Trump e la "Dottrina Monroe"
di Leonardo Sinigaglia
Quasi esattamente un secolo fa gli Stati Uniti, consolidata la propria sovranità sui territori strappati al controllo dell’impero britannico, annunciavano al mondo che la totalità del continente americano sarebbe stata considerata da quel momento in avanti una zona d’esclusiva competenza di Washington. Ciò inizialmente si manifestò nel sostegno dato ai paesi latinoamericani nelle loro lotte d’indipendenza, ma l’apparenza “libertaria” dell’azione statunitense cedette presto il passo a un chiaro disegno egemonico. Quella che è passata alla Storia come “Dottrina Monroe” venne in realtà codificata più di due decenni dopo la presidenza dell’omonimo statista, esponente del Partito Democratico-Repubblicano, antenato dell’attuale GOP, che ne pose materialmente le basi. Fu durante la presidenza di James Knox Polk, democratico, che essa venne sistematizzata per mano dell’allora Segretario di Stato John Quincy Adams. Il discorso inaugurale della presidenza Polk del 1845 ben rappresenta la nuova ottica egemonica con cui la giovanissima federazione si approcciava a quello che riteneva essere di diritto il “suo” emisfero: “L'occasione è stata ritenuta opportuna per affermare, come principio in cui sono coinvolti i diritti e gli interessi degli Stati Uniti, che i continenti americani, per la condizione di libertà e indipendenza che hanno assunto e mantengono, d'ora in poi non devono essere considerati come soggetti per una futura colonizzazione da parte di alcuna potenza europea. [...].
Dobbiamo quindi alla franchezza e alle amichevoli relazioni esistenti tra gli Stati Uniti e quelle potenze dichiarare che dovremmo considerare pericoloso per la nostra pace e sicurezza qualsiasi tentativo da parte loro di estendere il loro sistema a qualsiasi parte di questo emisfero” .
Dietro il linguaggio diplomatico si celava la volontà di espellere gli interessi “stranieri” al continente americano non per portare all’avvicinamento dei popoli che lo abitavano, ma per imporre la supremazia degli Stati Uniti d’America. Se è ben noto che l’ideologia del “destino manifesto” prevedeva il progressivo annientamento dei nativi americani, visti come parte della “wilderness”, è giusto tenere a mente che le popolazioni latinoamericane erano viste come altrettanto immeritevoli di qualsivoglia sovranità nazionale. La marcia verso ovest della “civiltà” statunitense non fu diretta solamente contro le Prime nazioni, ma, diramandosi verso Sud, anche verso il resto degli abitanti del continente e gli Stati che, faticosamente e spesso in maniera precaria, erano riusciti a costruire. Pochi anni dopo il discorso inaugurale di Polk, le truppe di Washington aggredirono la California, il Texas e il Nuovo Messico, dove da anni serpeggiava la rivolta dei coloni statunitensi contro lo Stato messicano, animata soprattutto dalla loro volontà di conservare la schiavitù, istituzione abolita dal presidente Vicente Ramon Guerrero nel 1837. La guerra fu fulminea e particolarmente cruenta, con esecuzioni sommarie di guerriglieri e prigionieri messicani da parte dei soldati statunitensi, e si concluse con l’occupazione di Città del Messico e l’annessione di tutti i territori fino al Pacifico.
Gli Stati Uniti impiegarono la seconda parte del XX secolo per terminare l’occupazione dell’Ovest: nel 1900 furono censiti e lottizzati anche gli ultimi chilometri quadrati di territorio, pronti per essere venduti alle aziende che ne avessero avuto bisogno o assegnati ai coloni. Lo sviluppo economico capitalista aveva intanto reso gli Stati Uniti una potenza in grado di competere a livello internazionale con gli imperi europei. La loro enorme estensione continentale sembrava però non bastare, e quindi Washington iniziò la costruzione di un suo “impero”, un impero che, al contrario di quelli concorrenti, sarebbe dovuto essere “democratico”, senza corone e formalizzazioni coloniali, ma non per questo meno dispotico e sterminatore.
Liquidato il Messico, gli Stati Uniti imposero la propria forza in tutta l’America Latina non solo con la penetrazione economica, ma anche con diretti interventi militari. Il corpo dei Marines fu utilizzato ampiamente per operazioni di “polizia” volte a pacificare governi recalcitranti o ribellioni indipendentiste in numerose occasioni: nel 1852 e nel 1890 in Argentina, nel 1854, 1857, 1865, 1870 e 1895 nella Gran Colombia, in Nicaragua, nel 1855, 1858, 1857 e 1894, in Uruguay nel 1855, nel 1858 e nel 1868, nel Paraguay nel 1859. Nel 1898 gli Stati Uniti riuscirono a strappare alla Spagna il controllo di Cuba, di Porto Rico, dell’isola di Guam e delle Filippine, dove repressero nel sangue una grande rivolta indipendentista causando più di 100.000 morti. Nel 1903 il presidente Theodore Roosevelt, veterano della guerra cubana, promosse un colpo di Stato a Panama, parte della Gran Colombia, con l’obiettivo di far dichiarare l’indipendenza della regione per porla sotto tutela diretta statunitense e avviare la costruzione del canale, che sarebbe stato nelle mani di Washington fino al 1999. Negli stessi anni ebbero luogo le infami “guerre delle banane”, così chiamate per il centrale ruolo giocato dagli interessi delle grandi aziende agroalimentari, tra tutte la United Fruit Company, l’attuale Chiquita, e la Standard Fruit Company, attuale Dole, desiderose di evitare a tutti i costi qualsiasi riforma agricola volta e qualsiasi diminuzione della loro influenza sugli Stati latinoamericani. Si ebbero numerose incursioni nella Repubblica Dominicana, poi occupata stabilmente dal 1916 al 1924, l’occupazione del Nicaragua dal 1912 al 1933, nuovi scontri con il Messico tra il 1910 e il 1917, con il coinvolgimento diretto nella guerra civile che divise il paese, l’occupazione di Haiti tra il 1915 e il 1934, oltre che ben sette interventi armati contro l’Honduras, paese a tutti gli effetti controllato dalla United Fruit e convertito alla monocultura delle banane che venivano da lì, con nullo vantaggio per gli abitanti, esportate nel mondo occidentale.
E’ bene notare che questo interventismo americano andò di pari passo con una retorica “isolazionista”: non vi era contraddizione materiale tra la “neutralità” rivendicata da Washington negli affari europei e le violente intromissioni nella vita interna degli Stati americani, in quanto essi erano visti non come entità autonome e indipendenti, ma come “cortile di casa” degli Stati Uniti. In questo modo la totalità del continente americano divenne il centro di un potere imperiale che, grazie alle due guerre mondiali, si sarebbe imposto a livello globale nel giro di pochi decenni, venendo ostacolato solo dal movimento anticoloniale e dal campo socialista. La presa sul continente americano è rimasta pressoché totale durante la Guerra Fredda e la successiva costruzione dell’ordine egemonico unipolare, con le significative eccezioni di Cuba, del Venezuela e del Nicaragua. La fase internazionale iniziata con la caduta del blocco orientale e l’imposizione globale del “Washington consensus” può sembrare per certi versi opposta rispetto all’epoca segnata dalla “dottrina Monroe”, ma in realtà non ne è che una sua logica prosecuzione: se prima la totalità del continente americano era stato sottoposto alla sovranità statunitense, ora un regime di Washington immensamente più forte era capace di estendere virtualmente all’infinito i confini di quell’emisfero pensato come di propria esclusiva competenza.
E’ quindi errato vedere nella prospettiva strategica statunitense una dicotomia fondamentale tra isolazionismo e interventismo come se si trattasse di due visioni opposte. Esse in realtà non sono che espressioni differenti della medesima prospettiva egemonica ed imperialista, due espressioni che fanno riferimento a due momenti differenti: la prima a un momento di raccoglimento delle forze, la seconda a uno di espressione violenta delle forze accumulate.
Rispetto all’illusione interventista del gruppo dirigente DEM, l’isolazionismo proposto da Donald Trump rappresenta una politica più realistica e razionale nella fase attuale segnata dalla crisi e dall’indebolimento del regime egemonico statunitense. Non bisogna scambiare questo isolazionismo per la volontà di rinunciare allo status di “nazione indispensabile”, ma serve vederlo per quello che è: una ritirata strategica all’interno del continente americano che si vuole nuovamente riproporre come base per le ambizioni imperiali di Washington. I teatri di scontro esterni al continente americano, dal Medio Oriente all’Ucraina, passando per l’Africa e l’Asia-Pacifico, non saranno in nessun modo abbandonati, ma verranno sempre più “appaltati” agli alleati subalterni locali, sui quali in maniera crescente ricadranno i costi sociali, economici e militari dei conflitti.
A poche settimane dal secondo insediamento di Trump continuano ad aumentare i segnali della volontà della prossima amministrazione di portare avanti questa nuova prospettiva isolazionista. Le minacce rivolte al governo panamense, contro il quale viene ventilato un nuovo intervento militare nel caso non fossero rimossi i dazi sul passaggio del naviglio USA, le ipotesi di acquisto della Groenlandia e di invasione del Messico nell’ottica della “guerra ai cartelli della droga”, così come il riferirsi al primo ministro canadese Trudeau come “governatore” di uno Stato dell’Unione non vanno lette come semplici provocazioni, ma come indizio di una concreta volontà di aumentare il controllo sul continente e lo sfruttamento di questo da parte di Washington in un contesto di profonda crisi dell’ordine unipolare.