Come balcanizzare i cervelli

Come balcanizzare i cervelli

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In un mondo infranto, seguito alla caduta dell’Unione Sovietica, lo smembramento dell’architettura della ex-Jugoslavia, costruita dal maresciallo Tito dopo la Seconda guerra mondiale e la liberazione dal nazi-fascismo, ha introdotto nell’analisi il termine di “balcanizzazione”.

Oltre al riferimento geopolitico, che indica la frammentazione delle 6 repubbliche e due province autonome di cui si componeva la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, il termine viene usato, per estensione, per definire la strategia di smembramento delle conformazioni nazionali che rappresentano un impedimento, un ostacolo per le mire dell’imperialismo nordamericano e dei suoi alleati. Uno “schema” che si ripete nei nuovi contesti. 

Vale ricordare come venne scatenata l’operazione delle Forze Nato contro quel che rimaneva della Jugoslavia, anche per le analogie che presenta con l’attuale conflitto in Ucraina. Era il 24 maggio del 1999. Gli accordi di Rambouillet vennero stilati in modo che non potessero essere accettati dalla Jugoslavia di allora, così com’è avvenuto nei confronti della Russia di Putin, messo con le spalle al muro dall’Alleanza Atlantica.

E se Putin ha deciso di giocare d’anticipo, di sicuro ha pesato il ricordo di quella feroce aggressione, voluta da Clinton, Blair, Schroeder e D’Alema senza l’avallo dell’Onu e definita “umanitaria”: per forzare i confini della legalità internazionale, piegandola agli interessi del grande capitale internazionale, e procedere in base alla politica dei fatti compiuti.

Possiamo dunque dire che il primo elemento che caratterizza la strategia di balcanizzazione è l’illegalità sfacciata, imposta dall’imperialismo, in spregio a quelle stesse regole che pretende di far accettare quali che siano ai propri nemici (i popoli decisi a essere liberi, prima di tutto). Un esempio principe riguarda la Palestina occupata da Israele, sottoposta a un’infinita serie di sopraffazioni, condannate da innumerevoli risoluzioni dell’Onu, tutte rimaste lettera morta.

L’altro elemento correlato riguarda l’uso della Corte Penale Internazionale come meccanismo di ingerenza politica internazionale. Ne ha fatto le spese l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic, primo presidente eletto della Serbia e fondatore del Partito Socialista di Serbia. Dopo l’arrivo del successore Kostunica, nonostante la Jugoslavia non avesse in quel momento riconosciuto il tribunale dell’Haya, e in spregio alle leggi locali, Milosevic venne deportato all’Haya senza sentenza di estradizione, il 1 aprile del 2001. Morirà in carcere in circostanze oscure nel 2006.

Dieci anni dopo, il Tribunale Internazionale dell’Haya ha riconosciuto la sua innocenza dalle accuse di presunti crimini di guerra commessi in Bosnia tra il 1992 e il 1995. Quella stessa sentenza, cita alcune dichiarazioni di Milosevic, fatto passare come il mostro dei Balcani, rese a funzionari serbo-bosniaci nelle quali auspicava la protezione delle minoranze etniche e dichiarava che i crimini compiuti contro di loro dovevano essere combattuti energicamente.

Quella della tutela delle minoranze e di presunti massacri per “motivi religiosi, etnici e xenofobi”, furono anche i pretesti per l’estradizione dell’allora presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, un progressista inizialmente gradito al Partito socialista francese. Il 30 novembre del 2011, Gbagbo venne condotto nei Paesi Bassi per essere giudicato dalla Corte Penale Internazionale per presunti crimini contro l’umanità, da cui verrà assolto nel 2019.

Si era però creato un precedente rispetto all’uso politico della Cpi come strumento di ingerenza nei confronti dei presidenti sgraditi a Washington. Infatti, il famigerato Gruppo di Lima, istituzione creata artificialmente dagli Usa con il supporto dell’Organizzazione degli Stati Americani, diretta dal loro scherano Luis Almagro, ha cercato di usarla contro il presidente venezuelano Nicolas Maduro, nel pieno dell’attacco al Venezuela e dell’avallo internazionale all’autoproclamazione del cosiddetto “presidente a interim”, Juan Guaidó.

Delle oltre 40 misure coercitive unilaterali contro il Venezuela, quelle per presunte violazioni ai diritti umani hanno nomi come Venezuelan Human Rights and Democracy Protection Act: si usano concetti “umanitari” come arma per provocare catastrofi umanitarie, creando un precedente perverso nella giurisdizione internazionale.

 

Nel processo di balcanizzazione del mondo, che serve gli interessi imperialisti, è infatti fondamentale la creazione di falsi organismi internazionali che avallino l’indifendibile, quando l’imperialismo non riesce a imporsi nelle grandi istituzioni come l’Onu. Altrettanto necessario è fomentare la destabilizzazione alle frontiere e le presunte aspirazioni “indipendentiste”, che valgono solo quando, come in Bolivia, vengono rivendicate dai rappresentanti dell’oligarchia.

Allora, a seconda delle aree interessate, emergono conflitti etnici o religiosi, sui quali le forze coloniali soffiano ad arte, com’è accaduto in Ruanda con i massacri fra Hutu e Tutsi del 1994, oppure com’è accaduto con l’appoggio ai talebani del Mullah Omar, che portò allo squartamento del presidente comunista dell’Afghanistan, Najibullah, nel settembre del 1996. Gli esempi di questa strategia abbondano in tutto il sud globale, dove la costruzione di “piccole patrie” (per nulla progressiste e anti-sistemiche) serve alla diffusione del “caos controllato”, necessario all’economia di guerra e al tentativo di resettaggio di un capitalismo in crisi sistemica, sospinto dagli interessi del complesso militare-industriale.

La strategia ha come correlato anche la “balcanizzazione” delle coscienze e dei cervelli, particolarmente avanzata dove gli apparati ideologici di controllo sono più sofisticati, tesa a far perdere i nessi e le categorie d’analisi che consentano una visione d’insieme. Anche in questo caso, vi sono stati alcuni momenti determinanti, sui quali si è “tarato” il consenso generale e si è orientata la cosiddetta opinione pubblica dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Il più significativo è stato ed è il Venezuela bolivariano, vero e proprio laboratorio di attacchi dell’imperialismo e di resistenza del popolo e del governo.

La poderosa propaganda di guerra dei media egemonici, presentando una realtà al contrario, è infatti riuscita a paralizzare o a impedire la possibilità di una reazione solidale su vasta scala, che si opponesse nei paesi capitalisti a tutte le nefandezze perpetrate, con evidente arroganza e in spregio al diritto internazionale, contro il popolo venezuelano e il suo governo: dalle misure coercitive unilaterali e illegali, mantenute anche in tempo di pandemia, alle vere e proprie rapine compiute dalle banche internazionali, al riconoscimento di una banda di lestofanti come alternativa artificiale alla volontà degli elettori.

La seconda grande prova d’orchestra è ora costituita dal conflitto in Ucraina, e dalle manifestazioni grottesche di censura e di autocensura imposte a livello informativo e culturale. Come ulteriore fase di sviluppo, infatti, la balcanizzazione delle coscienze richiede la piena adesione dei “dominati” alle decisioni delle classi dominanti, mediante l’interiorizzazione dei meccanismi di autocensura, di occultamento o ribaltamento delle responsabilità nei conflitti (di classe o geopolitici).

Quello di creare dei nessi, rendendo nuovamente intellegibile la realtà in base a un’analisi che ne disveli i meccanismi, le responsabilità, i compiti e i costi per sovvertirla a favore di un mondo di pace con giustizia sociale, è dunque un obiettivo improcrastinabile. Innervato al marxismo, il pensiero di Bolivar sull’integrazione regionale, profondamente antimperialista, può fornire la trama d’insieme per quanto riguarda la “Patria grande” latinoamericana e caraibica. Una grande trincea simbolica, diversa dall’Unione dei banchieri.

Per evitare di prendere lucciole per lanterne, assumendo per esempio in modo incongruo la logica degli Stati per poi ritrarsene se non collima con il modellino che ci eravamo immaginati, occorre prima di tutto fare un calcolo dei rapporti di forza. Occorre analizzare gli interessi in gioco, e le prospettive, e le leve che aprono contraddizioni fruttifere per le classi popolari, quando vincono governi progressisti: considerandoli, però, solo un primo passo verso un nuovo accumulo di forze, in una permanente tensione al futuro.

(Articolo pubblicato su Cuatro F)

Geraldina Colotti

Geraldina Colotti

Giornalista e scrittrice, cura la versione italiana del mensile di politica internazionale Le Monde diplomatique. Esperta di America Latina, scrive per diversi quotidiani e riviste internazionali. È corrispondente per l’Europa di Resumen Latinoamericano e del Cuatro F, la rivista del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV). Fa parte della segreteria internazionale del Consejo Nacional y Internacional de la comunicación Popular (CONAICOP), delle Brigate Internazionali della Comunicazione Solidale (BRICS-PSUV), della Rete Europea di Solidarietà con la Rivoluzione Bolivariana e della Rete degli Intellettuali in difesa dell’Umanità.

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