Esiste il diritto alla disconnessione per il lavoro agile?

Lo smart è un vantaggio per la forza lavoro o strumento di controllo per guadagnare maggiore produttività a costo zero?

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Esiste il diritto alla disconnessione per il lavoro agile?

 

di Federico Giusti

La proposta di legge n. 1961/2024 ( https://stream24.ilsole24ore.com/video/italia/pd-presenta-pdl-lavoro-poi-stacco-diritto-disconnessione/AGUDWLL?refresh_ce=1) propone di regolamentare il diritto alla disconnessione per tutti i lavoratori italiani.
 
Per esperienza diretta conosciamo i ritardi di tante aziende ed Enti pubblici nei processi di innovazione tecnologica che determinano una sorta di pregiudizio verso la modalità di lavoro agile ma siamo anche consci che numerose multinazionali hanno fatto strategicamente ampio ricorso allo smart avendo cognizione della maggiore produttività, anche in deroga alle mansioni e ai livelli, assicurata dalle prestazioni fuori dai luoghi produttivi.

Alcuni contratti nazionali sono già intervenuti per prevenire i rischi di iperconnessione  ma il diritto alla disconnessione vale solo per la forza lavoro agile quando invece il problema riguarda la totalità della forza lavoro "costretta" a tenere i telefoni accesi, a comunicare attraverso le chat aziendali o via whatsapp. Non esiste alcuna inchiesta per quantificare il tempo regalato all'azienda ma siamo certi che mediamente una ora al giorno venga assicurata da un dipendente tipo per rispondere ad email , a telefonate e a richieste riguardanti la sfera lavorativa.

Siamo convinti che il diritto alla disconnessione rappresenti una minaccia per le associazioni datoriali e la cultura diffusa che impone una sorta di reperibilità e rintracciabilità assoluta dei salariati, numerosi paesi hanno già affrontato il problema ma in Italia invece la discussione è solo all'inizio.
 
Un mero divieto di contattare il lavoratore al di fuori dell’orario ordinario di lavoro sarebbe in aperto contrasto con quella flessibilità sulla quale hanno costruito per decenni la cultura del lavoro all'insegna della mera subalternità dei salariati rispetto alla parte datoriale.

E siamo certi che tra i detrattori di una norma così stringente potremmo trovare anche il terzo settore e la Pubblica amministrazione nel nome di una "moderna" organizzazione del lavoro flessibile e non improntata a rigidità.

Nell'immaginario collettivo il concetto di rigidità ha da tempo una accezione solo negativa e da qui è nata una sorta di disponibilità volontaria basata sul principio di collaborazione tra colleghi pur sapendo che confondendo i tempi di vita e di lavoro si pone il datore in una condizione di forza. 

Capita in molte aziende private che un dipendente operi ben oltre il suo orario di lavoro connettendosi a piattaforme di lavoro in orari svariati e sovente su esplicita richiesta di superiori, lo abbiamo sperimentato anche nel pubblico fin dai tempi pandemici.

La flessibilità degli orari spinge la parte datoriali a richieste sempre maggiori di disponibilità, abbiamo incontrato dipendenti disponibili a portarsi il lavoro a casa per sopperire alle carenze di personale sentendosi direttamente responsabili per il mancato raggiungimento di obiettivi imposti e calati dall'alto.

Il carrierismo, la cultura meritocratica rappresentano strumenti di controllo, divisione dei salariati e anche di auto-sfruttamento.

Regaliamo tempo libero al datore solo per compiacerlo, una regola stringente atta a separare nettamente tempi di vita e tempi di lavoro avrebbe almeno l'effetto di risvegliare le sopite coscienze dei salariati comprendendo che la flessibilità è una gabbia e non un valore aggiunto, specie se assicurata senza reale corresponsione economica, se imposta subdolamente attraverso la performance e i premi di risultato. 
 
Siamo consapevoli che i processi riorganizzativi capitalistici abbatteranno sempre più la originaria distinzione tra tempi di vita e tempi di lavoro accrescendo i tempi e le prestazioni esigibili e trasformando la volontarietà in una sorta di valore aggiunto utile per la futura carriera.

E' paradossale che il senso di responsabilità dei salariati avvenga rispetto agli obiettivi imposti dalla parte datoriale ma non da una diffusa solidarietà di classe, la stessa tecnologia viene gestita a fini di profitto e per raggiungere i suoi obiettivi necessita di un cambiamento culturale come quello avvenuto negli ultimi anni con il conflitto tra capitale e lavoro demonizzato e ridicolizzato come un ferro vecchio del passato.

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