Venezuela, l'isteria di Trump. Terrorismo economico nel giorno di Hiroshima

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Venezuela, l'isteria di Trump. Terrorismo economico nel giorno di Hiroshima



di Fabrizio Casari - Altrenotizie


Con una decisione inedita per l’area occidentale del pianeta, l’Amministrazione USA ha deciso di dichiarare l’embargo assoluto nei confronti del Venezuela. Donald Trump ha infatti emesso un ordine esecutivo presidenziale che allarga oltre ogni ragione il livello delle sanzioni nei confronti di Caracas, portando il paese latinoamericano al livello di altri destinatari dell’ira politica e commerciale statunitense come Russia, Corea del Nord, Siria, Iran. Vengono minacciati i Paesi che sceglieranno di mantenere rapporti commerciali con Caracas, che gli USA vogliono gettare nella disperazione; ma soprattutto non verranno perdonati partner commerciali perché la concorrenza commerciale non è amata.

 

Le ripercussioni saranno pesanti per la popolazione venezuelana, che ha già pagato un alto costo in vite umane per i mancati approvvigionamenti dovuti dall’embargo statunitense. Simbolica la data della virtuale dichiarazione di guerra economica statunitense: il 6 agosto, infatti, ricorreva il 74esimo anniversario dello sganciamento della bomba atomica su Hiroshima, che inaugurava l’era del terrore mondiale derivante dalle armi di distruzione di massa. Impossibile non notare una certa continuità storica nella condotta statunitense.
 

L’ordine presidenziale di Trump viola palesemente il diritto internazionale e, nel suo agire, colpisce proprio quei diritti umani del popolo venezuelano che dice di voler tutelare. Come “terrorismo economico” lo hanno etichettato le cancellerie russa e cinese ed è difficile trovare un termine più pertinente. E’, ad ogni modo, pur in tutta la sua brutalità genocida, una manifesta dimostrazione di impotenza, che fa da seguito al fallimento di ogni strategia statunitense sperimentata nella guerra contro il governo diretto da Nicolas Maduro.


Poco ha a che vedere con questa decisione l’andamento dei colloqui in corso alle Barbados (con la mediazione norvegese) tra governo di Caracas e destra: l’embargo è in vigore dal 2014 ed il suo ampliamento totale definisce e completa l’aggressione economico-commerciale e politica in vigore contro il Venezuela. Semmai appare difficile che i colloqui possano proseguire dopo questa decisione statunitense.

 

L’impressione è che le misure contro Caracas siano per i repubblicani anche un terreno di posizionamento tattico a fini interni: da un lato decidendo di dare soddisfazione all’estrema destra della Florida, necessaria in una fase nella quale i suoi voti al Congresso e al Senato potrebbero risultare determinanti per salvare la pelle del tycoon; dall’altro verso l’intesa possibile con il Partito Democratico, che dell’ingerenza interna agli affari venezuelani e di altri paesi latinoamericani è storico fautore. Proprio Obama, infatti, diede il via all’escalation aggressiva di tipo economico, politico e militare contro il governo bolivariano. Ed oggi, oltre che l’assecondare delle pulsioni peggiori dell’orda neofascista statunitense e l’ansia rapace e predatoria delle compagnie petrolifere USA, non è difficile intravvedere nel provvedimento contro il Venezuela un tentativo di trovare un terreno d’intesa bipartizan che serva a mitigare i contrasti dopo l’attacco sferrato dai democratici al Presidente Trump nella vicenda dei rapporti con Mosca.


Ma la dimostrazione di inconcludenza registratasi negli ultimi sei mesi per la politica USA verso il Venezuela resta. Il tragicomico destino dell’autonominato Guaidò, con la sua scorta accessoria di scandali venuti alla luce con la scoperta di furti e malversazioni del suo staff - pari a oltre mezzo miliardo di dollari - ha trascinato la Casa Bianca nel poco invidiabile sentiero del ridicolo. Dopo lo scorrere innocuo di date insurrezionali, di minacce ed ultimatum che indicavano la scadenza del governo bolivariano, gli Stati Uniti hanno dovuto ripiegare nell’ulteriore inasprimento del blocco e delle sanzioni, perché ammoniti da Mosca e Pechino dal tentare di rovesciare con la forza il governo di Maduro.


Persino il Gruppo di Lima, cioè i paesi latinoamericani costituitisi come testa di ponte per il ripristino del comando statunitense sul continente latinoamericano, si è diviso sull’arroganza manifesta statunitense. Nel corso del pomposo quanto ipocrita “Incontro internazionale per la democrazia in Venezuela”, svoltosi a Lima, sono infatti emerse differenze sostanziali tra l’approccio USA e quello dei suoi alleati. L’inviato di Trump all’incontro, John Bolton, si è esibito in una sequela di minacce militari, per ricordare che è Washington ad avere il pallino in mano e che, nonostante i colloqui alle Barbados e la mediazione della Norvegia, è la Casa Bianca che vuole decidere come soffocare il Venezuela, per disporre delle sue ricchezze e marcare la vendetta politica contro Caracas e tutti i paesi socialisti latinoamericani: Venezuela, Bolivia, Cuba e Nicaragua.


Ma i paesi presenti, compresi quelli appartenenti al Gruppo di Lima, non se la sono sentita di sposare la linea statunitense e se la differenziazione intervenuta tra USA e Gruppo di Lima ha rappresentato un elemento di novità politica, contemporaneamente ha certificato il fallimento dell’evento, che nelle intenzioni doveva costituire un blocco ampio di paesi che avrebbe dovuto sovrapporsi al Gruppo di Lima, insufficiente e ormai privo di credibilità per esercitare una pressione decisiva per l’isolamento e la crisi conseguente del governo Maduro. Così non è stato e il convegno, con il Perù come anfitrione, si è contraddistinto per due aspetti: avevano detto che sarebbe giunto il mondo intero ma il 50% dei paesi invitati ha declinato l’invito e solo 9 ministri degli Esteri hanno partecipato, immaginando il copione; dall’America Latina, oltre a Cuba, Nicaragua, Bolivia e Venezuela, non hanno partecipato nemmeno Messico e Uruguay, proprio a seguito di quanto disposto da Trump 48 ore prima.


L’unico elemento in comune emerso è il sostegno a Guaidò, ma a sancire il suo mancato accreditamento internazionale c’è un dato inequivocabile: dopo quasi sei mesi non ha guadagnato nemmeno un Paese in più di quelli che lo riconobbero dopo essersi autoeletto. Che sono cinquantadue paesi su 191, non proprio un successone. Non ha il sostegno di nessun organismo internazionale degno di nota: Nazioni Unite, Unione Europea, Organizzazione per l’Unità Africana (in tutta l’Africa, solo il monarchico Marocco riconosce Guaidò ndr), Caricom (gli stati caraibici ndr), il Movimento dei Paesi Non Allineati (Noal). Alcuni dei 52 che lo riconobbero lo fecero per le pressioni statunitensi, altri per interessi diretti delle loro compagnie alle spalle dei venezuelani, come ad esempio la Spagna, sospinta dall’anacronistica quanto ormai ridicola autonomina di “madre patria”. Proprio Madrid regala il paradosso per cui un paese senza governo (la Spagna) riconosce un governo senza un Paese (Guaidò).


Il Venezuela, da parte sua, può contare sull’appoggio di Cina, Russia, Cuba, Bolivia, Nicaragua, Turchia, Iran e India; non è quindi politicamente isolato e, pur in mezzo a difficoltà importanti, proverà a rompere il blocco per rifornirsi internazionalmente di ciò di cui ha bisogno.

 




Singolare che alcuni dei paesi del Gruppo di Lima, sul piano della democrazia e del rispetto dei Diritti Umani, meritino la maglia nera per la lunga attività a danno degli stessi. Tanto il regime cileno come quello argentino, per non parlare del colombiano, sono infatti al centro di numerose ed ampie denunce circa la sistematica violazione dei diritti umani, civili e politici che i rispettivi regimi impongono. Figli legittimi delle dittature militari che in tutti gli anni ’70 resero il Sud America un immenso cimitero, un laboratorio a cielo aperto per le peggiori nefandezze ai danni degli oppositori, alcuni di questi regimi sono stati alla testa del golpismo venezuelano, tradendo così le loro rispettive costituzioni, lo spirito dell’Organizzazione degli Stati Americani, la Carta delle Nazioni Unite, le norme del Diritto Internazionale che regolano i rapporti tra gli stati, i numerosi accordi interregionali  e la decenza di paesi che dovrebbero essere sovrani.

 

La Colombia, che dell’aggressione al Venezuela è testa di ponte privilegiata per ragioni politiche e geografiche, raccoglie in sé tutta l’ipocrisia della vicenda: mentre indica nel Venezuela un vulnus per i diritti umani, è nota per essere teatro dell’assassinio continuato degli esponenti politici della sinistra e delle organizzazioni per i diritti umani. E, solo per avere il quadro simbolico della relazione tra i due paesi, mentre si afferma che migliaia di venezuelani hanno trovato asilo in Colombia, dimentica che per scappare dai paramilitari e latifondisti circa sei milioni di colombiani hanno trovato rifugio in Venezuela, occulta gli oltre 800.000 desplazados colombiani nel resto del continente e tace su un dato: solo nell’anno in corso, la Guardia Nazionale Bolivariana del Venezuela (GNB) ha sequestrato oltre 22 tonnellate di droga procedente dal territorio colombiano. Un narco-stato improvvisatosi custode della democrazia è una immagine coerente con l'aggressione al Venezuela. I peggiori accusano i migliori di non essere come loro.

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