Alberto Bradanini - Iran, il futuro del Grande Medio Oriente e il ruolo delle potenze

Alberto Bradanini - Iran, il futuro del Grande Medio Oriente e il ruolo delle potenze

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L’adesione al principio di complessità consiglia cautela davanti agli sforzi di comprendere gli eventi che si dipanano nel cosiddetto Grande Medio Oriente (GMO) termine con cui s’intende convenzionalmente un’area che parte dall’Iran, attraversa le nazioni mediorientali propriamente dette e giunge a includere alcuni paesi nordafricani che si affacciano sul Mare Nostrum.

Come altrove, anche qui i fattori identitari sono costituiti dalla lingua, l’etnia, il colore della pelle, la religione – o meglio le religioni, a loro volta divise da steccati dottrinali e interessi di potere in sottofamiglie spesso nemiche l’una all’altra. Tali fattori interagiscono tra loro in forma e intensità diverse a seconda di tempi e luoghi. La religione, messaggera di orizzonti messianici, occupa un posto centrale nelle identità di quei popoli, vittima e insieme protagonista di settarismi, arretratezze socioculturali e posture antimoderne, cui si aggiunge un’endemica instabilità politica che impedisce l’affermarsi di priorità centrate sullo sviluppo umano, il controllo pubblico delle risorse e la giustizia sociale. A quanto sopra non sono estranee le interferenze del cosiddetto Occidente, che soffiano sul fuoco delle diversità storiche, etniche e religiose di quei popoli, per depredarne le risorse attraverso politiche neocoloniali con la complicità delle oligarchie locali, civili o religiose fa poca differenza.

Quali fattori strutturali, l’iniqua distribuzione della ricchezza e la scarsa consapevolezza della natura sociale del conflitto tra dominati e dominanti, ideologicamente oscurato dalla narrazione pubblica – un analfabetismo qualitativamente non diverso da quello che fiorisce in Europa – rappresentano insieme la fonte e il prodotto di ritardo culturale, povertà e instabilità, con poche differenze tra paese e paese. Da tale scenario scaturiscono conflitti etnici/religiosi, lacerazioni migratorie e terrorismo. Finanche quest’ultimo, la cui genesi è radicata nelle ingiustizie sociali e nelle interferenze esterne, andrebbe affrontato con le armi della politica: combatterlo con la repressione, come pure occorre fare, non sarà mai sufficiente.

La scena politica regionale

Uno sguardo sintetico e quanto possibile de-ideologizzato ci mostra quanto segue:

• una presenza pervasiva di basi militari statunitensi, motivata da ragioni economiche (petrolio e gas), politiche (contenere l’influenza delle altre Grandi Potenze e tener a bada le nazioni ostili o giudicate tali da Israele), imperialistiche (tutelare i profitti delle corporations/industria militare e il ruolo egemonico del dollaro), geostrategiche (l’ostilità verso ogni nazione resistente alla sottomissione). Tali finalità interagiscono tra loro sommandosi agli obiettivi della teoria del caos (dividere amici e nemici, alimentare ovunque tensioni e conflitti, neutralizzare i contender states e via dicendo, allo scopo di perpetuare il dominio unilaterale sul mondo); tale ipertrofia espansionista (generata da quel messianismo neotestamentario che dato vita alla sola nazione indispensabile al mondo, secondo la patologia lessicale di W. Clinton, 1999) costituisce uno dei principali fattori di instabilità nella regione;

• l’irrisolta questione palestinese resta centrale. Con diversa modulazione, per tutti quei paesi e popoli, arabi, turchi, curdi, iraniani e altri ancora, essa è motivo di cupo risentimento verso l’Occidente (soprattutto gli Stati Uniti, grandi protettori di Israele, e in misura minore le nazioni ex-coloniali, Francia e Regno Unito, complici attive o silenti, a seconda dei momenti);

• Israele, innesto storico imposto nel XX secolo dalle grandi potenze, è oggi una realtà politica imprescindibile. Circondato da nazioni diffidenti e ostili, lo Stato Ebraico è tema di politica interna non solo estera negli Usa, e attraverso le potenti lobby pro-israeliane esercita una forte influenza negli Stati Uniti sul piano politico, economico, mediatico, accademico e via dicendo. In conflitto sistemico con il mondo arabo, Israele guarda alla questione palestinese solo in termini di rapporti di forza, avendo da tempo abbandonato l’opzione dei due statila sola che potrebbe aprire qualche spiraglio. Inadempiente verso numerose Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nei riguardi dei palestinesi, Israele è il solo paese della regione in possesso di armi nucleari (persino con capacità di secondo colpo, tramite i sottomarini armati di testate) e non aderente al Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Israele è inoltre tra i pochissimi paesi al mondo a non aver ratificato né la Convenzione Internazionale sulle Armi Chimiche né quella sulle Armi Biologiche;

• le ricorrenti esplosioni di rabbia (Gaza una prigione a cielo aperto, espropriazioni, soprusi e discriminazioni nel resto del paese) costituiscono fattori di perenne instabilità. Un’ipotetica apertura verso la soluzione dei due stati presuppone l’avvio di un percorso di riappacificazione storica con il mondo arabo-mussulmano, che per ora non è alle viste;

• solo l’intervento russo iniziato nell’autunno 2015 ha consentito di sconfiggere lo Stato Islamico (Isis), seppure non del tutto. Si fa fatica a immaginare che il più grande esercito del mondo non sia stato in grado di farlo per suo conto. Del resto, non era quello il principale obiettivo degli Stati Uniti, che miravano alla destabilizzazione della Siria e alla cacciata di Bashar al-Assad, per le ragioni sopra indicate, pur essendo costui nemico di Israele, ma come suo padre Hafiz un nemico ideale, quieto e rassegnato;

• tutti sulla carta hanno combattuto l’Isis (Iraq-Siria Islamic State), figlio della guerra illegittima Usa-UK contro Saddam, ma insieme agli Stati Uniti, anche Turchia, Arabia Saudita/monarchie del Golfo hanno mirato soprattutto a distruggere la Siria, indebolire Hezbollah e contenere la cosiddetta espansione iraniana, sebbene la presenza iraniana in Siria sia invero limitata in mezzi e uomini. Seguaci e armi dell’Isis sono una derivata dell’esercito di Saddam allo sbando, cui si è associata la cosiddetta opposizione siriana moderata, sin dall’inizio finanziata e armata dagli Stati Uniti. La disfatta del Califfato inizia con l’arrivo delle truppe russe, legittimamente chiamate dal presidente siriano al-Assad, come del resto quelle iraniane e di Hezbollah;

• per la Turchia la lotta contro l’Isis è stata sempre subordinata alle sue priorità, la disfatta dei curdi siriani, giudicati una minaccia esistenziale per il panturchismo neo-ottomano in ritardo con la storia, alla luce dell’arretratezza politica e culturale di una dirigenza, quella turca, incapace di riconoscere agibilità politica ai propri cittadini di etnia curda, che superano il 25 per cento della popolazione;

• la Siria è stata invasa ed è tuttora occupata da soldati turchi e statunitensi (mercenari o regolari cambia poco), in plateale violazione del diritto internazionale. Il suo presidente (il giudizio etico sulla persona, che resta un dittatore, non ha qui alcuna rilevanza) è pienamente legittimato secondo il diritto internazionale a recuperare il controllo del territorio nazionale contro invasori e rivoltosi: Isis, turchi, statunitensi (britannici, francesi e altri, comunque camuffati), ciascuno con una propria agenda;

• l’Unione Europea (Ue) – costola afona dell’impero Usa, governata da una tecnocrazia non elettiva al servizio delle oligarchie globaliste – non è un soggetto politico indipendente, ma solo un protettorato statunitense, e dunque svolge un ruolo irrilevante. L’Italia, eterno vaso di coccio, per dirla con il grande scrittore milanese, e anch’essa da tempo desovranizzata, è sistematicamente asservita a interessi altrui, nonostante la sua centralità mediterranea di straordinario valore strategico;

• una lunga lista di endemiche violazioni di diritti umani e/o del diritto internazionale da parte statunitense (tra le recenti, la vicenda Assange, le prigioni extragiudiziarie di Guantánamo e Abu Ghraib, extraordinary renditions, le guerre illegittime in Iraq, Libia, Serbia, etc.) e la pratica del doppio standard (i dittatori si dividono tra amici e nemici) hanno da tempo tolto alla potenza egemone ogni credibilità;

• diversi popoli sono privi di patria: palestinesi e curdi certo, ma anche baluci (divisi tra Iran e Pakistan), Lori e Qashqai (in Iran) e altri ancora. Tutti insieme formano un’insidiosa pentola a pressione, un fuoco che arde sotto la cenere e causa ovunque instabilità in un contesto di repressione e povertà diffuse;

• il fattore R-Religione (sunniti, sciiti, zaiditi, ismaeliti, alawiti, aleviti, drusi cristiani, ebrei e altri) è ovunque centrale (Libano, Siria, Iran, Arabia Saudita, Bahrein, Egitto e … Israele). Contrasti e privilegi delle gerarchie religiose si sommano a quelli dei ceti laici dominanti. Sia nel mondo islamico (in misura minore anche in Israele) la separazione tra Stato e Religione è tuttora un tema irrisolto;

• mentre non è immaginabile un attacco dell’Iran contro Israele o Stati Uniti (il divario di fuoco è incolmabile e gli iraniani saranno radicali ma non suicidi), non si può invece escludere il contrario, un evento che sarebbe illegittimo per il diritto internazionale e foriero di conseguenze devastanti per il mondo intero.


Ulteriori rilievi critici

Sulla carta, gli Stati Uniti sono nemici di Isis e al-Qaeda, ma sono soprattutto nemici di Iran, Hamas ed Hezbollah, tutti avversari di Israele. Hezbollah è un gruppo terrorista per gli Stati Uniti, i quali singolarmente distinguono tuttavia il braccio militare da quello politico e mantengono un Ambasciatore accreditato in Libano, dove il Partito di Dio è al governo con Sunniti, Drusi e Cristiani. Washington sostiene l’Egitto di al-Sisi ed è alleato dell’Iraq, che è in buoni rapporti con Siria, Iran e Hezbollah, i quali sono però nemici degli Stati Uniti. Questi ultimi finanziano l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) pur essendo i principali sponsor di Israele, che a sua volta ha allacciato relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita, la quale ha finanziato (e forse tuttora finanzia) in modo più o meno occulto talebani, Al-Qaeda e Isis, che sulla carta sono nemici degli Stati Uniti.

Nonostante si trovino su fronti opposti in Libia (la prima a fianco di Al-Sarraj, la seconda di Haftar) e in Siria (dove la strategia di Erdogan vive nell’ambivalenza, dovendo conciliare la guerra ai curdi con gli interessi russi), Ankara e Mosca hanno buone relazioni politiche, commerciali, energetiche e militari (acquisto turco di sistema antimissile russo S-400).

Alla luce di tale rompicapo, l’etica politica e quel poco di diritto internazionale che il mondo era riuscito a costruire al termine del secondo conflitto mondiale – e che gli Usa, considerandolo un ostacolo alla loro bulimia espansionistica, non si fanno scrupolo di violare quando fa comodo – suggerirebbero che le Grandi Potenze abbandonassero il Medio Oriente, tutte e il prima possibile. Se ciò avvenisse, sarebbe verosimile ipotizzare che, senza interferenze di sorta, i paesi della regione si avvierebbero verso un naturale equilibrio delle forze. A quel punto, se prevalessero nuovi e sani principi di etica politica, a determinate condizioni e sotto l’egida delle Nazioni Unite, la comunità internazionale potrebbe dare il suo contributo allo sviluppo di istituzioni che pongano al centro la persona umana e l’equità sociale. Certo, non tutto verrebbe risolto, ma sarebbe già molto. Con tale proiezione siamo consapevoli di essere entrati nel mondo dei sogni, l’unico del resto che l’esercizio della scrittura consente di frequentare.


Gli sviluppi recenti

Da quando il giovane ambulante tunisino, Mohamed Bouazizi, ha innescato con il suo sacrificio la miccia della primavera araba (dicembre 2010) la scena regionale ha subito un netto peggioramento: destabilizzazione della Siria (almeno 400.000 morti e milioni di rifugiati), colpo di stato in Egitto, ulteriore sgretolamento dell’Iraq, nascita e declino del Califfato, assertività militarista della Turchia, degrado politico e destrutturazione socio-istituzionale della Libia, escalation del conflitto in Yemen. Sono decisamente più numerosi i segni meno che i segni più.

Gli Stati Uniti, dopo aver invaso illegalmente due paesi sovrani, l’Afghanistan (2001) e l’Iraq (2003), frantumato il diritto internazionale e provocato solo in Iraq la morte di oltre 600.000 persone e milioni di rifugiati (Lancet), hanno violato la sovranità siriana (2011), ancora una volta in barba al diritto internazionale, bombardato illegalmente la Libia (2011), insieme a francesi, britannici e altre 16 nazioni tra cui l’Italia, causando anche qui migliaia di morti, devastando il territorio e aprendo la strada a migrazioni di massa che destabilizzano l’Italia e l’Europa.

Seguendo il copione di Bush e Obama, D. Trump ha ordinato bombardamenti etici contro asseriti utilizzatori siriani di gas risultati poi inesistenti, ha proceduto al riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele e della sovranità israeliana sulle alture del Golan (che per il diritto internazionale appartengono alla Siria) e degli insediamenti israeliani illegittimi ai danni dei palestinesi, cancellando ogni prospettiva di una Palestina indipendente.

Prima di passare oltre, preme rilevare che la sintetica illustrazione di tanta complessità, che rende apodittici i tentativi di chi scrive di illustrarne compiutamente i contorni, confida sull’indulgenza del lettore che potrà approfondire ad libitum le analisi qui riportate.


La Repubblica Islamica dell’Iran

Sebbene meno isolato di un tempo – l’Iran è stato accolto nello Sco (Shanghai Cooperation Organization) nel 2021 ed è in attesa di entrare nei Brics – sono tuttavia pochi i paesi su cui può davvero contare: la Siria certo, ma la logica va qui rovesciata: è Damasco ad aver bisogno di Teheran, non l’inverso, malgrado il suo interesse a consolidare una presenza stabile nel Mediterraneo e mantenere il collegamento con Hezbollah, che solo il corridoio siriano può garantire, quale ipotetica deterrenza in caso di attacco da parte di Stati Uniti/Israele.

Viene poi l’Iraq, che pur essendo a maggioranza sciita resta un paese arabo (nella guerra degli anni ’80 il nazionalismo etnico era prevalso sulla comune fede religiosa), con una componente curda potenziale contagio sia per Ankara che per Teheran. Seguono Russia e Cina, le quali però, latrici di interessi extra-regionali, sono percepite nella loro storica propensione all’infedeltà (la prima) e al cinismo (la seconda). Oggi, tuttavia, esse sono entrambe funzionali agli interessi iraniani e tutte e tre, sospinte dal vento della real politik, tendono verso una convergenza a fusione fredda e un po’ guardinga, ma pur sempre convergenza,alimentata da complementarità politico-economiche e dalla comune necessità di contenere l’espansionismo americano.

Insieme agli Stati Uniti, il nemico della Repubblica Islamica è Israele, con il quale dal 1979 è in atto un conflitto non dichiarato, fatto non solo di minacce verbali: gli omicidi degli scienziati iraniani uccisi dal 2007 in avanti (il cui elenco è qui riportato) sarebbero stati orchestrati dai servizi israeliani e secondo alcuni in oscura complicità con quelli iraniani (come dimostrerebbe l’assenza di reazioni da parte di Teheran). Va tenuto a mente che la strategia statunitense della costruzione del nemico risulta assai funzionale anche agli interessi della teocrazia iraniana, che utilizza l’angoscia di un’ipotetica aggressione quale instrumentum regni, per reprimere con il pugno di ferro il dissenso interno, politico, sociale o economico che sia.

Nel gennaio 2020, quando D. Trump ordina l’assassinio extragiudiziale del generale Qassem Soleimani, costui si trovava in Iraq in missione diplomatica. Con un atto di aggressione illegale (i due paesi non erano in conflitto tra loro) che ha i contorni del terrorismo di stato e insieme di omicidio premeditato, la cosiddetta democrazia statunitense ha calpestato altri principi-base della convivenza tra popoli. La responsabilità di chi ha ordinato tale omicidio, e ne ha pubblicamente rivendicato la paternità, nulla ha a che vedere con la qualità etica del personaggio, che non era certo un’anima pia. Nessuna evidenza è emersa che Soleimani minacciasse la sicurezza degli Usa. La civiltà giuridica avrebbe comunque richiesto che egli fosse giudicato da un giudice terzo prima di salire sul patibolo. Tale episodio è invero da leggere nella logica egemonica unipolare e fa seguito alla cancellazione da parte di Trump, nella primavera del 2018, del Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action), l’accordo nucleare voluto da Obama tre anni prima e firmato dai cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle N.U. più Germania, e dall’Iran.

Se lo stato permanenteprofondo o nascosto (comunque lo si voglia chiamare) della malata democrazia Usa aveva imposto anche in quell’occasione il ricorso alla forza, tale postura non è cambiata nemmeno con l’arrivo di J. Biden. La logica, infatti, avrebbe richiesto che il Jcpoa venisse riesumato il giorno successivo, poiché all’epoca della firma dell’accordo nucleare mi nel 2015, J. Biden era il Vicepresidente di Obama e ne aveva dunque condiviso l’opportunità.

Dopo l’omicidio Soleimani, Trump aveva affermato che, essendo ormai divenuti il primo produttore al mondo di combustibili fossili con lo sfruttamento dello shale gas e oil, gli Stati Uniti non avrebbero più avuto bisogno d’importare petrolio dal Medioriente, e che dunque la politica di Washington nella regione sarebbe radicalmente cambiata. In realtà tutto è continuato come prima. Sebbene non più dipendenti dall’import di oro nero, gli Usa – oltre a impedire che tali risorse cadano in mani nemiche – devono difendere il petrodollaro dalle altre valute, se vogliono continuare a essere la potenza egemone nel mondo, insieme agli interessi del complesso industriale-militare portatore delle perenni priorità, alimentare guerre e tensioni per fare profitti in ogni possibile modo.

<strong>Iran e Vicino Oriente: rompicapo regionale e grandi potenze</strong>
Mappa delle basi militari Usa in Medio Oriente (dall’estate 2021 sono state chiuse quelle in Afganistan)


Cenni di politica interna in Iran

Nel 2015 il citato accordo nucleare voluto da Obama aveva lasciato sperare in un possibile compromesso, sebbene fu subito chiaro che i poteri occulti non avevano alcuna intenzione di attuarlo. Il Jcpoa, infatti, sono ad allora scrupolosamente rispettato da parte iraniana, non ha trovato applicazione nemmeno tra il 2015 e il 2018: di fatto, nessuna impresa occidentale ha potuto far affari in Iran, con danni ingenti anche per gli interessi degli alleati europei, i quali, more solito, si sono piegati senza fiatare.

I negoziati riprendono all’uscita di scena di Trump e a fine 2021 il nuovo Jcpoa sembra in dirittura d’arrivo. L’inizio della guerra in Ucraina nel febbraio successivo lo riporta però in alto mare. Alle interferenze con la crisi ucraina si intrecciano altre ragioni (tra cui la questione ancora aperta di quanto avvenuto prima del 2003, vale a dire il sospetto che Teheran stesse davvero cercando di costruire la bomba, e che l’Iran vede come un’inchiesta infinita e politicamente motivata, la cancellazione dei Pasdaran dalla lista dei gruppi terroristici che gli iraniani considerano dirimente, e infine la garanzia che le nuove intese siano al riparo da un nuovo cambiamento di linea in caso di ritorno dei Repubblicani, come avvenuto tra Obama e Trump). La Russia, che è parte del Gruppo 5+1, chiede poi di fruire come tutti dei benefici della cancellazione delle sanzioni a Teheran, ipotesi esclusa da Washington (cosa pensino gli europei al riguardo non è dato sapere). Insomma, si è ancora in alto mare.

Inoltre, se gli Stati Uniti non hanno mai dimenticato i 444 giorni di occupazione della loro ambasciata a Teheran (4 novembre 1979/20 gennaio 1981), essi tendono tuttavia a dimenticare un altro evento, precedente, che ha avuto un impatto assai più profondo, cambiando la storia di quel paese, vale a dire il colpo di stato organizzato dalla Cia e dall’Mi6 nel 1953 contro il governo democratico di Mohammad Mossadeq che aveva nazionalizzato l’industria petrolifera. L’operazione fu ideata e supervisionata dall’allora direttore della Cia (Central Intelligence Agency), Allen Dulles, e ha consentito di riportare al potere lo Shah e tutelare gli interessi delle famigerate sette sorelle petrolifere.

Negli anni che seguono il governo dello Shah accentua i suoi aspetti autoritari e repressivi, alimentando forti proteste nel paese, fin quando, nel 1979, dopo lunghi mesi di vessazioni e rivolte, Reza Pahlavi è costretto a lasciare il paese. Il regime di Khomeini, dopo essersi liberato dei compagni di strada (Tudeh, ovvero il partito comunista iraniano, mujahedin e fedayn) rivela il suo vero volto, complice l’invasione irachena nel 1980, assumendo caratteristiche di forte contrapposizione agli Stati Uniti, ritenuti complici del monarca spodestato.

Durante la guerra d’aggressione di Saddam (1980-88), il regime consolida la presa nel paese e l’avversione contro gli Stati Uniti. La Repubblica Islamica, isolata e male armata, riesce tuttavia a far fronte a un’ampia coalizione internazionale, che includeva gli Usa, l’Urss, molti paesi occidentali e le monarchie arabe, curiosamente però non Israele, che anzi nel 1981 ne approfitta per bombardare l’impianto nucleare iracheno di Osirak, costruito dai francesi nel 1972. Vicende complesse, su cui qui non v’è spazio per elaborare oltre.

Come accennato, l’icona di una radicale contrapposizione a Stati Uniti-Israele è anche al servizio della teocrazia sciita, che sfrutta l’angoscia di una possibile aggressione per reprimere in modo feroce la popolazione e difendere gli interessi della classe al potere (il clero politico e i Guardiani della Rivoluzione, noti come Pasdaran, che gestiscono una fetta rilevante dell’economia, compresi gas e petrolio). Il mantenimento di un’’immagine demonizzata della Repubblica Islamica, quanto mai giustificata sotto il profilo della violenta repressione interna, è altrettanto conveniente agli occhi degli Stati Uniti.

E veniamo ad oggi. I principi della scuola realista suggeriscono una moderazione dell’approccio critico, poiché il dialogo e l’interlocuzione consentono a date condizioni di esercitare una positiva influenza anche sulle politiche repressive interne, con benefici per la popolazione oppressa. Il commercio e gli investimenti, gli scambi culturali, il turismo e via dicendo possono favorire l’apertura di percorsi evolutivi, suscettibili di riflettersi, ancora una volta a determinate condizioni, anche sul rispetto dei diritti della persona. Al contrario, agli occhi di chi è interessato a promuovere guerre e tensioni, vendite di armi e diffusione del caos, un nemico fa molto più comodo di un amico, o anche di un non nemico.

Nei decenni passati, a partire dalla fine degli anni ’90, vi sono state diverse ondate di proteste, da quelle studentesche del luglio 1999, represse dai Pasdaran nonostante le resistenze dell’allora presidente moderato Mohammad Khatami, a quelle imponenti all’indomani l’elezione truffa del secondo mandato Ahmadinejad nel 2009, seguite da altre tra il 2017 e il 2021 motivate da ragioni sociali ed economiche, fino a quelle odierne, che non accennano a diminuire d’intensità, originate dalla tragica vicenda della giovane curda Masha Amini che ha lasciato la vita in un commissariato della polizia morale.

Il profondo valore etico-politico delle proteste, insieme ai patimenti dei coraggiosi manifestanti che scendono in piazza incuranti dei rischi cui vanno incontro, deve trovare solidarietà nel mondo intero. Allo stesso tempo, occorre far attenzione a non cadere nella trappola del doppio standard, poiché analoga esecrazione della violenza deve elevarsi anche per le sofferenze patite da altri popoli in situazioni analoghe, primo tra tutti quello palestinese. Inoltre, non si può escludere, alla luce delle scarse informazioni di cui disponiamo, che anche in Iran si stiano mobilitando forze occulte interessate a mettere le mani su un paese cruciale, che oltre alla sua posizione strategica è il primo al mondo per riserve congiunte di petrolio e gas (queste ultime ancora poco sfruttate).

Quanto all’auspicio che le proteste sfocino in una rivoluzione vera e propria, va tenuto presente l’accanimento repressivo del regime e dunque la necessità che si apra una crepa all’interno del sistema, una crepa di cui al momento non vi è traccia. Le rivoluzioni poi sono rare e hanno l’abitudine di divorare i propri figli oltre a possedere la dolorosa caratteristica di causare distruzioni e violenze di ogni genere su uomini, donne e bambini (secondo A. Bierce, esse non sono che un brusco cambiamento nella forma del malgoverno). Coloro che le propugnano con un eccesso di disinvoltura, dovrebbero recarsi per primi sulle barricate, evitando di combatterle con il sangue altrui, sulla scorta di analisi velleitarie e irrealistiche.

Deve poi considerarsi che, se le condizioni interne dovessero degenerare, il paese si troverebbe a vivere a uno scenario simile a quello della ex-Jugoslavia negli anni ‘90, con conseguenze devastanti per la popolazione, la regione e l’Europa. Il paese è infatti una mescolanza di gruppi etnici. Il gruppo più numeroso, quello persiano, supera di poco il 50%, il resto è composto da azeri (24%, di lingua turca) curdi (6/7%, che guardano ai fratelli divisi in altri paesi, Iraq, Siria e Turchia), baluci 3/4%, arabi 3/4%, lori 2%, turkmeni 2% e altri intorno al 10%. Per ora tale mosaico è tenuto a bada da uno stato unitario e dalla repressione, e attenuato dall’appartenenza alla medesima religione sciita (non più del 91% tuttavia, i rimanenti sono arabi-sunniti o piccole minoranze cristiana ed ebraica). Non trova infatti giustificazione il convincimento della dirigenza che lo sciismo costituisca una diga alle spinte centrifughe, tenendo conto che in Iran i processi di affermazione dell’identità nazionale non hanno ancora concluso la loro parabola storica.

Il paese è poi alle prese con un’altra antinomia, quella di conciliare lo sviluppo sociale e istituzionale con le sfide della modernità che preme alla frontiera di un paese colto (4,5 milioni di studenti universitari, in maggioranza donne) e popolato da giovani (60% al disotto dei 32 anni) impazienti di vivere senza restrizioni insensate. La società, le cui norme sono tuttora basate sulla legge coranica, è già oggi percorsa da profonde venature di occidentalizzazione che costituiscono una sfida esiziale per il regime.

La forte resistenza al cambiamento è dunque una battaglia contro la modernità la quale, una volta penetrata negli interstizi culturali del paese, ridurrebbe in cenere quel che resta dell’antistorica impalcatura ideologica del regime, spazzando via altresì i privilegi della classe che la sostiene. L’angoscia recondita contro la libera interlocuzione con il resto del mondo è attenuata solo dalla necessità di sviluppare i rapporti economici che sono dunque propugnati e desiderati. Quando si aprono le finestre, tuttavia, insieme all’aria entrano anche le mosche (Deng Xiaoping). E la comunità internazionale avrebbe il dovere di raccogliere la sfida.

La ricerca di un compromesso con l’Iran, che consenta di ridurre le tensioni e alleviare le sofferenze di quella popolazione deve tener conto della sicurezza di quel paese se si vogliono scongiurare altri spargimenti di sangue, insieme a scenari che distruggerebbero la vita e il benessere di milioni di nostri simili. E qui torna in campo il paese-guida dell’Occidente, che potrebbe fare la differenza, in ragione del suo status, prima economia e di gran lunga prima potenza militare del globo. Dell’Unione Europa abbiamo già detto, un’entità colonizzata e silente, che da tempo non è più protagonista della scena internazionale. Le altre nazioni resistenti e/o emergenti sono alla ricerca di un percorso verso un mondo compiutamente multipolare: i Brics, la Sco, l’Unione economica eurasiatica e la Rcep costituiscono già una concreta manifestazione di multipolarità che un giorno – si spera presto – farà sentire la sua influenza anche in Medio Oriente.


*L'articolo è uscito in contemporanea su La Fionda

Alberto Bradanini

Alberto Bradanini

Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i molti incarichi ricoperti, è stato anche Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

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