Attacchi degli Houthi nel Mar Rosso: una “Guerra dello Yom Kippur 2.0”?
di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico
Il 6 ottobre del 1973, le truppe siriane travolsero le linee di difesa israeliane stanziate nel Golan mentre l’esercito egiziano dotato di equipaggiamento sovietico attraversava il Canale di Suez. Lo Stato ebraico, impegnato nei festeggiamenti dello Yom Kippur, parve sorpreso dall’attacco congiunto siro-egiziano nonostante l’offensiva fosse stata preceduta da evidenti segnali di profonda inquietudine provenienti dall’Egitto; Anwar al-Sadat aveva infatti espulso il personale tecnico sovietico compromettendo un’alleanza che aveva garantito al Paese sostegno di natura sia civile che militare, e successivamente organizzato manovre militari in prossimità della penisola del Sinai. Il Mossad e l’Aman avevano informato la premier Golda Meir della concreta prospettiva dell’aggressione e persino adombrato, gratificati dall’assenso dei generali Moshe Dayan, Israel Tal e David Elazar, la possibilità di sferrare un attacco preventivo, ma i loro consigli non furono seguiti.
Nel momento in cui il fronte arabo sferrò l’offensiva, per di più, l’Arabia Saudita e i suoi alleati imposero il blocco degli approvvigionamenti di idrocarburi destinati agli Stati Uniti e all’Olanda – Rotterdam ospitava il principale porto petrolifero europeo. Con la supremazia aerea annullata dalla distruzione di oltre 200 caccia da parte degli eserciti nemici, Israele corse il serio rischio di capitolare, arrivando persino a valutare l’ipotesi di impiegare l’arma atomica di cui il Paese si era dotato nel corso degli anni precedenti.
Solo a quel punto gli Stati Uniti si decisero a soccorrere lo Stato ebraico, organizzando, nell’ambito dell’Operazione Nickel Grass, un ponte aereo finalizzato a trasferire presso lo Stato ebraico caccia, carri armati, munizioni e sistemi tecnologici di ultima generazione. Decine di cargo C-141 e C-5 rifornirono lo Stato ebraico del materiale necessario a porre le forze armate israeliane nelle condizioni di rovesciare l’inerzia del conflitto. Di fronte alla controffensiva israeliana, i ministri dell’Energia di Arabia Saudita, Kuwait, Abu Dhabi, Iraq, Iran e Qatar misero in atto (16 ottobre) la strategia concordata presso l’hotel Hilton di Kuwait City implicante un primo aumento del prezzo di riferimento del petrolio da 3,01 a 5,11 dollari al barile, e una seconda rivalutazione che sarebbe stata attuata l’anno successivo. Quando, il 18 marzo 1974, i Paesi arabi revocarono l’embargo agli Stati Uniti, il petrolio aveva già in toccato quota 11,65 dollari per barile, con un aumento complessivo del 400% circa – tra il 1949 e il 1970, il prezzo del petrolio viaggiava su una media di 1,90 dollari per barile. I fautori dell’embargo chiarirono inoltre che avrebbero ridotto immediatamente la produzione del 5% rispetto ai livelli di settembre, e provveduto a un ulteriore taglio del 5% per ogni mese, finché le forze israeliane non si fossero ritirate da tutti i territori occupati nel giugno del 1967 e non avessero proceduto al pieno riconoscimento dei diritti del popolo palestinese.
L’attuale linea operativa adottata dagli Houthi nel Mar Rosso sembra orientarsi verso il medesimo obiettivo perseguito dall’Opec all’epoca della Guerra dello Yom Kippur: imporre ai Paesi occidentali un prezzo economico salatissimo per il loro sostegno a Israele. Le minacce portate alla libertà di navigazione nelle acque prospicienti il Canale di Suez dal gruppo yemenita intensificano automaticamente le pressioni rialziste sulla quotazione del petrolio, con ovvie ricadute inflazionistiche sui Paesi importatori di petrolio. E con la sostanziale complicità dell’Opec+. Significativamente, nessuno dei Paesi membri dell’organizzazione ha aderito all’operazione di pattugliamento delle acque del Mar Rosso promossa dagli Stati Uniti e denominata Prosperity Guardian. Spicca, in particolare, l’assenza di attori regionali di rilievo come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, affermatisi anni addietro come protagonisti indiscussi della variegata coalizione internazionale intervenuta militarmente in Yemen proprio per debellare gli Houthi. Nonché dell’Egitto, altro membro di prim’ordine della coalizione e principale “perdente economico” delle operazioni condotte dagli Houthi, i cui attacchi hanno portato a un drastico ridimensionamento del traffico marittimo transitante attraverso il Canale di Suez. È presumibile che il generale al-Sisi abbia ottenuto la disponibilità dei suoi alleati saudita ed emiratino a versare congrui indennizzi, ricavabili attingendo ai consistenti surplus accumulati grazie all’incremento del prezzo del petrolio.
L’atteggiamento “collaborazionista” adottato dai Paesi cardine dello schieramento sunnita nei confronti della campagna di pirateria portata avanti dagli Houthi risulta perfettamente coerente con lo stravolgimento dei tradizionali equilibri regionali verificatosi nel corso degli ultimi tempi. Coniugandosi con la vittoria nella guerra siriana riportata dalle forze baathiste sostenute da Russia, Iran ed Hezbollah, il successo conseguito dagli Houthi ha rinforzato l’Asse della Resistenza, e indotto l’alleanza sunnita riconducibile al Consiglio per la Cooperazione del Golfo a varare una profonda riconsiderazione della propria dottrina operativa. Un cambio di registro sostanziale, culminato con la ripresa, concordata grazie alla mediazione cinese, delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita, implicante la riapertura degli uffici di rappresentanza, la profusione di investimenti comuni per la messa a regime dei giacimenti di gas nel Golfo Persico e l’assunzione congiunta dell’impegno a porre fine al conflitto yemenita. «L’accordo – osserva lo specialista Scott Ritter – promette di trasformare questa “mezzaluna di caos” in una “mezzaluna di stabilità”. Se implementata con successo, l’intesa potrebbe inaugurare una nuova era in cui la crescita economica soppianta il potere militare nella definizione del Medio Oriente».
L’osservazione formulata da Ritter trova riscontro nelle dichiarazioni dell’ex direttore del Mossad Efraim Halevy, secondo cui l’intesa tra Teheran e Riad forniva all’apparato dirigenziale di Tel Aviv l’opportunità per valutare «se per Israele sia giunto il momento di perseguire una politica diversa nei confronti dell’Iran e, magari in modo intelligente e riservato, sondare la disponibilità a trovare un “riavvicinamento”». L’attenuazione dell’attrito tra Teheran e Riad svuota di significato il progetto della “Nato mediorientale” di stampo anti-iraniano perseguito dall’amministrazione Trump mediante gli Accordi di Abramo, ponendo così le basi per la ripresa del dialogo tra il fronte saudita-emiratino e la Siria baathista e il reintegro di quest’ultima nella Lega Araba, favorita questa volta dall’intercessione russa.
Secondo Peter Ford, ex ambasciatore britannico a Damasco, «è difficile sopravvalutare l’importanza della riammissione della Siria nella Lega Araba […]. Il significato va ben oltre la Siria stessa […]. Perdere la Siria è un danno. Ma perdere l’Arabia Saudita è disastroso e questo diventerà sempre più chiaro». A sua volta, l’attivismo moscovita ha favorito l’avvio di un complesso programma di normalizzazione dei rapporti tra Siria da un lato e Turchia e Qatar dall’altro, i quali hanno simultaneamente ricucito lo strappo con l’Egitto causato dal colpo di Stato del generale al-Sisi e dalla repressione della Fratellanza Musulmana che ne era seguita.
Lo stemperamento generalizzato delle tensioni areali ha indotto per di più l’Emirato ad aderire, di concerto con altri grandi produttori come Russia e Turkmenistan, al progetto iraniano relativo alla trasformazione dell’area industriale di Asaluyeh in un hub del gas nel Golfo Persico. La proposta avanzata da Teheran potrebbe verosimilmente indirizzarsi anche al Qatar, che oltre ad aver ripristinato le relazioni diplomatiche con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti ha manifestato forte interesse per l’iniziativa russo-iraniana volta all’instaurazione di un cartello del gas ispirato all’Opec che favorisca il coordinamento tra i principali Paesi produttori (Russia, Iran, Qatar e Turkmenistan) mantenendo in equilibrio i loro interessi specifici. A sua volta, il Qatar ha siglato accordi pluridecennali con China National Petroleum Corporation e Sinopec per la fornitura di enormi quantità di Gnl alla Cina e l’instaurazione di joint-venture mirate alla valorizzazione di North Field, il più grande giacimento di gas al mondo.
Il meticoloso lavoro diplomatico svolto da Pechino e Mosca in Medio Oriente mira, osserva l’analista Agha Hussain, «a coinvolgere la regione del Golfo Persico e trasformarla in una testa di ponte funzionale ad irradiare l’influenza nella più ampia regione dell’Asia occidentale di Cina e Russia agevolando così i loro progetti di integrazione eurasiatica».
Il Medio Oriente sta, in altri termini, riorganizzandosi in autonomia e secondo modalità assolutamente incompatibili con la tutela degli interessi riconducibili al cosiddetto “Occidente collettivo”. Questo spiega sia l’irrequietezza di Israele, per il quale l’attenuazione dell’attrito che insanguina da secoli la fitna tra sunniti e sciiti rischia di pregiudicare la tenuta degli Accordi di Abramo, sia il tacito ma “trasversale” sostegno accordato da tutti gli attori regionali alle operazioni di pirateria condotte dagli Houthi nelle acque del Mar Rosso.