Bellicismo e austerità li pagano sempre i lavoratori

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Bellicismo e austerità li pagano sempre i lavoratori

 

“Io vengo dal morto e tu mi dici che è vivo”. Questo modo di dire napoletano riassume in maniera efficace la reazione di sorpresa provata dal parlante nel momento in cui un interlocutore afferma l’esatto contrario della realtà. Ebbene, è proprio questo quello che si prova leggendo la dichiarazione dell’Eurogruppo di qualche giorno fa sugli orientamenti di bilancio per il 2023, in cui si invitano i Paesi con i debiti pubblici più elevati a mettere in campo politiche fiscali restrittive. L’impressione è quella di un totale stravolgimento della realtà: il ritornello dell’austerità come strumento salvifico a fronte della palese evidenza in senso contrario. Un ritornello che suona ancora più stonato se si considera, invece, la prodigalità con la quale alcuni paesi, tra i quali l’Italia, aumentano la propria spesa militare in una corsa al riarmo a dir poco preoccupante.

Ma andiamo con ordine. L’Eurogruppo è un organo informale che riunisce i ministri dell’economia dei paesi della zona euro. Si riunisce una volta al mese per discutere dei principali temi di politica economica e per portare avanti una forma di coordinamento tra le politiche economiche dei singoli paesi. Nell’ultima riunione sono stati discussi, come si diceva sopra, gli orientamenti di bilancio per l’anno 2023.

Non è un mistero che la stella polare delle politiche economiche nella zona euro, a causa delle caratteristiche genetiche dell’Unione europea, sia quella della riduzione della spesa pubblica. L’ultima riunione dell’Eurogruppo non fa eccezione e fa presagire il ritorno alla “normalità” dopo i bagordi che hanno caratterizzato il periodo pandemico.

Scrive l’Eurogruppo: “[…] sembra appropriata una transizione da un atteggiamento di sostegno fiscale (leggi: politiche fiscali espansive) nell’area euro a un atteggiamento sostanzialmente neutrale per il prossimo anno, restando pronti a reagire all’evoluzione della situazione economica, anche considerati gli elevati livelli di incertezza”. Una riproposizione di un refrain già ascoltato più volte e che, in buona sostanza, si può tradurre con “la festa è finita”.

“Allo stesso tempo”, continua lo statement, “è necessaria una differenziazione nelle strategie fiscali dei vari stati membri. Ciò contribuirebbe al raggiungimento di un atteggiamento fiscale bilanciato nell’area euro. Più specificamente, al fine di preservare la sostenibilità del debito, concordiamo sul fatto che negli stati membri con alti debiti pubblici sarebbe appropriato procedere a graduali aggiustamenti fiscali per la riduzione del debito pubblico, se le condizioni lo permetteranno. Tale aggiustamento dovrebbe essere inserito in una strategia di medio termine credibile che continui a promuovere gli investimenti e le riforme necessarie per la doppia transizione (ndr: ecologica e digitale), migliorando la composizione delle finanze pubbliche. Dall’altra parte, gli stati membri con livelli di debito bassi o medi dovrebbero dare priorità all’espansione degli investimenti pubblici, laddove ciò sia necessario”.

Parole che sembrerebbero di buon senso. D’altronde, se abbiamo molti debiti, la cosa migliore da fare sembrerebbe quella di ridurre le nostre spese, ferme restando le entrate. Il problema è che questo ragionamento, che vale per il privato cittadino indebitato, non vale quando si prende in considerazione uno Stato. Ciò almeno per due ordini di ragioni.

Il primo è che le considerazioni sulla sostenibilità del debito pubblico di un paese non vengono effettuate sul valore assoluto del debito, ma sul rapporto tra il debito pubblico e il PIL, ovvero il valore economico del totale della produzione del paese. Ridurre il debito pubblico significa, sostanzialmente, che lo stato deve spendere meno di quel che raccoglie attraverso tasse e imposte. Ma ciò, a sua volta, significa che lo stato deve sottrarre risorse dall’economia. Ad esempio, riducendo la spesa pubblica per investimenti e consumi o aumentando tasse e imposte. Questo, a sua volta, fa ridurre la domanda che viene rivolta alle imprese (che produrranno e investiranno di meno) e impoverisce i lavoratori (che consumeranno di meno e dovranno spendere di più per acquistare privatamente quei beni e servizi, come la sanità, che lo Stato rinuncia a offrire o offre con infinite difficoltà per la necessità di stringere la cinghia). Un circolo vizioso che finisce con il far ridurre il PIL, facendo aumentare, invece che diminuire, il peso del debito pubblico.

Il secondo ordine di ragione concerne il punto di vista delle entrate. Le entrate dello Stato sono costituite principalmente da tasse, imposte e contributi previdenziali e assistenziali. Tutte queste voci di entrata sono sostanzialmente crescenti al crescere dei livelli di attività dell’economia, ovvero del PIL. Una politica economica che porti alla riduzione della domanda e, quindi, della produzione e dell’occupazione, finirebbe per ridurre non solo il prodotto interno lordo, ma anche le entrate, peggiorando, anziché migliorare, le prospettive di sostenibilità del debito.

Questo ci fa capire che in determinate condizioni, soprattutto quando, come adesso, siamo schiacciati tra le incertezze per il futuro (che tendono a deprimere gli investimenti privati) e l’aumento dei costi dell’energia e, a cascata, di beni e servizi (il che tende a deprimere il potere di acquisto e, quindi, i consumi), sono proprio i paesi con una posizione debitoria più debole a dover sostenere maggiormente le proprie economie. L’esatto contrario di quanto sostenuto dall’Eurogruppo nei suoi “orientamenti”.

Orientamenti che suonano ancora più sinistri se si considera, come dicevamo sopra, che le prospettive internazionali e la propaganda di guerra ci spingono a temere il peggio. Il Parlamento italiano, infatti, come gran parte dei parlamenti della zona euro, non è rimasto indifferente alle sirene bellicistiche che risuonano ininterrottamente da qualche settimana. Pochi giorni fa è stato, infatti, approvato dalla Camera dei deputati un ordine del giorno che impegna il Governo “ad avviare l’incremento delle spese per la Difesa verso il traguardo del 2 per cento del Pil, dando concretezza a quanto affermato alla Camera dal Presidente del Consiglio il 1° marzo scorso e predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e protezione, a tutela degli interessi nazionali, anche dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti energetici”.

Un ordine del giorno, nel linguaggio parlamentare, è un atto di indirizzo, attraverso il quale la Camera impegna politicamente il Governo a compiere determinati atti. Impegni politici, non giuridici, che quindi non comportano immediatamente l’aumento della spesa pubblica per fini militari. Si tratta di uno strumento che ha un valore essenzialmente politico. A dare maggiore concretezza all’impegno, però, è arrivata l’immediata scelta del Governo di accogliere l’Ordine del giorno, manifestando, in questo modo, la volontà di adeguarsi all’impegno richiestogli dalla Camera.

Come ci ricorda Milex, Osservatorio sulle spese militari italiane, ciò comporterebbe passare dagli attuali 25 miliardi l’anno (circa 68 milioni al giorno) a 38 miliardi l’anno (circa 104 milioni al giorno). Tredici miliardi l’anno in più per le spese militari. Tredici miliardi l’anno che, di conseguenza, dovranno essere trovati da qualche parte.

Se non si può fare ulteriore debito e, anzi, occorre rientrare dal debito, da dove verranno presi questi tredici miliardi l’anno? Non si tratta di una cifra trascurabile. Si consideri, per fare un confronto con una misura nota a tutti, che la spesa annua destinata al finanziamento del reddito di cittadinanza ammonta a poco meno di nove miliardi di euro. Da qui nasce la doppia fregatura: dal combinato europeo di bellicismo e austerità discende inequivocabilmente non soltanto un sistema internazionale più instabile e conflittuale, ma anche ulteriori tagli alla spesa sociale, riforme draconiane e, in generale, stagnazione e disoccupazione.

Siamo dunque stretti in una morsa poderosa. Guerra, inflazione da costi (e speculazione), tagli, austerità. Elementi che, messi insieme, potrebbero annientare sul nascere la tanto attesa ripresa post-pandemia, uccidendo le economie dell’eurozona e dell’Ue, compresa quella italiana. E, ciononostante, siamo certi che troveremo ancora qualcuno pronto a giurarci che tutto va bene. Che “il morto sta bene in salute”.

Coniare Rivolta

Coniare Rivolta

Collettivo di economisti 

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