Italia "locomotiva d'Europa"? Tutto quello che non vi dicono sulla "crescita economica"
Ad ascoltare le cronache, parrebbe che l’Italia sia diventata improvvisamente ed inaspettatamente la locomotiva d’Europa, la prima della classe, l’esempio da seguire. La Commissione europea ha addirittura rivisto al rialzo le stime della crescita del PIL, dal 5% al 6,2%. Si tratta tuttavia di una crescita di natura squisitamente aritmetica, in quanto figlia del tonfo di 10 punti registrato lo scorso anno. Per giunta, questa ripresa non è nemmeno in grado di riportare i livelli di attività alla situazione di fine 2019. Se non si ancora è recuperato ciò che si è perso vuol dire che le politiche macroeconomiche messe in campo sono state insufficienti, e, nonostante ciò, una nuova stretta di austerità è alle porte. Cattivi presagi, che diventano ancora più minacciosi se si guarda al mercato del lavoro.
Vi è infatti una domanda da porsi: quali sono gli effetti di tale crescita del PIL sul mercato del lavoro? L’occupazione sta aumentando? E se sì, come e quanto? Un’analisi del bollettino mensile dell’ISTAT “Occupati e disoccupati” fornisce interessanti spunti di riflessione che dovrebbero rappresentare un campanello d’allarme per un governo interessato alle sorti del mondo del lavoro, o quantomeno aprire gli occhi alle forze politiche intenzionate a migliorare la condizione di lavoratrici e lavoratori.
Come al solito, al fine di evitare facili entusiasmi, è bene procedere a una lettura di questi rapporti statistici con un minimo di attenzione. Leggendo Repubblica, infatti, saremmo tentati di tirare un bel respiro di sollievo al grido di “ad ottobre ben 35 mila occupati in più”. Tutto vero, ma oltre a queste cifre c’è di più. Infatti, se è vero che dall’ultimo trimestre del 2020 il numero di occupati è cresciuto, passando da 22,4 milioni a quasi 23 milioni nel terzo trimestre del 2021, è anche vero che il dato di 35 mila occupati in più, relativo alla variazione tra settembre e ottobre, rappresenta, come è evidente, una goccia nel mare di milioni di disoccupati.
Tuttavia, fermarsi a questo livello di analisi non renderebbe giustizia alla situazione di difficoltà in cui l’economia e il mercato del lavoro italiani versano. Ad esempio, anche solo guardando la figura 1 del rapporto, salta all’occhio un’evidenza spaventosa: ad ottobre del 2021, il numero di occupati totali (22 milioni e 900 mila) è ben lontano da quello di fine 2019 (23 milioni e 200 mila circa). Inoltre, il rallentamento registrato nell’ultimo semestre lascia ben intendere che il distacco rimarrà pressoché tale per il resto dell’anno: dopo due anni, dunque, si contano circa 300 mila occupati in meno. Per trovare un così basso numero di persone occupate bisogna ritornare indietro addirittura al primo trimestre mese del 2017, più di quattro anni fa. Se è vero, come è vero, che sin dai primi mesi della crisi pandemica le lancette del mercato del lavoro sono tornate indietro di più di quattro anni – il numero di occupati nel giugno del 2020, infatti, era pari a quello di gennaio 2016 (circa 22, 4 milioni) – è altrettanto vero che il recupero che si è verificato dopo non è stato affatto sufficiente. A distanza di un anno e mezzo dallo scoppio della pandemia, infatti, la quota 23,2 milioni registrata a inizio 2020 è ancora lontana. La situazione appare ancora più critica se facciamo un ulteriore passo indietro. Se è vero che la pandemia ha assestato un colpo drammatico all’occupazione, è anche vero che una caduta del numero di occupati inizia ben prima: il numero più alto di occupati registrato negli ultimi anni, infatti, è quello del secondo trimestre del 2019 (23 milioni e 400 mila), ben 200 mila in più dell’inizio del 2020 e ben mezzo milione in più dell’ultimo dato disponibile: altro che locomotiva d’Europa.
Se, dunque, rispetto ai periodi più cupi della crisi abbiamo assistito ad una ripresa dell’occupazione, questa è stata lenta e discontinua. Non solo, è stata anche una crescita di pessima qualità, fondata sul precariato e che ha riguardato quasi esclusivamente gli uomini. Nell’ultimo anno, infatti, il numero assoluto di occupati è aumentato dell’1,7%. Di questi 390 mila occupati in più, tuttavia, ben 271 mila sono stati uomini e solo 119 mila le donne. Una differenza abissale che diventa ancora più evidente se si guarda alla variazione verificatasi tra settembre e ottobre del 2021, quando il numero di occupati è aumentato solo dello 0,2% e ha riguardato esclusivamente gli uomini. A fronte di 35 mila nuovi occupati maschi, infatti, nemmeno una è stata donna.
Ma questi pochi fortunati, godranno almeno di un contratto stabile? Nemmeno per sogno. Nell’ultimo mese, tra i nuovi 44 mila dipendenti, quasi la metà (ben 20 mila) hanno sottoscritto un contratto a tempo determinato. Si tratta dunque di nuovi precari. Se inoltre continuiamo a guardare il fenomeno su un lasso di tempo più lungo il quadro non solo non migliora, ma addirittura peggiora. Rispetto all’ottobre del 2020, infatti, alla cifra di 390 mila nuovi occupati si arriva considerando la riduzione di 132 mila lavoratori indipendenti e l’aumento di 520 mila dipendenti. Di quest’ultimi, ben 384mila sono dipendenti a tempo determinato (con un aumento del 14,3% rispetto agli occupati a tempo determinato dell’anno precedente) e solo 137 mila sono lavoratori con contratti regolari.
Quello che questi dati ci dicono dunque è che non solo la crescita del reddito e dell’occupazione si è finora rivelata molto parziale e insufficiente ma che, influenzata dalle nefaste politiche di deregolamentazione che hanno interessato il mercato del lavoro negli ultimi decenni, essa ha continuato a penalizzare le fasce meno tutelate dei lavoratori e sta determinando un nuovo drammatico aumento della precarietà, arma potentissima in mano ai datori di lavoro per gestire facilmente una fase turbolenta come questa, garantendosi produzione e profitti e scaricando tutte le difficoltà sui lavoratori.
Una tendenza, questa, che il Governo in carica non sembra essere neanche minimamente intenzionato a invertire, impegnato com’è a portare avanti quelle riforme che sono la contropartita di quei fondi “generosamente” offerti dall’Unione europea per il piano di ripresa. Riforme che, come ci hanno insegnato decenni di applicazione delle ricette richieste dalle istituzioni europee e dai principali organismi finanziari internazionali, hanno una sola finalità: quella di rendere la vita più facile agli imprenditori a scapito dei lavoratori, condannati a un futuro di sfruttamento e precarietà.