Perché il NYT ritira fuori la bufala delle bufale sull'euro?

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La settimana scorsa sul NY Times Liz Alderman, giornalista economica, ha scritto questa roba qua: “i mantra dell’austerità capeggiati dalla Germania hanno dominato l'Europa durante la crisi del debito del 2010, quando la spesa dissoluta in Grecia, Italia e altri paesi dell'Eurozona meridionale ha spinto la moneta unica verso la rottura”.
 
 
Sostenendo, quindi, che l’euro sia andato in crisi a causa della spesa pubblica. Ed escludendo pertanto che, invece, fosse la causa principale del problema.
 
Una bufala bella e buona che si prosegue volutamente e dolosamente a far circolare.
 
Perché, al contrario di come continua ad essere raccontata, la crisi del debito greco ha ragioni molto precise.
 
Con l’entrata nell’euro, infatti, per la Grecia è venuta meno la possibilità di svalutare la dracma. Una condizione che ha favorito la perdita di competitività, produzione industriale (meno 20%) e quote consistenti di esportazioni, aumentando ulteriormente il già enorme gap nei confronti della Germania. Paese che, grazie a un cambio drogato e ipersvalutato, ha iniziato letteralmente a invadere di beni tedeschi il mercato di Atene (ad es. generi alimentari +87%,).
 
La subordinazione dell’intero apparato produttivo greco a quello tedesco ha spinto, quindi, il paese a importare i beni ad alto valore aggiunto prodotti in Germania. Accumulando pesanti deficit nella bilancia dei pagamenti (compensati solo parzialmente dalle esportazioni di materie prime e prodotti agricoli) e obbligando, inevitabilmente, lo Stato a indebitarsi.
 
Una condizione, quella del grande accumulo di surplus commerciale tedesco che, al contempo, ha favorito un consistente investimento dei proventi in attività finanziare in “favore” dei paesi del sud. Detto banalmente le società di credito tedesche cominciano a prestare vagonate di euro ai greci affinché acquistino merci made in Germany (circostanza confermata nel 2013 dallo stesso ex vicepresidente BCE Constancio).
 
Un’attività doppiamente remunerativa perché i tassi applicati al mercato finanziario greco risultano più alti di quelli in Germania (ma protetti dal cambio fisso) consentendo di guadagnare sia dall’export che dagli interessi.
 
Poi scoppia la bolla, lo shock esterno proveniente dagli USA, e i creditori iniziano a chiedere indietro i “loro” soldi. In primis alla Grecia.
 
E così arrivano le riforme strutturali (aumento della tassazione e gigantesco taglio della spesa pubblica) funzionali da una parte a ripagare i prestiti, dall’altra a deprimere la domanda interna per riequilibrare la bilancia. Riducendo il reddito disponibile, infatti, si vanno a comprimere i consumi e quindi le importazioni.
 
Uno schema collaudato e applicato anche in Italia dal governo Monti in poi.
 
Certo c’è tanta gente che crede ancora alle storielle.
 
Come quella dei greci pigri e improduttivi, nonostante la produttività del lavoro fosse migliore di tanti altri paesi Ue. Quella dei conti truccati, un fatto certamente vero ma che, non solo non è un caso isolato dentro eurozona, si è verificato - anche per mitigare, attraverso la spesa pubblica, i forti squilibri di una economia che non funzionava più a causa dei nuovi meccanismi della moneta unica - col benestare (quantomeno omissivo) della BCE e delle grandi banche internazionali. Perché la Grecia dentro l’euro faceva comodo a molti per le ragioni di cui sopra. Quella dell’enorme debito pubblico che era certamente elevato (per quanto assolutamente stabile) ma generato anche dalla gigantesca spesa per l’acquisto di armamenti ancora una volta (guarda caso) prodotti in Germania. Oppure quella della corruzione (fenomeno certamente esistente) che però, nella sua narrazione ufficiale, omette sistematicamente di evidenziare come accanto al corrotto ci sia sempre un corruttore. Spesso e volentieri un tedesco, come dimostrato dalle condanne per lo scandalo Siemens comminate dai tribunali di Atene.
 
Quindi, al netto della malafede, per chi ancora prende per buono quello che scrive il NY Times, le cose sono due. O si rifiuta di capire per puro atto fideista nei confronti della nuova religione della modernità, l’europeismo. Il che lo pone sullo stesso livello dei terrapiattisti.
Oppure è stato manipolato a tal punto da seguitare a credere al pattume impunemente propagandato dai “professionisti dell’informazione”, senza essere capace di un minimo di approccio critico. Nonostante l’evidenza dei fatti, storicamente dimostrati e agevolmente verificabili, provi l’esatto contrario. Il che equivale ad essere un perfetto esempio di analfabetismo funzionale.
In entrambi i casi sono circostanze che rendono questi soggetti politicamente pericolosi.
Perché mentre applaudono entusiasticamente i loro stessi carcerieri, quelli li tengono in ostaggio mentre proseguono indisturbati a devastare il presente e distruggere qualunque prospettiva di un futuro di benessere. Quella che per qualcuno doveva essere l’Europa unita, ma che nei fatti non è mai stata. Se ne prenda atto e la si smetta di dar credito a questo tipo di “informazione”.
Che a confronto il Völkischer Beobachter sembrava un giornale serio.

Antonio Di Siena

Antonio Di Siena

Direttore editoriale della LAD edizioni. Avvocato, blogger e autore di "Memorandum. Una moderna tragedia greca" 

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