L'informazione imbavagliata: dalla censura social al monopolio culturale
di Francesco Fustaneo
Ci risiamo. Ancora l'ombra dell'oscuramento si abbatte come una scure sulla testata l’AntiDiplomatico, proprio mentre la sua pagina Facebook supera i 200.000 follower. Uso il termine “testata” con cognizione di causa: benché certi giornali concorrenti tentino spesso di sminuirla derubricandola a “sito”, l’Antidiplomatico è, a tutti gli effetti, un giornale online regolarmente registrato presso il Tribunale civile di Roma. Ora, è proprio quella pagina fb a rischiare la chiusura per aver informato su notizie e contenuti che evidentemente danno fastidio. Ma non è una novità. Sin dalla sua nascita, l’Antidiplomatico ha subito shadowban, oscuramenti e censure di ogni tipo, ben oltre i social network. Persino il motore di ricerca Google relega i suoi articoli negli abissi dei risultati, a prescindere dal numero di visualizzazioni che ottengono. Basta fare una ricerca con il nome di un autore che scrive abitualmente per l’AD: i primi link rimanderanno magari a sue collaborazioni estemporanee con altre testate, mentre si farà una fatica enorme a trovare un collegamento diretto alle sue pubblicazioni su l’AntiDiplomatico.
D'altronde, non c'è da stupirsi. È un copione noto: prima ti ignorano, poi ti deridono e, quando raggiungi una certa visibilità, cercano di ostacolarti in ogni modo. Un meccanismo che, pur con dinamiche diverse, investe oggi anche autori molto in vista: basti pensare alla recente censura verso D'Orsi e, a ruota, verso il professor Barbero a Torino. Ma le realtà informative e gli autori finiti nelle maglie della censura in questi anni sono stati molti: sarebbe difficile elencarli tutti. Ora, sarebbe riduttivo, per spiegare il fenomeno, additarne le cause semplicemente allo stato dell'informazione in Italia – anche se chi lo fa cita spesso la classifica di Reporter Senza Frontiere, che nel 2025 ci vede al 49° posto su 180 paesi per libertà di stampa. Una graduatoria influenzata da vari fattori, non ultime le minacce e gli attentati ai giornalisti (un pensiero doveroso va a Ranucci di "Report"). Il ragionamento da sviluppare, però, è più ampio e complesso e serve a capire come i tanto sbandierati valori dell’informazione nelle società liberali siano, in gran parte, un miraggio. Molti lettori de l’Antidiplomatico sono (o sono stati) attivisti, militanti o semplicemente persone che conoscono bene le dinamiche politiche. Per loro non dirò nulla di nuovo, ma partiamo da un punto fermo: da ammiratore del marxismo, uno dei primi concetti che ho appreso leggendo Marx è che chi detiene il monopolio dei mezzi di produzione, detiene anche il monopolio culturale, che si esplica nelle forme più svariate. Nei sistemi capitalistici in cui viviamo, questo monopolio è saldamente nelle mani della classe capitalista.
Di conseguenza, i modelli culturali proposti – e poi imposti attraverso scuole, università, libri e, ovviamente, l'informazione (stampa, TV e, da ultimo, internet) – sono i suoi. Anche Internet, considerato agli albori uno strumento di liberazione, si è rivelato stretto da maglie sempre più serrate. Il fenomeno del monopolio culturale e della propaganda borghese era già ben noto ai comunisti e ai socialisti del Novecento, che potevano però controbattere con la propaganda di partito, i dibattiti nelle sezioni, il lavoro sindacale e la vasta rete di militanti dei partiti di massa, come il PCI in Italia. Lo stesso Allende ricordava come, in Cile, nonostante i media fossero schierati con la destra, il lavoro di partito e sindacale riuscì a portare a una significativa vittoria elettorale. Oggi, con lo sfaldamento dei partiti di massa e l'indebolimento dei sindacati, l’informazione “dall’alto” -che richiede capitali, strutture e tecnologia- è praticamente senza ostacoli, saldamente in mano a gruppi di potere strutturati. L’Italia ne è un esempio lampante: pochi gruppi editoriali controllano case editrici, televisioni e i principali quotidiani.
La TV di stato, nata con funzioni educative, è ormai commissariata dalla logica di governo. È un oligopolio di fatto, con proprietari collocati in uno scacchiere geopolitico preciso: quello filostatunitense e filo-NATO. Il controllo si è esasperato negli ultimi anni: durante la pandemia, i media hanno calcato la logica emergenziale, polarizzando il dibattito; con la guerra in Ucraina, la propaganda e la censura sono diventate ancora più pressanti. È stato fatto credere che fosse "la prima guerra in Europa dal 1945", come se i conflitti in Serbia e nel Donbass dal 2014 non fossero mai esistiti. Eravamo un esiguo numero a interessarci a quelle vicende: da parte mia ricordo le interviste alla Banda Bassotti e al coordinamento Ucraina Antifascista. Un conflitto, quello nel Donbass, che aveva già causato 14.000 morti, in gran parte civili e di fatto sottaciuto. In pochi, poi, hanno parlato della strage di Odessa o dell'uccisione del reporter freelance Andrea Rocchelli per mano di soldati ucraini. La stampa mainstream ha fin da subito offerto una versione unica del conflitto, oscillando tra la narrazione dei "russi cattivi" e quella delle loro presunte sconfitte, spingendo per l’invio di armi all’Ucraina. Hanno persino provato a farci credere che i russi si fossero auto-sabotati il gasdotto Northstream, fino a quando la Germania non ha spiccato mandati di arresto per soggetti vicini ai servizi ucraini. Abbiamo assistito a fake news su fake news e, paradossalmente, alla censura di opinioni e notizie da parte dei cosiddetti "fact-checker indipendenti". Qui entrano in gioco i social, di proprietà di grandi gruppi statunitensi (Meta, in testa), con tutti gli impliciti condizionamenti algoritmici. È emblematico, per rimanere sul tema, che il gruppo Open fondato da Enrico Mentana sia associato all’International Fact-Checking Network (IFCN), quest'ultimo finanziato anche dal Dipartimento di Stato USA.
E che dire di NewsGuard? Questa agenzia statunitense, che ha stretto accordi con l'UE, assegna bollini verdi o rossi alle testate in base alla loro linea politica, diventando un vero guardiano dell’informazione. Se la prospettiva è anti-imperialista, immaginatevi il colore del bollino. La logica descritta da Marx ha così imbavagliato anche il mondo di internet. X (ex Twitter), in mano al magnate Elon Musk, Facebook/Meta a Zuckerberg . Le altre piattaforme social relegate ai margini e finanche Telegram, del russo Durov, è stato “messo in riga” dopo un suo fermo in Francia. La propaganda esiste ovunque, ma l'ipocrisia del nostro sistema è inaccettabile: si millanta la libertà di stampa mentre contemporaneamente si oscurano i media. Tutto ciò è diventato ancora più evidente con il genocidio israeliano a Gaza. L’informazione mainstream lo ha negato, mentre gli “intellettuali organici” al sistema si schieravano dalla parte sbagliata. Abbiamo visto censurare persino un timido accenno di protesta di Ghali a Sanremo.
La motivazione è sempre la stessa: i capitali controllano l’informazione. Viviamo in un paese suddito degli Stati Uniti [1]e influenzato dalle sue lobby e di riflesso anche da quelle israeliane. Siamo in un periodo in cui incombe una guerra ibrida: la NATO combatte contro la Russia utilizzando per procura l'Ucraina, Israele alimenta conflitti in Medio Oriente, e lo scontro geopolitico è tra l’Occidente e il Sud del mondo in ascesa, incarnato dai BRICS. È la transizione da un mondo unipolare a uno multipolare. Il controllo dell’informazione è subdolo: censura velata, assenza voluta di voci dissonanti, repressione sui temi sensibili e disinformazione strisciante. E tutto questo avviene alla luce del giorno e sotto il silenzio di quelli stessi organismi deputati a funzioni di controllo: che siano gli organi preposti in Rai o in seno all’Ordine dei Giornalisti, cambia poco. Proporre soluzioni non è facile. Un primo passo potrebbe essere la creazione di forze politiche organizzate che, da una prospettiva di classe, contrastino la propaganda dall’alto. In una prospettiva socialista, il controllo dei mezzi d’informazione non apparterrebbe più a pochi miliardari. Ma nella fase attuale, dobbiamo essere consapevoli che chi condivide le nostre idee spesso fa informazione con risorse e mezzi limitati, talvolta per militanza o per passione e comunque anche chi lo fa professionalmente e per vivere, non naviga comunque nell'oro Un punto di partenza concreto potrebbe essere far confluire le varie realtà informative e soggettività culturali affini su piattaforme divulgative unitarie, cercando collaborazione tra testate e sfruttando gli spazi di libertà residui che internet concede. L'obiettivo? Far emergere le contraddizioni e i cortocircuiti a cui la stampa di regime è costretta, costringendola a confrontarsi con quella stessa realtà che cerca di occultare.
[1] Come ha ben spiegato A.Orsini nel suo libro “ Casa Bianca-Italia. La corruzione dell'informazione in uno stato satellite”

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