crisi umanitaria di un paese nel quale – ha scritto - il 43% della popolazione è povero, e nell'ultimo anno 2,8 milioni di persone sono finite in condizione di estrema povertà”.

Nei video che circolano, le violenze della polizia e anche dei gruppi paramilitari mascherati da civili, risultano testimonianze inoppugnabili. In un paese dove gli spazi di agibilità per l’opposizione vengono richiusi nel sangue fin dai tempi dell’assassinio del leader liberale Eliecer Gaitan, avvenuto nell’aprile del 1948, l’attacco viene d’altronde rivolto anche contro quegli organismi che, come la Giurisdizione speciale per la pace, stanno continuamente aggiornando i dati della gigantesca guerra contro il popolo portata avanti con ogni mezzo dall’oligarchia colombiana all’ombra di Washington.

Di recente, il numero dei cosiddetti falsi positivi, ossia di persone uccise e fatti passare per guerriglieri per giustificare le multimilionarie politiche per la sicurezza è stato aggiornato a 6.400. La Giurisdizione speciale fa parte del Sistema integrale di verità, giustizia, riparazione e non ripetizione, creato nell’ambito dell’Accordo di Pace tra il governo, allora presieduto da Manuel Santos, e la guerriglia delle Farc-esercito del popolo, firmato nel 2016.

La demolizione di quegli accordi, cominciando dalla riforma agraria e passando per l’eliminazione sistematica degli ex guerriglieri e dei leader sociali delle proteste che, da allora, hanno caratterizzato la resistenza popolare, costituiscono un combustibile forte delle attuali manifestazioni. Iniziata come reazione alla riforma tributaria di Ivan Duque per togliere ai poveri e dare ai ricchi, secondo la ricetta neoliberista, la protesta sta assumendo caratteri insurrezionali e evidenziando una domanda di cambiamento strutturale degli assetti di potere.

Con varie modulazioni, l’opposizione di sinistra che sta lavorando a un Patto Storico per le elezioni del 2022, prova a far fruttare le mobilitazioni e a scongiurare un bagno di sangue prospettato dagli attuali centri di potere. I continui black out organizzati per prendere a bersaglio i dirigenti delle proteste con droni e armi a raggi infrarossi, ricordano quello stormo di aerei da guerra che, mentre si stava firmando l’accordo di pace, si sono minacciosamente levati nel cielo di Cartagena, il 26 settembre del 2016: l’annuncio della formidabile campagna messa in atto dalla destra durante il referendum, che ha fatto vincere il “no” a gli accordi e portato a rinegoziarli al ribasso.

Diversi sindaci della destra hanno voluto lo stato d’emergenza e l’intervento speciale dell’esercito, che ha di fatto chiuso le città dove le manifestazioni sono più intense. Duque ha già annunciato che, per gravi motivi di ordine pubblico, potrebbe richiedere lo stato di “implosione interna” di conmoción interior, che gli consentirebbe di assumere pieni poteri.

Il candidato che viene considerato primo nei sondaggi se le elezioni fossero oggi, è Gustavo Petro, che già sarebbe risultato vincitore alle scorse presidenziali se tutto si fosse svolto in modo regolare e non a colpi di grossolane truffe che, però, non hanno portato a proteste del signor Almagro, com’è avvenuto, al contrario in Bolivia per innescare il golpe del 2019 contro Morales.

Uno degli attori del Patto Storico è il partito Comunes, attuale forma e denominazione politica che ha assunto quella parte della guerriglia Farc che continua a sedere in Parlamento. Tutti chiedono di caratterizzare questa fase della lotta di massa con un punto fermo che segni una vittoria e al contempo obblighi il governo Duque a smascherare ulteriormente il suo bluff, mostrandone l’irriformabilità.

Il governo ha mandato una lettera d’invito formale per il 10 maggio al portavoce del Comitato nazionale dello sciopero, Francisco Maltés Tello con l’intento di “ascoltarci e avanzare in quello che c’è di fondamentale”. Ma è chiaro che nessuno crede alla retorica dell’imbelle Duque. Finora, alla piazza non sono bastate né il ritiro della riforma tributaria, né le dimissioni del ministro delle Finanze.

 In attesa dell’incontro, ha annunciato Maltés Tello, lo sciopero continua. E il consenso si allarga ogni giorno di più ai settori impoveriti dalle politiche neoliberiste, che sfidano la paura seminata dagli apparati di propaganda che definiscono “vandalismo terrorista” la domanda di cambiamento non più procrastinabile.

Dalle montagne della Colombia, le Farc-Ep, seconda Marquetalia, hanno diffuso un nuovo comunicato video per sostenere le ragioni della protesta. A parlare a nome dell’ultra-cinquantennale guerriglia colombiana, è stato Ivan Marquez, uno dei comandanti che hanno ripreso le armi, ritenendo falliti gli accordi di pace firmati con l’ex presidente Manuel Santos, nel 2016.

Durante l’ultimo mese, è il secondo pronunciamento pubblico importante da parte della guerriglia. Il primo ha chiarito che gli attacchi alla rivoluzione bolivariana che si stanno verificando nello stato di Apure, alla frontiera con la Colombia, non sono opera delle Farc, che si considerano parte del progetto bolivariano della Patria Grande. Un concetto che Marquez ha richiamato anche in questo video-comunicato per rivolgere un appello ai militari colombiani a non rivolgere il fucile contro il proprio popolo.

 “Maledetto sia il soldato che punta l’arma contro il suo popolo. La libertà è l’unico oggetto degno di sacrificio nella vita degli uomini”, aveva detto il Libertador, le cui gesta indipendentiste vengono celebrate in America Latina in questo Bicentenario. Le Farc hanno indicato come esempio “l’unione civico-militare” che, in Venezuela, costituisce l’architrave del socialismo bolivariano, e invitato i soldati a disobbedire. E sono già tanti i pronunciamenti pubblici da parte di giovani soldati colombiani che stanno scegliendo di disobbedire.

“La ottusa arroganza di Duque è la causa di questa bellissima protesta per la dignità e il risveglio delle coscienze”, ha detto Marquez. Già sa questo governo di vandali e repressori che il popolo ha la forza di sconfiggerli, e il popolo ha constatato che, se lotta unito sotto la bandiera del cambiamento, non ci sarà alcun malgoverno che gli resista. Se questo popolo eroico marcia fino al palazzo Nariño, appoggiato da polizia e militari con sentimento di patria e umanità, avremo un nuovo governo o per la forza irresistibile delle masse o per la via costituzionale. Questo è sicuro”.

Basta Duque, hanno detto le Farc. “Non più repressione militare né trattamento di guerra contro un popolo inerme. Fermi l’uso sproporzionato della forza. Non attacchi il popolo con gli elicotteri, non lo intimidisca con sorvoli di aerei giorno e notte sulla città, non tagli l’elettricità per sparare sui partecipanti alla protesta. Ritiri i suoi sicari e paramilitari che stanno sparando sui dirigenti della protesta. Adesso sappiamo chi sono quelli che stanno assassinando i dirigenti sociali- hanno aggiunto-. Risponda, presidente Duque, alle esortazioni dell’Onu e della Ue, fermi la repressione, renda conto dei morti e degli scomparsi. Non si azzardi a decretare lo stato di emergenza interna perché il popolo non lo rispetterà e vi travolgerà. Ascolti il popolo e suoi reclami, presidente, non menta e non inganni più. È veramente cinico da parte sua dire che la protesta è finanziata dal narcotraffico, quando lei è arrivato alla presidenza grazie al finanziamento di queste bande mafiose. È il denaro del narcotraffico che ha convertito lei in presidente della repubblica, raccolto dal suo amico el Neñe Hernandez”, hanno detto le Farc riferendosi all’inchiesta giudiziaria che ha mostrato come il noto narcotrafficante avesse diretto per sette mesi la campagna elettorale di Duque per la presidenza.

“Il suo padrino politico, l’innominabile – ha continuato Ivan Marquez - è il vero conduttore di questo narcostato, e questo pesa molto nel momento delle trattative. Chiediamo alla forza pubblica di non lasciarsi usare oltre da alcuni oligarchi egoisti e violenti che hanno convertito una istituzione che per mandato del Libertador deve difendere le garanzie sociali, in un esercito privato che pensa al suo profitto e alla propria permanenza nel potere. Non c’è rispetto per il popolo in divisa. Voi potere essere come Chavez. Il vostro posto è al lato del popolo e con lo stesso popolo, in unità civico-militare. Dovete sostenere l’accordo politico nazionale per ristabilire la vera democrazia con giustizia sociale e in piena sovranità”.

L’innominabile è l’ex presidente Alvaro Uribe, che sembra resistere a tutte le tempeste e le stagioni, comprese le numerose inchieste giudiziarie che ne evidenziano le responsabilità nei massacri in Colombia. In un’intervista alla CNN, Uribe è apparso nervoso, contestando anche i richiami dell’Onu, di Amnesty International e persino della Ue, che per una volta non si sono volti al Venezuela ma anche all’intoccabile vassallo principale degli Stati Uniti nel continente latinoamericano: “Si sbagliano tutti”, ha detto l’ex presidente, tornando a difendere l’operato delle forze dell’ordine e dei militari, schierati nelle strade e i loro “diritti umani”.

E se quel primo twitter di Uribe è stato ritirato in quanto istigatore di violenza, nei successivi l’ex presidente ha continuato a ostentare la sua dottrina della guerra civile permanente e del terrorismo vandalico come essenza principale delle proteste, da trattare come un problema di sicurezza nazionale che considera i manifestanti come obiettivi militari. Al riguardo, è interessante notare come Uribe utilizzi il concetto di “rivoluzione molecolare” in senso diametralmente opposto a quello introdotto dal filosofo francese Felix Guattari alla fine degli anni Settanta.

 Nella sua visione, Guattari definiva la rivoluzione come portato naturale della lotta di classe, deputata ad abbattere il capitalismo sconvolgendo e rinnovando tutti gli aspetti della realtà. Per criminalizzare la protesta, Uribe si basa invece sulla distorsione del concetto compiuta dai teorici dell’estrema destra cilena, e che poi hanno fatto scuola. “Occorre resistere – ha detto Uribe – alla rivoluzione molecolare dissipata che impedisce la normalità, cresce e ti circonda”.

Un concetto utilizzato da un guru dei media cileno, il nazista Alexis Lopez, secondo cui in Colombia, ma anche in altre parti dell’America Latina, sta prendendo piede un nuovo modello di azione rivoluzionaria orizzontale per decostruire lo stato de l’ordine istituito: mediante comportamenti “che normalizzano in maniera graduale e quotidiana disposizioni e condotte in vista di alterare lo stato di normalità sociale del sistema dominante, con l’obiettivo di derogarlo e sostituirlo”.

In quest’ottica, starebbe avvenendo un nuovo indottrinamento dei giovani attraverso le reti sociali per portarli a nuove forme di comunismo. Tesi che Lopez ha diffuso anche di recente nell’Università Militare di Nueva Granada.

Gustavo Petro ha detto che Uribe e Lopez hanno visioni apparentabili a quelle della setta Qanon del nordamerica trumpista. Riposizionato nel suo giusto contesto, invece, il concetto di rivoluzione molecolare di guattariana memoria, fotografa le modalità di risposta di classe nel disastro post-novecentesco, e le forme attraverso le quali si va configurando una nuova unità di classe fuori dalle rappresentanze istituzionali borghesi, e nei contesti comunitari del continente.

I popoli indigeni colombiani, infatti, particolarmente colpiti dalla distruzione inquinante e senza alternativa della coltivazione di coca, sono stati protagonisti di precedenti ondate di protesta che hanno preparato quella attuale. La lotta del popolo colombiano indica la tavola dei problemi e le possibili soluzioni in questa fase di resettaggio globale del capitalismo.

“Dietro la paura, c’è il paese che voglio”, dicono i cartelli dei giovani in lotta contro il terrorismo di stato, che rivendica la propria arroganza, forte del sostegno del grande gendarme occidentale. E gli obiettivi internazionalisti sono molto presenti nei cortei. D’altronde, nell’economia di guerra della Colombia, al secondo posto per le spese militari, le relazioni del governo con quello israeliano sono visibili nel controllo del territorio, e la solidarietà con il popolo palestinese è visibile.

In Colombia, le popolazioni povere afrocolombiane e indigene vivono, nei fatti, la stessa situazione di apartheid. Mettendo lo sguardo su una delle città più combattive in queste proteste, Cali, si può avere un’idea di cosa sia in gioco. Cali ha il più importante porto del Pacifico, ma la ricchezza riguarda parte di quelle 60 famiglie che posseggono quella mondiale. Il 90% degli abitanti di Cali, infatti, è povero e supersfruttato.

La stessa città è stata disegnata per marcare la divisione tra la parte ricca e la parte povera, dove vive la popolazione afro e indigena. Però queste proteste, che hanno anche una forte valenza simbolica com’è avvenuto negli Stati uniti, stanno cambiando la geografia del territorio, sostituendo statue e nomi delle strade e riappropriandosi degli spazi. Uno dei nomi più gettonati è Piazza della Dignità. La dignità della lotta di classe, che contesta la visione accomodante secondo la quale il mondo si divide in vittime e carnefici, come vogliono farci credere qui.

 E mentre il governo accusa il socialismo bolivariano di essere l’ispiratore delle proteste, la fantasia dei movimenti popolari sta facendo circolare cartelli che dicono: scoperto un pericoloso venezuelano tra i manifestanti colombiani: un certo Simon Bolivar.

Concludiamo con l’invito a vedere in rete un emozionante video girato a Medellin. Una città colombiana in lotta nella quale un’orchestra diretta da una compagna (da tempo oggetto di minacce di morte), attorniata da una folla di bandiere e di cartelli, suona la musica degli Inti Illimani, la sempreverde El pueblo unido, jamás sera vencido. Da prendere come un augurio anche dalle nostre parti, dove, anziché per il potere popolare si protesta per lo spritz.

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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