Relazioni Israele-Usa: tra Biden e Netanyahu è ancora gelo...

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Il fatto che il nuovo presidente Usa non abbia ancora telefonato a Netanyahu ha suscitato certo dibattito in Israele, dal momento che i profondi legami tra i due Paesi hanno consolidato la prassi che vede l’insediamento di una nuova presidenza avviare in breve tempo, tramite telefonata di rito, il dialogo tra i due presidenti.

Il silenzio di Washington ha conosciuto anche una coda curiosa: attraverso un tweet, Danny Danon, ex inviato all’Onu dello Stato israeliano, ha lamentato la mancanza di Biden, invitandolo a contattare il presidente israeliano, del cui ufficio  ha anche pubblicato il numero telefonico.

Se si tiene conto che Biden ha tenuto una conversazione telefonica anche con Putin, antagonista principe dell’America, si può comprendere l’importanza di tale trascuratezza,

 

Si ripete il gelo Obama-Netanyahu

Il tweet di Danon è stato criticato come maldestro e inappropriato. Forse è così o forse si è trattato di una fine operazione politica: sta di fatto che ha costretto Washington a porre fine all’imbarazzante silenzio e a dichiarare che non ci sono cause ostative a tale comunicazione e che questa avverrà quanto prima.

In realtà qualche problema c’è ed è legato alla questione iraniana. Sembra ripetersi il copione già visto con la presidenza Obama, durante la quale è calato il gelo tra Netanyahu e la Casa Bianca a causa del trattato sul nucleare iraniano.

Gelo che portò l’allora presidente israeliano a criticare apertamente Obama, in patria e sul suolo americano – celebre la sua arringa contro l’Iran, e contro Obama, nel cuore del Congresso Usa, dove fu invitato senza consultare la Casa Bianca (Reuters) -.

Sulla questione un deciso editoriale di Haaretz, pubblicato su diversi media israeliani, nei quali si accusa Netanyahu di aver minato gli storici rapporti tra i due Paesi, imponendosi agli Stati Uniti, tanto che negli ultimi anni è risultato “difficile discernere dove finiva la politica israeliana e dove iniziava la politica americana, e chi fosse il capo di un piccolo Stato del Medio Oriente e chi, invece, il presidente di una superpotenza”.

Secondo Haaretz tale “intossicazione” dei rapporti tra i due Paesi sarebbe stata causata all’asse stabilito tra Netanyahu e Trump. Tesi discutibile, dato che i referenti di Netanyahu negli Usa hanno fatto la guerra al passato presidente, risultando alla fine vincitori.

Basti pensare all’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton e a Liz Cheney, la figlia dell’ex vice di George W. Bush, acerrimi nemici di Trump, che oggi siedono sul carro dei vincitori, con la Cheney tra i pochi repubblicani che hanno votato per l’impeachment di Trump (per questo il Washington Post, in una nota, l’ha fatta santa subito).

 

Dialogo sottotraccia e manovre ostative

Inutile tornare sulla vacuità di tale narrazione dura a morire (1), dato che non ha importanza nel presente, ora che quel filo immaginario è svaporato del tutto e  l’equazione mediorientale ha cambiato natura.

Tale equazione vede, appunto, un tacito, ma non per questo meno feroce, braccio di ferro tra il premier israeliano e Biden, a causa della determinazione di quest’ultimo a riprendere il dialogo con Teheran.

Non solo le minacce del Capo di Stato Maggiore israeliano su un possibile attacco all’Iran, anche l’ambasciatore israeliano negli Stati Uniti ha dichiarato, a nome del suo governo che, se gli Usa rientreranno nell’accordo, Israele non si sentirebbe vincolato da esso (Haaretz). In pratica, Tel Aviv non archivierebbe i suoi piani di attacco.

Situazione tesa con diverse ingerenze indebite. Come quella del presidente francese Macron, che ha aggiunto la sua voce alle tante che chiedono che l’eventuale ripristino dell’intesa comprenda anche il programma missilistico iraniano, ipotesi che Teheran non prende nemmeno in considerazione, dato che la priverebbe di ogni arma di difesa.

Biden non si deve solo guardare da schermaglie diplomatiche, ma anche da criticità a rischio di escalation, come l’attacco, avvenuto ieri, a un convoglio militare Usa in Iraq, che ha causato l’uccisione di un civile che lavorava per la Us Army.

Attacchi del genere fanno parte della guerra a bassa intensità che si sta consumando in tutta l’area di influenza iraniana, che va da Teheran a Beirut e che vede jet Usa e israeliani bombardare (asseriti) obiettivi iraniani o terroristici, causando vittime collaterali, e attentati vari ai danni di civili o militari di entrambi gli schieramenti.

Episodi che si susseguono da anni, ma che con la nuova presidenza Biden presentano nuovi rischi. Potrebbero, infatti, vanificare il dialogo tra Teheran e Washington intrapreso sottotraccia, al quale si è detto favorevole anche il Qatar, con un endorsement di certo rilievo e accolto con sollievo da Teheran.

Tale dialogo non è affatto aleatorio, come dimostra il suo primo frutto, cioè la visita di Martin Griffiths, inviato delle Nazioni Unite per la guerra in Yemen, a Teheran,

Una cosa impossibile solo un mese fa – infatti è la prima volta che Griffiths mette piede in Iran -, resa possibile dalla determinazione di Biden di porre fine alla guerra in Yemen, che vede Teheran sostenere i ribelli houthi contro l’alleanza sunnita guidata dai sauditi. Sviluppi da seguire.

 

(1) Sui rapporti Netanyahu-Trump, e sul senso di quest’ultimo per l’Iran, si rimanda a una nota in cui si spiegava la furia di Bolton per i piani di pace del presidente riguardo l’Iran. 

 

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