Dalla partizione coloniale ai BRICS: il Kashmir come laboratorio delle tensioni globali
L’eredità di un ordine globale ingiusto continua a generare conflitti locali con conseguenze planetarie
Un territorio, due potenze nucleari, decenni di tensioni. La questione del Kashmir non è solo un conflitto territoriale tra India e Pakistan. È una complessa matassa di interessi strategici, ambizioni nazionali, ideologie religiose, storia coloniale e dinamiche globali che si intrecciano da oltre settant’anni. In questa regione montuosa, strategicamente cruciale per la sua posizione geografica e le sue risorse idriche, si scontrano narrazioni contrastanti, diritti negati, alleanze mutevoli e una tensione costante che ha spesso sfiorato l’esplosione nucleare.
L’attentato terroristico di Pahalgam - che ha provocato 26 vittime civili nella parte indiana del Kashmir - ha portato nuovamente i due Paesi nucleari sull’orlo di uno scontro diretto. Modi ha autorizzato l’esercito indiano a colpire, mentre il Pakistan ha affermato di aspettare un attacco a breve.
Il governo indiano ha accusato Islamabad di essere coinvolta nell’attacco attraverso gruppi jihadisti come The Resistance Front (TRF), ramo operativo del Lashkar-e-Taiba, affiliato al terrorista ricercato Hafiz Saeed. L’esercito pakistano ha respinto ogni responsabilità, proponendo un'indagine internazionale neutrale.
Ma sono state le rivelazioni del ministro della Difesa pakistano Khwaja Muhammad Asif ad aggiungere un ulteriore grado di complessità alla situazione.
In un’intervista a Sky News, Asif ha ammesso apertamente che il Pakistan ha “fatto il lavoro sporco” per gli Stati Uniti e l’Occidente negli ultimi tre decenni, inclusa la sponsorizzazione di gruppi militanti durante le guerre sovietico-afghana e post-11 settembre. Ha definito questa scelta un errore, sottolineando che il tracciato diplomatico del Pakistan sarebbe stato “irreprensibile” senza questa ingerenza esterna. Queste dichiarazioni, pur non direttamente collegate all’attacco di Pahalgam, mettono in luce un rapporto storico tra Islamabad e Washington che va ben al di là della semplice cooperazione strategica: questo include l’appoggio a movimenti jihadisti, la creazione di milizie locali e una politica basata su interessi immediati piuttosto che su stabilità duratura.
Le radici coloniali di un conflitto secolare
Per comprendere appieno la natura profonda del conflitto nel Kashmir bisogna però tornare al periodo coloniale britannico, come evidenziato dal quotidiano iraniano Tehran Times. La divisione del subcontinente indiano nel 1947, lungi dall’essere una soluzione netta e definitiva, ha creato le condizioni per un confronto destinato a protrarsi nel tempo, proprio come in tanti altri angoli del mondo dove l’eredità del colonialismo britannico continua a seminare morte e distruzione. Il Kashmir, con una maggioranza musulmana ma governato da un principe indù, fu uno dei punti più controversi del processo di partizione. I Britannici lasciarono ai principi locali la possibilità di scegliere a quale Stato aderire - India o Pakistan - ma nel caso del Kashmir la scelta fu forzata, con l’India che inviò truppe a sostegno dell’annessione e il Pakistan che reagì militarmente.
Da quel momento, il Kashmir è diventato un simbolo di ambiguità geopolitica: nessun plebiscito mai effettivamente realizzato, frontiere contestate, interventi armati e una popolazione civile costantemente esposta alla violenza. Secondo i documenti desecretati del Dipartimento di Stato statunitense (1948–1957), anche Washington ebbe un ruolo chiave nel plasmare questa situazione. Inizialmente, gli USA promossero l’idea di un referendum per decidere il destino della regione. Tuttavia, col progredire della Guerra Fredda, l’attenzione si spostò verso il contenimento dell’influenza sovietica in Asia meridionale, e la causa del popolo kashmiro passò in secondo piano.
Un memorandum del 1950 chiarisce inequivocabilmente questa inversione di rotta: "Un Kashmir indipendente verrebbe quasi certamente conquistato dai comunisti". Da quel momento, il governo statunitense abbandonò progressivamente l’idea di autodeterminazione e iniziò a schierarsi con Nuova Delhi, pur mantenendo aperture diplomatiche verso Islamabad. Insomma, il consueto atteggiamento statunitense basato esclusivamente sui propri interessi strategici, con pressoché nessuna attenzione verso quelle che sono implicazioni e conseguenze.
La variante BRICS
In questo scenario altamente instabile, si inserisce il BRICS+, blocco multipolare emergente composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, recentemente allargatosi ad altri membri chiave come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Iran ed Etiopia. L’espansione del gruppo segna una svolta significativa, non solo per la sua ambizione di diventare un polo alternativo alle strutture di potere occidentali, ma anche per le sfide diplomatiche che inevitabilmente comporta.
L’India, storico membro fondatore del BRICS, riveste una posizione centrale all’interno del blocco. È vista, da alcuni osservatori, come un contrappeso alla crescente influenza cinese e come un partner economico e tecnologico cruciale per molte economie emergenti. Al tempo stesso, il contrasto con il Pakistan rappresenta un potenziale fattore di fragilità per il BRICS, che dovrà imparare a gestire eventuali crisi interne per non compromettere la coesione del gruppo.
Davanti alla possibilità di uno scontro diretto tra l’India e un paese come il Pakistan potenzialmente interessato ad entrare nel blocco, si pone una domanda fondamentale: possono i BRICS giocare un ruolo nel contenimento delle tensioni? E se sì, quali strumenti diplomatici o politici possono essere utilizzati per evitare che un conflitto locale si trasformi in una crisi globale, con un concreto rischio nucleare?
Innanzitutto, va chiarito che il BRICS non è un’organizzazione militare né un’alleanza difensiva. Si basa principalmente su obiettivi di cooperazione economica, finanziaria e politica. Tuttavia, negli ultimi anni il blocco ha cercato di espandere la sua influenza anche nel campo della diplomazia internazionale, soprattutto attraverso iniziative di mediazione informale in aree colpite da conflitti.
La recente espansione dei BRICS, che include Paesi come l’Iran - anch’esso coinvolto indirettamente nella questione kashmiri tramite la sua mediazione tra India e Pakistan - offre nuove opportunità di dialogo. Teheran ha già avanzato la propria disponibilità a fungere da mediatore neutro, presentandosi come un attore affidabile per entrambe le parti. Questo ruolo potrebbe essere rafforzato proprio grazie al sostegno dei BRICS, che potrebbero spingere per un tavolo di discussione multilaterale sotto l’egida del gruppo.
Tuttavia, tale azione richiederebbe una volontà comune e una capacità di coordinamento tra i membri dei BRICS che oggi appare poco consolidata. La presenza della Cina, che mantiene rapporti privilegiati con il Pakistan, e quella dell'India, che invece teme di vedere indebolita la sua autonomia decisionale, rendono difficile raggiungere una posizione unitaria sul tema.
Tuttavia, nonostante ostacoli e difficoltà, i BRICS hanno degli strumenti a disposizione per provare a disinnescare questa crisi. Una possibile strada da percorrere è quella di promuovere un dialogo formale tra le due nazioni, creando un tavolo di discussione sotto l’egida del gruppo, eventualmente ospitato in un Paese terzo come l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti o l’Iran, in grado di garantire neutralità e sicurezza. Parallelamente, i BRICS potrebbero sostenere l’intervento di osservatori internazionali neutrali, coinvolgendo organismi specializzati per facilitare inchieste indipendenti sull’attacco di Pahalgam e chiarire eventuali responsabilità senza alimentare polemiche strumentali. Un altro canale di cooperazione potrebbe emergere attraverso iniziative economiche congiunte: progetti infrastrutturali transfrontalieri, accordi energetici e collaborazioni commerciali potrebbero generare un interesse comune capace di superare, almeno parzialmente, le ostilità politiche. A questo si aggiunge il ruolo potenzialmente decisivo dell’Iran, entrato recentemente a far parte del BRICS e già disponibile a fungere da mediatore neutro tra India e Pakistan. La sua posizione storica di equidistanza e la sua nuova collocazione nel blocco offrono un’opportunità per rafforzare la credibilità del BRICS come attore diplomatico globale, capace di tradurre ambizioni multilaterali in azioni concrete.
Tra colonialismo, guerra fredda e futuro
Il Kashmir rimane il riflesso di un mondo dove le vecchie logiche imperialiste si sovrappongono a quelle della competizione globale. Gli errori del passato - il colonialismo britannico, la deriva anti-comunista statunitense, la sponsorizzazione di gruppi jihadisti da parte di potenze regionali - continuano a generare instabilità. Oggi, però, il quadro si arricchisce di nuove variabili: l’espansione del BRICS, l’interessante posizione geopolitica dell’Iran, lo spostamento dell’asse mondiale verso i paesi emergenti del cosiddetto sud del mondo.
Se il blocco multipolare BRICS vorrà davvero giocare un ruolo da protagonista nella gestione delle crisi internazionali, dovrà dimostrare di saper affrontare situazioni critiche come quella del Kashmir. Non basteranno proclami di principio o comunicati ufficiali. Servirà una diplomazia concreta, equilibrata e capace di andare oltre le divisioni e posizionamenti storici. Perché la pace nel Kashmir - così come la stabilità globale - dipenderà sempre meno dalle armi (al contrario di quanto vanno affermando nella morente Europa) e sempre più dalla capacità delle élite politiche di scegliere il dialogo anziché il conflitto.