Federico Rampini e la sudditanza verso gli USA

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Federico Rampini e la sudditanza verso gli USA

 


di Alessandro Volpi*


Racconti di fantascienza. Sono sempre più convinto che esista una vera e propria costruzione narrativa finalizzata ad alimentare la sudditanza europea nei confronti degli Stati Uniti. Ieri l'ineffabile Federico Rampini celebrava sul "Corriere" la forza dell'economia Usa, che prescinde a suo dire persino dalla politica. Il "Sole 24", a testuggine compatta, ha celebrato la ripresa dell'occupazione e i "record" di Borsa. Il messaggio è chiaro: cari italiani e italiane non potete fare a meno degli Stati Uniti che mantengono il primato nonostante Trump.

Ora, in questa narrazione, ci sono molte cose che non tornano. A parte trascurare l'elefante nella stanza costituito da un debito federale che lo stesso presidente della Federal Reserve ha dichiarato insostenibile e che costa 1200 miliardi di interessi, faticando a trovare compratori, e senza considerare l'indebolimento strutturale del dollaro pur in presenza di tassi al 4,25-50, sono gli stessi dati citati dagli aedi nostrani a lasciare perplessi. La tenuta dell'economia Usa dipenderebbe dalla capacità di creare in un mese 147 mila posti di lavoro in più!

E' facile capire che si tratta di un dato molto parziale peraltro se si considera come tali dati vengono rilevati negli Stati Uniti. La rilevazione avviene infatti sulla base dei numeri forniti dalle imprese circa le buste paga di quel mese, senza alcuna indicazione sulla natura dei contratti, sulla durata degli impieghi e su altre variabili considerate invece nelle rilevazioni fatte in Europa. In più il dato dell'occupazione americana è una stima perché si basa, di fatto, su un campione scelto in maniera alquanto discutibile. Pensare che questo dato sia un indicatore della tenuta dell'economia Usa è davvero poco credibile, a fronte, per di più di una stima del Pil, nel primo trimestre 2025, negativa dello 0,5%.

Ma anche il tema delle Borse andrebbe chiarito meglio. I listini sono tornati a salire perché alcuni titoli hanno beneficiato delle iniezioni di liquidità dei grandi fondi - in particolare da parte delle Big Three - spaventate dal tracollo avviatosi da gennaio. In questo senso ha pesato anche il conflitto tra Trump e Powell, che ha convinto gli stessi grandi fondi a sostenere le borse Usa per evitare il taglio degli interessi che certo non gioverebbe agli stessi grandi fondi già in possesso della liquidità e che quindi non hanno bisogno del credito animato dalla Federal Reserve. In estrema sintesi, da questo punto di vista, i grandi fondi, dopo aver stimolato e iniziato a cavalcare l'onda del riarmo europeo, hanno deciso di sostenere ancore le big tech americane per evitare che una caduta dei listini rendesse inevitabile la riduzione dei tassi da parte di Powell, con l'evidente conseguenza di favorire la finanza altamente speculativa di Trump, competitiva con le Big three e bisognosa di tassi bassi.

Questa tenuta dei listini, però, non può nascondere proprio il braccio di ferro fra il presidente Trump e una parte della finanza Usa che rende le piazze finanziarie statunitensi del tutto inaffidabili per il resto del mondo che infatti ha smesso di trasferire i propri capitali e i propri risparmi verso gli Usa. Tutto il mondo al di fuori dell'Europa, dove la narrazione dominante sta facendo di tutto per mantenere in vita un'economia in profondo collasso, come quella Usa, sostendo che sta benissimo.

*Post Facebook del 4 luglio 2025

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