AUMENTARE LA PRODUTTIVITÀ PER NON OTTENERE NULLA
di Emiliano Gentili e Federico Giusti
In nome della produttività e del suo rilancio "per il Bene dell'economia" sono stati compiuti degli autentici misfatti che hanno eroso il potere di acquisto e di contrattazione della forza lavoro.
In nome della produttività hanno preso piede accordi di secondo livello che scambiano l’incremento dei ritmi lavorativi e la riduzione delle pause con porzioni irrisorie di salario, o il più delle volte con bonus (cd. “welfare aziendale”). Il peso dell’“efficientamento” dei processi lavorativi, dunque, è stato scaricato sulla forza lavoro.
Ma la produttività dipende da innumerevoli fattori e non poche sarebbero le responsabilità aziendali. Al contrario, una velenosa narrazione racconta che tutto, o quasi, dipenderebbe dai comportamenti individuali e collettivi di una forza lavoro perennemente stanca e incline all’assenteismo, che andrebbero perciò corretti con le deroghe contrattuali e col ricorso strutturale agli straordinari e alla flessibilità, oraria e di mansione.
Nonostante quanto appena detto, una recente analisi dell'Istat[1] che prende in esame gli anni compresi tra il 1995 e il 2023 (28 anni nel corso dei quali si è innalzata l'età pensionabile, è cresciuta la precarietà, è stato eroso il potere di acquisto di salari e pensioni, sono aumentati i finanziamenti e gli sgravi fiscali alle imprese ma è crollato lo Stato sociale…) rivela che la produttività delle imprese italiane non è cresciuta, nonostante il progressivo deterioramento delle nostre condizioni di vita e lavorative.
A fronte di un +0,5% di incremento medio della produttività fra il 2014 e il 2023 i dati di quest’ultimo anno rilevano addirittura un – 2,5% (alla faccia dei “risultati” economici del Governo…), dovuto a «un aumento delle ore lavorate maggiore del valore aggiunto». Se, proporzionalmente, le ore lavorate crescono più dei profitti, significa che abbiamo un sistema imprenditoriale che non riesce a investire nei processi hi-tech e di efficientamento, finendo per aumentare le ore lavorate soltanto nei settori meno tecnologici e sviluppati. Gli appelli confindustriali all’aumento della produttività, quindi, in Italia sono serviti innanzitutto a coprire l’incapacità degli imprenditori nostrani a effettuare piani di investimento seri e strategici sulle strutture industriali e logistiche (ma in fondo la situazione è abbastanza simile in tutti i settori, dall'agricoltura ai l’industria, dai servizi al commercio).
E se i padroni non hanno operato investimenti tecnologici e hanno speso poco e male sulla formazione, per forza di cose il capitalismo italiano ha finito per perdere terreno al cospetto di tutti i paesi Ue: la produttività del capitale cala sensibilmente (– 0,9%) e l’efficienza della nostra economia nel suo complesso diminuisce in maniera ancor più evidente (– 2,5% Tfp[2]). Evidentemente, però, i capitalisti italiani preferiscono delocalizzare e dividere i profitti tra gli azionisti, affidando poi ingenti risorse alle speculazioni finanziarie anziché agli investimenti strategici. Questi ultimi, comunque, non porterebbero nulla di buono al lavoro dipendente… tuttavia pensiamo sia giusto rivendicare una giusta attribuzione di responsabilità: se non cresce la produttività è colpa non degli operai ma del capitale pubblico e soprattutto privato, in grave ritardo sul fronte delle innovazioni.
[1] Istat: Misure di produttività | Anni 1995-2023. Nel 2023 rallenta la crescita economica e diminuisce la produttività, 9 Gennaio 2025.
[2] La Total Factor Productivity «riflette progresso tecnico, cambiamenti nella conoscenza e variazioni nell’efficienza dei processi produttivi».