Da Pertini e Mattei a Meloni: i principi dimenticati dell’Italia
Di Tawfiq Al-Ghussein e Rania Hammad
La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha nuovamente dichiarato il suo sostegno incondizionato a Israele, presentando l’assalto a Gaza come una difesa dell’“umanità” e dei diritti fondamentali. Un linguaggio che ha ben poca attinenza con la realtà. Anche sotto quella che nominalmente viene definita una tregua, Israele continua esecuzioni mirate, bombardamenti e la deliberata ostruzione degli aiuti umanitari. Il numero delle vittime civili aumenta ogni giorno, rendendo la formulazione di Meloni tanto politicamente conveniente quanto moralmente insostenibile.
La sua posizione non è plasmata da principi etici, bensì da un calcolo di ideologia, alleanze e interessi economici. Israele è divenuto il palcoscenico simbolico attraverso cui Meloni riafferma la propria collocazione in un blocco occidentale da lei stessa definito, segnalando al contempo il proprio allineamento con Washington. Un ulteriore elemento sostiene questa postura: il crescente coinvolgimento dell’Italia nella sfera energetica del Mediterraneo orientale. Le vaste operazioni di ENI nei giacimenti regionali, dall’Egitto a Cipro e nelle zone offshore strategicamente interconnesse alla rete energetica israeliana, generano un forte incentivo alla cordialità politica. I diritti dei palestinesi vengono così offuscati da un lessico tecnocratico fatto di stabilità, sicurezza e diversificazione energetica.
Ciò rappresenta una rottura significativa con l’eredità diplomatica italiana che per decenni ha combinato partenariato atlantico e autonomia morale. Il presidente Sandro Pertini (1896–1990), ricordato con affetto duraturo dagli italiani, parlò senza ambiguità del diritto dei palestinesi a resistere all’occupazione, sostenendo la loro lotta come questione di giustizia e non di calcolo geopolitico. Bettino Craxi (1934–2000), storico leader del Partito Socialista, affermò con forza la sovranità italiana durante la crisi di Sigonella del 1985, opponendosi alle pressioni statunitensi e NATO e riconoscendo la legittimità politica della causa palestinese.
A questa tradizione si affiancano figure come Giulio Andreotti (1919–2013) e Aldo Moro (1916–1978), che concepivano il Mediterraneo non come semplice estensione della strategia NATO, bensì come uno spazio politico e civile che richiedeva equilibrio, dialogo e autonomia. Andreotti difese con costanza la responsabilità europea di dialogare con l’OLP e di riconoscere la nazione palestinese, mentre la diplomazia di Moro si fondava sulla convinzione che la stabilità regionale dipendesse dalla giustizia per i palestinesi. Il loro lavoro costituì l’ossatura di una politica estera italiana che cercava la sfumatura, non l’allineamento per principio.
Ugualmente determinante fu l’eredità di Enrico Mattei (1906–1962), la cui trasformazione dell’ENI nel dopoguerra ridefinì il rapporto dell’Italia con il mondo arabo. Mattei rifiutò le strutture energetiche predatorie imposte dalle potenze occidentali dominanti, costruendo invece partenariati basati sul mutuo beneficio con Algeria, Egitto e altri Stati emergenti. La sua visione mediterranea incarnava un’Italia capace di giudizio indipendente e di un coinvolgimento rispettoso con le aspirazioni arabe, inclusa la lotta palestinese per l’autodeterminazione. È difficile conciliare tale eredità con la deferenza che oggi caratterizza la postura regionale del governo.
Questo mutamento è stato rafforzato dalle posizioni di autorevoli membri dell’esecutivo. Il ministro della Difesa Guido Crosetto ha costantemente presentato le azioni israeliane come intrinsecamente giustificate, liquidando ogni esame di legalità o proporzionalità come irresponsabile. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha ripetuto più volte che anche le fasi più devastanti della campagna israeliana costituiscono atti inevitabili di autodifesa, minimizzando la sofferenza dei civili palestinesi ed eludendo il crescente corpus di prove riguardanti gravi violazioni del diritto internazionale. Il loro discorso restringe l’orizzonte morale dell’Italia e rischia di allineare il Paese a posizioni che non riflettono né la sua storia né il suo sentire pubblico.
L’effetto complessivo ha collocato l’Italia nel campo più intransigente d’Europa proprio mentre Stati come Spagna, Irlanda e Belgio chiedono responsabilità e rispetto delle norme internazionali. Nel contempo, la società italiana — sindacati, studenti, accademici, organizzazioni civiche — si è mobilitata in numeri senza precedenti a sostegno dei diritti dei palestinesi e contro le forniture di armi e la complicità diplomatica. La loro voce richiama le antiche tradizioni diplomatiche del Paese, piuttosto che la prudenza che oggi domina la linea ufficiale.
L’appello di Meloni all’“umanità” risulta dunque privo di sostanza. Sostenuto da una coreografia politica e da una disponibilità a proteggere Israele da ogni scrutinio, il suo governo sta posizionando l’Italia non come difensore delle norme internazionali, ma come facilitatrice della loro erosione. Eppure la storia italiana offre una via diversa, fondata su indipendenza, chiarezza morale e sulla convinzione che i diritti umani non possano essere subordinati alla convenienza geopolitica. Finché il governo non riconoscerà che i palestinesi possiedono diritti fondamentali, le sue dichiarazioni di solidarietà rimarranno performative, miopi e in contrasto con i valori che un tempo guidarono gli statisti italiani più rispettati.

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