L’inferno del genocidio a Gaza: la testimonianza che pretende responsabilità

Il libro di Wasim Said, pubblicato da LAD edizioni, non è un racconto da compatire ma un atto di accusa che spezza la neutralità e chiama alla lotta politica.

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L’inferno del genocidio a Gaza: la testimonianza che pretende responsabilità




di Pasquale Liguori

 

Non è un libro “su Gaza”, non è l’ennesimo titolo che si aggiunge allo scaffale del dolore mediorientale. L’inferno del genocidio a Gaza è un documento che arriva in Italia con il peso preciso di una prova, non con la leggerezza di un prodotto culturale. Il fatto che a pubblicarlo sia LAD edizioni con la mia curatela non è un dettaglio editoriale, ma una scelta di campo: portare qui una voce che non si presta né alla retorica umanitaria né alla commozione di consumo, ma esige di essere ascoltata come atto di accusa, come frammento di verità che non intende integrarsi nella normalità del discorso pubblico, bensì incrinarla.

Per quasi due anni l’Occidente ha guardato Gaza come si guarda qualcosa che disturba: abbastanza a lungo da poter dire di esserne informato, mai abbastanza da mettersi davvero in discussione. La cronaca del massacro è stata seguita con l’aria di chi osserva da lontano un disastro inevitabile, oscillando tra rimozione e finta equidistanza, come se fosse possibile attraversare un genocidio restando neutri, come se l’orrore potesse essere contemplato senza esserne contaminati. Solo quando la scala della distruzione è diventata incontestabile, quando è apparso evidente anche agli occhi più ostinati che si stava tentando di annientare un intero popolo, si è affacciata una consapevolezza tardiva, quasi sempre confinata nel registro dell’emozione e della pietà, molto raramente tradotta in coscienza politica.

In Italia si sono riempite piazze, organizzate assemblee, scritti appelli, prodotti momenti autentici di indignazione. Ma lo si è fatto nella forma di un’onda: potente nel suo culmine, rapidamente dissolta nel ritorno all’inerzia quotidiana. Abbiamo visto cortei generosi che, una volta spenti i cori e ripiegati gli striscioni, non hanno lasciato strutture, organizzazione, continuità. Una solidarietà sincera ma intermittente, che funziona come gesto episodico di coscienza più che come pratica di lotta; un dissenso che non si sedimenta in progetto, ma si consuma nella rappresentazione di sé.

È esattamente questa distanza che la testimonianza di Wasim Said infrange. Scritta tra le rovine di Beit Hanoun, sotto i bombardamenti, nella precarietà materiale di una tenda da sfollato, non è un racconto “sulla” guerra, ma una scrittura che nasce dentro la guerra, nel tempo stesso in cui gli eventi di cui parla accadono. Said non rievoca da un altrove, non commenta dall’alto di una salvezza raggiunta: registra, pensa e resiste mentre gli aerei sionisti sorvolano la sua testa, i droni ronzano, la fame morde e i fratellini piangono. La scrittura si fa gesto fisico contro la cancellazione, tentativo ostinato di strappare alla morte e all’oblio le vite, i nomi, i volti che un potere coloniale vorrebbe ridurre a numeri.

In questo senso L’inferno del genocidio a Gaza non appartiene alla categoria confortevole del “testo commovente”. Non è costruito per far piangere il lettore, non gli offre la consolazione di un’emozione catartica dopo la quale si possa tornare al proprio caffè con l’impressione di aver fatto il proprio dovere morale. Said lo dichiara esplicitamente: non scrive per suscitare pietà, ma per “appendere le parole al collo” di chi legge, perché ne senta il peso, perché porti la responsabilità di aver visto e di aver saputo. Il lettore non è invitato a compatire: è chiamato a rispondere.

La forza di questo libro sta precisamente nella posizione da cui prende la parola. La maggior parte della letteratura sui genocidi è retrospettiva: nasce dopo, quando la violenza si è in qualche modo depositata nella memoria, e chi testimonia lo fa da un luogo che, pur segnato dalle ferite, garantisce una minima distanza dalla macchina di morte. Qui no. Qui la parola si produce sotto il fuoco, nel pieno della carneficina, nel momento in cui la domanda che ossessiona ogni gazawi – “Morirò e sarò dimenticato?” – non è un ricordo, ma una possibilità imminente. Scrivere, per Wasim, è contemporaneamente un atto di sopravvivenza e un atto di responsabilità: se non mette per iscritto ciò che vede e vive, è come se lui e la sua comunità non fossero mai esistiti.

Da questo radicamento nella carne della storia deriva anche il carattere collettivo della testimonianza. Wasim parla di sé, certo, ma a ogni passo si domanda: e chi non ha potuto scrivere? E coloro che sono stati cancellati senza lasciare traccia? È in questo scarto che il suo gesto assume un valore politico più profondo: non si limita a raccontare il proprio inferno, si assume il compito impossibile di scrivere “per” gli altri, a nome di chi non ha più voce o non ha mai avuto la possibilità di averne. È, in questo senso, l’erede naturale dei fedayin palestinesi: non imbraccia un’arma, ma usa carta e penna come strumento di resistenza, come forma di fedeltà a un popolo che, dentro il genocidio, rifiuta di farsi trasformare in oggetto passivo della storia.

Il genocidio, nel libro, non appare mai come una calamità astratta, né come semplice sterminio numerico; ci viene restituito nella sua verità di processo coloniale sistematico. È il tentativo di smantellare non solo le vite fisiche, ma le strutture materiali, istituzionali, morali di una società; di frantumare i legami, di ridurre una comunità a individui isolati costretti a competere tra loro per la sopravvivenza. Ed è proprio qui che la scrittura di Wasim ribalta il disegno del potere: invece di certificare il collasso morale, documenta – con lucidità e senza idealizzazioni – la persistenza di una coesione, di un’etica condivisa, di una solidarietà che continua a manifestarsi nonostante la fame, la paura, il caos. La testimonianza non è solo denuncia dell’orrore, è prova del fatto che il progetto sionista di riforgiare Gaza a propria immagine di ferocia non è riuscito a cancellarne la dignità, la comunità, la coscienza nazionale.

Per chi legge da qui, da un’Europa che ha preferito a lungo l’inerzia alla verità, tutto questo non può rimanere un dato di cronaca. L’inferno del genocidio a Gaza non è un libro che si possa “apprezzare” esteticamente, non si presta a recensioni neutre; è un dispositivo che incrimina. Ci mostra con una chiarezza insopportabile la distanza tra la tenacia di chi resiste sotto le bombe e la prudenza di chi, al riparo, si limita a firmare appelli, a partecipare a una manifestazione, a indignarsi in rete senza mettere in discussione le strutture materiali del proprio mondo. Se loro, sotto genocidio, continuano a lottare per non essere cancellati, qual è la nostra scusa per non combattere almeno politicamente, culturalmente, organizzativamente?

La pubblicazione italiana del volume ha un significato che va oltre la pur fondamentale necessità di rendere accessibile la voce di Wasim. Serve a misurare lo stato della nostra coscienza politica, a capire se siamo ancora dentro la fase infantile della solidarietà episodica o se siamo pronti a trasformare la lettura in impegno, la compassione in direzione, la piazza in continuità. Questo libro non può essere trattato come un oggetto da consumare, ma come un compito da assumere.

LAD edizioni ha deciso di farsi carico di questo compito, non di limitarvisi. Mettendo in circolazione L’inferno del genocidio a Gaza, non offre un titolo in più al mercato editoriale, ma colloca nel dibattito pubblico italiano qualcosa che il dibattito stesso non riesce a digerire: una testimonianza che smaschera la retorica umanitaria, che rende evidente la complicità delle istituzioni internazionali, che rifiuta di riconoscere neutralità a chi ha scelto di stare dalla parte dell’ordine che permette il genocidio.

Questo libro non chiede di essere “valutato”, si schiera e ci costringe a schierarci.

Perché, in definitiva, la domanda che porta con sé è semplice e brutale: che cosa faremo, noi, adesso che non possiamo più dire “non lo sapevamo”? Continueremo a usare la parola “pace” come sinonimo di accettazione del dominio, o sceglieremo di stare dalla parte del diritto all’autodeterminazione della Palestina, non come formula astratta, ma come impegno concreto nelle nostre città, nei nostri luoghi di lavoro, nelle nostre relazioni politiche?

L’inferno del genocidio a Gaza non offre una via d’uscita dall’angoscia. Non promette redenzione, non propone una narrativa riconciliante, non concede il lusso del sollievo. Ci dà qualcosa di molto più duro e, per questo, molto più necessario: ci mette davanti a una verità che non possiamo più aggirare, ci restituisce la Palestina nella sua piena umanità e nella limpidezza della sua resistenza, ci ricorda che la testimonianza non è un gesto letterario, ma una pratica di lotta.

Sta a noi decidere se trattare questo libro come un oggetto da scaffale o come un inizio. Se limitarsi a leggerlo, magari con un nodo alla gola, o lasciare che ci cambi la postura, le parole, le alleanze. L’inferno che racconta non è una metafora: è il nostro presente politico. Portarlo in Italia significa, per chi lo ha pubblicato e per chi lo leggerà, accettare che da questo momento in poi la neutralità non è più nemmeno una menzogna rassicurante: è una resa.


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L'INFERNO DEL GENOCIDIO A GAZA E' OGGI ORDINABILI SU LADEDIZIONI.IT E SARA' SPEDITO LA PRIMA SETTIMANA DI GENNAIO





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