Recensione di “Contro la sinistra neoliberale” di Sahra Wagenknecht

Recensione di “Contro la sinistra neoliberale” di Sahra Wagenknecht

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di Leandro Cossu

Unsere Parolen sind in Unordnung. Einen Teil unserer Wörter

Hat der Feind verdreht bis zur Unkenntlichkeit…

Bertolt Brecht

Baizuo, radical chic, gauche caviar. Ogni lingua ha oramai un’espressione per descrivere l’ideologia dei vincitori della globalizzazione: un guazzabuglio melenso di multiculturalismo, ambientalismo e identity politics che, dietro la maschera di una tolleranza benevola, nasconde la propria natura classista ed essenzialmente neoliberale. Ora, la critica a questo tipo di posizioni rischia di sfociare in un moralismo spicciolo (e nei casi estremi nella reazione) se si accetta di decostruire queste posizioni rimanendo nel campo morale e post-ideologico dell’avversario. Le domande da porsi, in realtà, sono diverse. Qual è la relazione tra questa narrazione e il sostrato economico? Quali sono i suoi meccanismi di propagazione ideologica? C’è un rapporto con lo scivolamento a destra di un elettorato che tradizionalmente si riconosceva nell’altra parte del quadrante politico?

Sahra Wagenknecht, già leaderdel gruppo parlamentare del partito Die Linke di Germania, prova a dare una risposta a queste domande nel suo libro Contro la sinistra neoliberale, uscito nel 2021 in tedesco e tradotto quest’anno in italiano per Fazi Editore (20 €), con una preziosa introduzione di Vladimiro Giacché. Il titolo, oltre a non rendere giustizia all’originale tedesco (cioè Die Selbstgerechten, letteralmente “i pieni di sé”, “gli autocompiacenti”) è fuorviante. Il libro è diviso in due parti: più o meno, una prima pars destruens, il cui oggetto di discussione è la figura, appunto, del liberale di sinistra; e una pars costruens, in cui a partire da alcuni nuclei problematici, l’autrice abbozza un programma per un partito che volesse riportare la parola sinistra, almeno in Germania, al suo significato tradizionale ed economico. Non solo critica culturale e politica, dunque, ma anche visione propositiva, anche se, come vedremo, questa è la parte del saggio con più limiti. È un libro disarmante nella sua semplicità e completezza, financo ripetitivo per chi ha già familiarità con un certo discorso politico. E qui sta la sua grandezza: non è rivolto solo a chi già sa e vuole sapere di più, ma anche a chi, tra disoccupati e lavoratori, non ha mai trovato il tempo o gli strumenti per approfondire concetti che magari avevano solo intuito.

La Wagenknecht traccia un identikit preciso del liberale di sinistra: figlio della media-alta borghesia, proviene dai centri delle grandi città. Studia all’università discipline che gli consentiranno il mantenimento della condizione sociale di appartenenza, e che in università trovano la loro legittimazione ideologica. È il vincitore economico dell’autoproclamata fine della storia, della globalizzazione e della deindustrializzazione, e professa pertanto il mito della società aperta (apertasì, tra i suoi consimili, ma distante e separata dai più umili economicamente), predicando il diritto assoluto alla mobilità lavorativa e ignorando le conseguenze per la desindacalizzazione e delocalizzazione. Si erge a paladino di minoranze stilizzate, creando codici di comportamento e linguistici sempre più scardinati dal reale, la cui adesione all’ultima versione disponibile costituisce il biglietto d’ingresso minimo per i salotti che contano. Infine, il liberale di sinistra identifica se stesso come sinistra e definisce, per negazione da sé, tutto il resto come destra, e in particolare la classe lavoratrice. È importante notare che questa Weltanschauung può appartenere anche a laureati di ceto sociale basso o che hanno un lavoro mal pagato e senza prospettive, e questo perché, come sappiamo, l’egemonia è tale solo se l’ideologia eccede la classe a cui si rivolge.

Il rischio di ogni libro intelligente è di ritrovarsi utilizzato, in una versione fantoccio semplificata e ridotta a pallida imitazione del contenuto reale, come clava, tanto dai detrattori, che vi si riferiscono occultando o deformando il testo, quanto dai sostenitori, che, per una lettura semplificata o, peggio, autoproiettiva, potrebbero trovarsi a difendere tesi che l’autore non ha mai sostenuto. Onde evitare malintesi è bene precisare che le tesi della Wagenknecht ricadono nell’universalismo concreto. Possiamo dire che sostituisce al paradigma della tolleranza, che ipostatizza minoranze pre-politiche sempre più piccole e arbitrariamente formate,quello dell’indifferenza verso le molteplicità di scelte e vissuti che orientano le singole vite, per riportare l’attenzione sulla vera divisione sociale ed economica tra lavoratori sempre più poveri e disorganizzati.

Spesso tornano come esempio di liberali di sinistragli aderenti al movimento Fridays for future, ossia quella sparuta minoranza di giovani (l’autrice ci ricorda che a malapena un ragazzo su cinque tra i 18 e i 29 anni ha partecipato ad almeno una manifestazione)[1] che, tra il 2019 e il 2021 si è aggregata nel nome del progetto politico, complesso e mai banale, di Greta Thunberg. La Wagenknecht, a differenza di alcuni suoi riferimenti politici esteri, come Corbyn e Mélenchon, non ha bisogno di mantenere alcuna ambiguità con questo “movimento” a fini puramente elettorali. È quindi possibile scorgere in questa corrente, pur con le dovute eccezioni, il paradigma dell’autocompiacente: benestante, laureato, post-politico e con un disprezzo viscerale per le classi meno abbienti e in generale per chi non riconosce in loro la superiorità ontologica per parlare a nome del mondo. La Wagenknecht ci racconta un esempio del loro classismo. Nel 2019, durante una manifestazione di FFF a Lausitz, centro di estrazione di carbone, i Thunbergversteher si sono visti i mille gli abitanti del paese marciare contro di loro in rivolta, intonando i canti dei minatori. Ebbene, il popolo di Greta non ha trovato modo migliore di reagire che scagliarsi contro questi onesti lavoratori, colpevoli solo di temere per il loro futuro a causa di quelle proposte scellerate, e contro le loro famiglie, sbraitando loro addosso l’accusa di essere dei nazisti[2]. Il risultato finale è che, riducendo il discorso pubblico a una forma di ostentazione della propria superiorità morale nell’adesione a uno stile di vita costoso e della propria intangibilità alle conseguenze concrete di scelte ai confini tra realtà e parodia come la carbon tax, tutte le persone che vedono in pericolo tenore di vita o lavoro rigettano a prescindere ogni discorso su una questione che pure ha una sua importanza come quella dell’ambiente[3]. Purtroppo, a causa del suo enorme impatto mediatico, le proposte non rimangono lettera bianca, e quando vengono realizzate, come nel caso del governo federale che nel 2019 attuò alcuni punti proposti da FFF, «inaspriscono l’esistenza dei ceti medio-bassi e dei più poveri senza farci avanzare neanche di un passo verso la sostenibilità del clima»[4].

La seconda metà del libro è, come si è detto, più limitata per diversi ordini di motivi. Si ha l’impressione che certe proposte vengano portate avanti senza essere sviluppate completamente e, soprattutto, senza che venga delineata davvero la cornice ideologica di una sinistra tradizionale rinnovata. Per esempio, la Wagenknecht a un certo punto propone la creazione di una camera composta solo da cittadini estratti a sorte e con potere di veto rispetto alla camera elettiva. Ora, l’estrazione a sorte ha nobili precedenti nella Grecia antica, ma, in quel contesto, la dimensione cittadina e quella statuale coincidevano in una comunità sovrana in cui, con grande gioia di Rousseau, potenzialmente ci si poteva conoscere tutti. L’autrice quindi avrebbe forse potuto pensare a un gradualismo in una misura costituzionale di questo tipo, magari con un’introduzione progressiva prima nelle amministrazioni locali e poi nei Länder, prima di arrivare alla riforma dello Stato. Tra gli altri temi affrontati compaiono anche il capitalismo della sorveglianza, dati e colossi del digitale e lo scontro tra economia reale e finanza.

Sono due le grandi intuizioni della Wagenknecht che trascendono i discorsi particolari sui singoli casi o sulla situazione in Germania. La prima è, come si è detto, il ruolo delle università come elemento strutturale nei confronti dell’origine e della perpetuazione del liberalismo di sinistra. Questo significa l’avvio di un circolo vizioso per cui l’università forma ideologicamente intellettuali e giornalisti che legittimano quella stessa ideologia nei luoghi ufficiali del dibattito interno alla sinistra dell’aperitivo. Vi è quindi una equivalenza, ovviamente fallace, tra laureati di ceto medio alto e laureati tutti, e quindi tra la posizione astratta che si pensa debba avere un laureato e una sorta di punto di vista neutrale sul mondo che si deve avere se si vuole far parte della cerchia dei buoni, dei colti, degli istruiti, delle anime belle tutte. È in questo contesto che nasce, si afferma e prospera l’ideologia dell’europeismo, il Credo cosmopolita delle élite liberali che, al di fuori di qualche simposio organizzato qua e là, non esiste nella vita reale. La maggioranza assoluta dei popoli nell’Unione Europea si considera maggiormente o membro di una comunità regionale o di quella nazionale. Il liberale di sinistra, ci dice poi la Wagenknecht, confonde la propria legittima quanto opinabile posizione con il sistema e l’essenza della democrazia liberale, che, almeno a parole (e noi sappiamo che non è così), dovrebbe essere invece il campo neutrosu cui le varie posizioni irriducibili si scontrano dialetticamente. Ciò spiega il motivo per cui non c’è categoria più indisposta all’alterità del liberale di sinistra: se il proprio è il punto di vista di Dio e ogni cosa che dice o pensa è verum, pulchrum, bonum e iustum, tutto il resto, foss’anche la stessa posizione impostata però in modo diverso, è la manifestazione dell’Ur-fascismo di un volgo destrorso e refrattario, che non vuole piegarsi alla marcia gioiosa e inarrestabile del Progresso.

La seconda grande intuizione è la rivendicazione programmatica di due parole che, per un liberale di sinistra suonano come bestemmie: comunità e tradizione.

  • Comunità, perché ogni sistema che voglia dirsi autenticamente democratico, per potere esercitare giustizia ed eguaglianza ha bisogno di un codice di diritti e doveri che non può esaurirsi nella semplice enunciazione della legge, ma deve avere come presupposto una storia condivisa, una grande narrazione collettiva e dei valori comuni. Per usare le parole della Wagenknecht: «Per gli uomini con un forte senso di comunità la loro famiglia non è una famiglia qualsiasi, la loro patria non è un fazzoletto di terra qualsiasi e il loro paese è diverso da qualunque altro paese. Per questo si sentono legati ai propri concittadini più che a coloro che vivono altrove e non vogliono che la politica o l’economia nel loro paese venga diretta dall’esterno»[5].
  • Tradizione, perché questo senso del vincolo (che è anche un senso della misura) alla propria comunità, alla propria terra o alla propria religione è qualcosa di cui la maggioranza delle persone non si vuole privare nel nome di una globalizzazione senza volto. Il conservatorismo dei valori di cui parla la Wagenknecht non è né il conservatorismo di Reagan o della Thatcher (che, parlando dell’inesistenza della società e la sola presenza di individui – in libera interazione economica – professava in realtà il credo degli odierni liberali di sinistra), né tanto meno lo spirito reazionario che difendeva e difende lo status quo (sciovinismo, razzismo, intolleranza per l’orientamento sessuale, eccetera). Esso è piuttosto la certezza che la somma dei membri di una singola comunità è maggiore delle singole parti.

Il saggio della Wagenknecht ci ricorda quindi che ci sono ancora margini per l’agibilità del Politico. Lungi dall’essere un testo conchiuso al punto di farne un manifesto di partito, il libro è uno straordinario contributo alla discussione, che necessita però di un ulteriore lavoro di traduzione, non linguistica, ma culturale e istituzionale rispetto alla situazione data in Italia, dove il vincolo esterno è in prima misura una sudditanza morale che anche i contenuti più radicali subiscono da parte dell’ideologia del liberalismo di sinistra.


[1] Pag. 36

[2] Pag. 33

[3] Pag. 261-2

[4] Pag. 373-4

[5] Pag. 287

 La Fionda

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La Fionda è uno spazio di elaborazione culturale e politica, che condivide alcune precise idee – statualiste, autenticamente democratiche e antiliberiste -, senza compromessi contraddittori né opacità furbesche. Ma che ha l’autentico desiderio di confrontarsi, di dare luogo a un dibattito vero, fecondo, senza tabù. Perché questo deve essere il tempo della nitidezza e dello spirito critico che non arretra di fronte a nulla.
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