Il Partito Comunista cinese e gli insegnamenti confuciani

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Il Partito Comunista cinese e gli insegnamenti confuciani

 

Di Giacomo Gabellini

 

Nel 2005, il direttore del National Bureau of Economic Research Richard B. Freeman rimarcava con visibile preoccupazione l’aumento continuo del numero delle lauree in discipline quali ingegneria e scienze naturali registrato in Cina a fronte del sempre più scarso interesse nei confronti delle materie scientifiche manifestato dagli studenti Usa, oltre che la spiccatissima tendenza al rimpatrio degli studenti cinesi formatisi negli Usa.

Ma l’aspetto su cui Freeman richiamava maggiormente l’attenzione era dato dalla straordinaria capacità della Cina di combinare elevato livello delle risorse umane e bassi costi di produzione, dando origine a un mix micidiale destinato a suo avviso a compromettere la posizione commerciale occupata dagli Stati Uniti a livello globale obbligandoli a varare complessi e onerosissimi aggiustamenti sia alla struttura economica nazionale che al loro modello di organizzazione della forza lavoro.

D’altro canto, la divisione del lavoro tra i distretti industriali di esportazione manifesta l’importanza capitale attribuita da Pechino al pieno conseguimento di quel salto tecnologico i cui costi avevano condotto l’Unione Sovietica all’estinzione, ma evidenzia anche la centralità tributata dall’apparato dirigenziale cinese alla valorizzazione delle industrie ad alta intensità di lavoro che gli Stati Uniti avevano sacrificato nell’ambito del processo di transizione alla New Economy.

Così, con l’ascesa al potere della fazione facente capo a Deng Xiaoping e Zhou Enlai verificatasi in seguito alla morte di Mao e alla liquidazione della “banda dei quattro”, la Cina diede avvio alla sua rapidissima scalata verso il vertice del potere mondiale. In particolare, la nuova dirigenza comprese che i meccanismi di accumulazione originaria non avrebbero mai potuto funzionare nell’ambito di una società socialista arretrata e priva delle fondamentali conoscenze tecnologiche. 

La presa d’atto dell’impossibilità di conciliare l’incremento dei salari dei lavoratori con il rinnovamento della struttura produttiva – la Gran Bretagna era riuscita nell’impresa attingendo ai sovrapprofitti assicurati dall’impero coloniale, evidenzia Marx – indirizzò il Partito Comunista Cinese verso una svolta strategica epocale. 

Il cui caposaldo fondamentale è indubbiamente costituito dalla riabilitazione del confucianesimo nella sua doppia veste di veicolo di diffusione dell’etica di massa del lavoro scientifico sia nelle fabbriche che negli uffici e di strumento di disciplina della forza lavoro. La compressione dei salari e l’assenza di uno Stato sociale propriamente detto costituivano i presupposti imprescindibili per l’accumulo di un saggio di profitto in grado di sostenere i massicci investimenti – finanziati dapprima mediante il risparmio del “ponte fiorito” – necessari all’avanzamento tecnologico del Paese e all’incremento della sua proiezione militare e strategica estera. 

Allo stesso tempo, gli insegnamenti confuciani apparivano come l’unica “grande muraglia” capace di impedire che l’acquisizione della modernizzazione tecnico-scientifica intrapresa dalla Cina con l’occidentalizzazione (di cui lo stesso marxismo è una componente fondamentale) sfociasse nell’importazione dei principi dell’individualismo e del soggettivismo attorno a cui erano andate strutturandosi le società europee e statunitense. Combinando la rivalutazione mirata e “selettiva” del passato all’adozione di un approccio improntato al pragmatismo, il Partito Comunista superò il dogma maoista della “rivoluzione continua”, teso alla completa cancellazione della tradizione, per rafforzare la coesione interna e rilanciare simultaneamente l’etica del lavoro e della responsabilità.

Deng e Zhou, dal canto loro, trassero i debiti insegnamenti dal fallimento del Grande Balzo in Avanti, un progetto autarchico di socializzazione delle campagne e di industrializzazione forzata dal significato smaccatamente anti-sovietico, per concentrare gli sforzi sul consolidamento delle buone relazioni con l’Occidente instaurate dal “grande timoniere”. 

L’obiettivo era quello di acquisire le tecnologie sviluppate dalle forze capitalistiche e adattarle alle necessità dello sviluppo industriale lanciato all’indomani della morte di Mao, in un’ottica di trasformazione delle imprese statali sul modello dei grandi conglomerati aziendali noti come keiretsu in Giappone e come chaebol in Corea del Sud. Ma, nota Chalmers Johnson, «il vero modello economico per la Cina continentale, sebbene ciò non sia mai stato detto esplicitamente per ovvi motivi, non è né il Giappone né la Corea del Sud, ma Taiwan».

 

D’altra parte, i dirigenti cinesi promossero una parziale liberalizzazione della proprietà terriera e dei sistemi dei prezzi agricoli per rilanciare la produttività delle campagne (vero e proprio cuore pulsante del potere comunista). Simultaneamente, rafforzarono il ruolo dell’Esercito di Liberazione Popolare che, dall’epoca della Lunga Marcia e passando per la Rivoluzione Culturale, si era imposto come strumento di proiezione di potenza di Pechino, di regolazione dell’equilibrio tra i fattori economici e politici interni e di controllo delle masse. Aspetti, questi ultimi, su cui si fonda il prestigio e l’autorità del Partito Comunista Cinese, intesa come avanguardia del popolo sovraordinata rispetto alla struttura statale chiamata paternalisticamente a incarnare i valori della civiltà confuciana. 

Sotto la guida di Deng e Zhou, l’“esercito rosso” assunse quindi la doppia veste di organismo depositario della millenaria tradizione cinese incaricato di garantire la coesione tra le varie classi sociali, e di forza propulsiva capace di imprimere, tramite l’apporto dei suoi tecnici e ufficiali, l’accelerata decisiva al processo di industrializzazione senza richiedere sacrifici eccessivi a una popolazione già fortemente provata ed evitando di distorcere oltremodo il delicatissimo rapporto città-campagna. 

Tutte e tre le modernizzazioni messe in cantiere dalla corrente riformista sulla base delle teorizzazioni formulate da Hu Yaobang e Hua Guofeng in piena Rivoluzione Culturale sarebbero dovute convergere a sostegno della quarta, riguardante le forze armate. Essa riassume le precedenti in quanto, per usare una celebre formula di Mao, “il potere riposa sulla canna del fucile”, e ne sancisce il coronamento perché eleva l’Esercito di Liberazione Popolare al rango di fattore di stabilizzazione interna fondamentale per correggere le storture che sorgono inesorabilmente durante fasi di rapida crescita economica, identificandolo allo stesso tempo come elemento imprescindibile ai fini della trasformazione della potenza militare in egemonia geoeconomica su scala globale.

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