Kamala Harris: da conservatrice a "progressista"?

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Kamala Harris: da conservatrice a "progressista"?

 

di Michele Blanco*

 

Molti ricordano che nel 2020, quando era candidata alle primarie democratiche e nel paese si parlava molto della violenza della polizia, alcune scelte e posizioni assunte in quel periodo dalla Harris non sembrarono progressiste, infatti molti la definirono una “poliziotta”. Anni prima da procuratrice distrettuale di San Francisco si era vantata di aver portato in tre anni la percentuale di condanne dal 53 per cento al 67 per cento, il dato più alto del decennio.

Inoltre, si era schierata a favore di una legge che prevedeva l’incarcerazione dei genitori se i figli saltavano abitualmente la scuola. Come procuratrice generale della California si era opposta alla scarcerazione anticipata dei detenuti condannati per crimini non violenti, sostenendo che gli istituti carcerari rischiavano di perdere “un’importante fonte di manodopera”. Allo stesso tempo come procuratrice Harris ha sostenuto tiepidamente le rivendicazioni dei lavoratori, durante la crisi finanziaria ha difeso le persone che rischiavano un pignoramento e ha appoggiato, negli ultimi anni, l’aumento del salario minimo a 15 dollari all’ora.

Il fatto di essere entrata in politica senza essere una politica, ma con l’appoggio dei molti finanziatori multimiliardari, in una fase storica segnata dalla forte polarizzazione, con le sue posizioni mai troppo schierate e sostanzialmente moderate le ha creato qualche piccola difficoltà e diffidenza. Durante le primarie del 2020 ha cercato di stare, come ha sempre fatto, a metà strada, sperando che gli elettori premiassero il fatto che non fosse strettamente legata a nessuno dei poli ideologici del partito. Ma il suo essere difficile da inquadrare, né progressista né estremamente conservatrice, per alcuni del suo stesso partito semplicemente ambigua, l’ha forse aiutata a superare la concorrenza per diventare la vicepresidente nell’amministrazione Biden. E probabilmente potrebbe darle una mano in una campagna elettorale che si giocherà molto sull’orientamento degli elettori scontenti.

Nella sfida tra Trump e Harris, i repubblicani la accuseranno ingiustamente di essere una socialista radicale e cercheranno di scaricare su di lei la colpa della crisi migratoria, il principale tema di cui si è occupata nella prima parte del suo mandato.

Per i democratici la sfida sarà, per dirla con le parole di Dan Pfeiffer, direttore della comunicazione della Casa Bianca durante l’amministrazione Obama, “definire rapidamente il profilo politico di Harris prima che lo facciano i repubblicani”. Significa sottolineare soprattutto le battaglie che Harris ha portato avanti nell’ultima parte del suo mandato di vicepresidente, a favore dei diritti civili della comunità LGTBQ+ e, soprattutto, in difesa dell’aborto. Dopo che i sei giudici conservatori della corte suprema hanno rovesciato il diritto costituzionale all’interruzione di gravidanza, nel giugno 2022, Harris ha guidato i democratici nel condannare la deriva liberticida dei repubblicani. In un recente comizio in North Carolina, ha ripetuto continuamente la parola “libertà”, cercando di collegare le lotte per i diritti civili degli anni sessanta con la difesa di quelle libertà – di abortire, di esprimersi, di affermare il proprio genere sessuale – che secondo i democratici sarebbero minacciate da una seconda amministrazione Trump.

Il giornalista John Hendrickson, che era presente al comizio, ha scritto: “Harris sta ancora cercando di capire la sua personalità politica e non è magnetica sul palco; forse non sarà mai una ‘rockstar’ della politica come Barack Obama e Bill Clinton. Ma nel suo discorso è sembrata molto più convincente e competente di Trump e di Biden”. Ecco un suo punto di forza la competenza che a molti politici manca.

Harris si trova in una posizione insolita nella storia della politica statunitense. Generalmente i vicepresidenti che non lasciano una traccia durante il loro mandato vengono rapidamente dimenticati. Invece lei è diventata all’improvviso, appena tre mesi prima delle elezioni, l’ultima speranza di chi è convinto che il voto deciderà, più che mai in passato, il destino degli Stati Uniti, aggiungiamo che influenzerà anche il futuro di molti paesi, europei in particolare, vista l’attuale totale sudditanza verso gli Stati Uniti d’America.

*Articolo pubblicato su l'Eguaglianza 

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