Sviluppo capitalistico e Guerra. Un testo illuminante di Gianfranco Pala

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Sviluppo capitalistico e Guerra. Un testo illuminante di Gianfranco Pala

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Nel periodo che stiamo vivendo, complesso e difficile da comprendere in tutti i suoi aspetti, è forse utile riprendere analisi scientifiche marxiste già pubblicate in un recente passato (2005), e poco diffuse in quanto politicamente in opposizione alle logiche della visibilità elettorale come priorità esclusiva. “Lo sviluppo economico capitalistico e la guerra” di Gianfranco Pala, ex docente di Economia Politica alla Sapienza di Roma, ora scomparso, aveva messo in luce il rapporto di capitale, la sua necessaria estensione nel mercato mondiale e la guerra, quale sua specifica modalità di rapina del plusvalore ai danni dei paesi dominati, nella gerarchia mondiale mistificata nel termine “globalizzazione”. Nell’imperialismo del capitale finanziario, ormai transnazionale, nella sua unità dialettica con la politica, la guerra è contrasto tra stati il cui fine è costituito dal vantaggio economico, oltre che essere merce. Scarso rilievo se costerà alle popolazioni già sfruttate per appartenenza di classe, anche in termini di perdita di diritti umani e civili o di sofferenze e morti, sterminio, genocidio. La tragica attualità di questa analisi può aiutare a formare una coscienza collettiva più consapevole, e sperabilmente più pronta a lottare contro la distruttività di questo sistema, incapace ormai di riprodursi se non mediante una costante e progressiva violenza senza confini.

Carla Filosa


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gfp.278 - Athanor xvi-9, Meltemi, Roma 2005

[in Mondo di guerra]



LO SVILUPPO ECONOMICO CAPITALISTICO E LA GUERRA

la crisi dell’accumulazione mondiale e il trasferimento di plusvalore

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N.B.: La guerra è sviluppata prima della pace:

 modo in cui attraverso la guerra e negli eserciti, ecc.,

 determinati rapporti economici come lavoro salariato, macchine, ecc.,

 si sono sviluppati prima che all’interno della società borghese.

 Anche il rapporto tra forze produttive e scambio

 diviene particolarmente evidente nell’esercito. 

[Karl Marx, Lf, q.M, f.21]

 


di Gianfranco Pala

Marx, in conclusione dell’inedita Introduzione del 1857, lasciata nei manoscritti dedicati ai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, al primo punto di un “notabene: alcuni punti che sono da menzionare qui e non devono essere dimenticati” pose la questione della <guerra> (riportata nell’esergo qui posto a mo’ di occhiello). Non era la prima volta che lui con Engels – ne testimonia il loro carteggio – si occupavano della questione militare. Lo stretto legame tra economia e guerra – ossia tra lo sviluppo delle forze produttive, la base della produzione materiale e sociale, e la loro inesorabile esigenza di estensione all’intero mercato mondiale in continuo allargamento – rappresentò sempre un “punto che non doveva essere dimenticato”. Il tema si connetteva inevitabilmente al carattere della violenza di classe, nell’epoca moderna quella della borghesia capitalistica e imperialistica; senonché, come osservò Engels, dal 1876 allorché cominciò a scrivere l’Anti-Dühring, nel primo capitolo della ii sezione dedicato all’oggetto e metodo dell’economia politica, “la violenza non fa che proteggere lo sfruttamento, ma non lo causa”; e che la “base” di quello “sfruttamento è il rapporto tra capitale e lavoro salariato e che questo è sorto per via puramente economica e niente affatto per via di violenza”. Già nell’Ideologia tedesca, in particolare verso la fine del paragrafo 4 della i sezione rivolta a Feuerbach, Engels e Marx esponevano in fieri la loro "concezione della storia" che “sembra contraddetta dal fatto della conquista. Finora erano considerate forze motrici della storia la violenza, la guerra, il saccheggio, la rapina, ecc.”, facendo l’esempio della “distruzione di un’antica civiltà a opera di un popolo barbaro”: ogni riferimento a fatti bellici attualissimi non è qui per niente casuale. Per cui i due osservavano che “niente è più comune dell’idea secondo la quale fino a oggi nella storia non si è trattato altro che di prendere”. Marx, in una nota agli inizi del Capitale, aveva già scritto che “comicissimo è il sig. Bastiat, il quale si immagina che gli antichi greci e romani vivessero soltanto di rapina. Ma se si vive di rapina per molti secoli, ci dovrà pur essere continuamente <qualcosa da rapinare>, ossia l’oggetto della rapina dovrà continuamente essere riprodotto”. Anche nelle epoche precedenti, dunque, c’era “un processo di produzione, quindi un’economia, la quale costituiva il fondamento materiale del loro mondo, esattamente come l’econo­mia borghese costituisce il fondamento materiale del mondo contemporaneo. Il medioevo non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere della politica. D’altra parte, già don Chisciotte ha ben scontato l’errore di essersi illuso che la cavalleria errante fosse ugualmente compatibile con tutte le forme economiche della società” [c, i.1(4)]. Chi è il don Chisciotte o, peggio perché meno poetico, il Bastiat attuale che, tra i politici e gli economisti moderni, “illuminati” alla Keynes o cupi tipo “neo-con” (i neoconservatori made in Usa, guerrafondai quasi tutti provenienti dalla lotta “sinistra” all’Urss staliniana), crede di trovare nella rapina della guerra imperialistica il grimaldello per il rilancio dell’economia mondiale? Panzane!

Prosegue l’Ideologia tedesca, osservando tuttavia che “in questo prendere da parte dei barbari importa sapere se la nazione che viene presa ha sviluppato forze produttive industriali, com’è il caso presso i popoli moderni, o se le sue forze produttive riposano principalmente sulla sola unione e sulla comunità. Il prendere inoltre è condizionato dall’oggetto che viene preso. Non si può assolutamente prendere il patrimonio di un banchiere, consistente in carte, senza che colui che prende si sottometta alle condizioni di produzione e di scambio del paese preso. Questo vale anche per tutto il capitale industriale di un moderno paese industrializzato. E infine il prendere ha ben presto un termine dappertutto, e quando non c’è più niente da prendere si deve cominciare a produrre. Da questa <necessità di produrre> segue che la, forma di comunità adottata dai conquistatori insediatisi in un paese deve corrispondere al grado di sviluppo delle forze produttive ivi incontrate [...] i conquistatori accettarono prestissimo lingua, cultura e costumi dei conquistati” [ivi]. In una sorta di “divisione del lavoro teorico”, Engels ben presto (1851) ha privilegiato gli studi su guerra e questioni militari. Il riferimento ai suoi scritti ha queste motivazioni. Il chiarimento preliminare delle basi storiche del rapporto tra modo di produzione capitalistico e guerra riveste un’importanza concettuale perché è in codesto rapporto che si ravvisano tuttora le connessioni causali che troppo spesso sono “dimenticate”, anche nell’asi­nistra. Conviene perciò definire anzitutto tali nessi fondamentali, per vedere in quale maniera siano fattualmente cambiate le attuali condizioni belliche. Fattualmente, perché oggi esse sono cambiate, ma sempre su quella medesima base di classe del rapporto di capitale. Ma, superati i “limiti della nazione”, come si vedrà meglio, la guerra di classe diventa mondiale. Pertanto, l’uso della guerra come merce nel sistema del capitale rimane quello analizzato in potenza da Engels e Marx. In quella relazionalità, infatti, si sono sia allargati a dismisura gli aspetti sociali, come l’estensione mondiale del mercato, che è sempre più mercato dei capitali, con l’imperialismo che ha posto fine formalmente al vecchio colonialismo concedendo l’indipendenza “giuridica” agli stati “sovrani”, in una crescente dimensione transnazionale; sia approfonditi i caratteri tecnici, fino a una possibile perdita di controllo del loro operare, con la specializzazione delle cosiddette <armi di distruzione di massa> (quelle vere, nelle mani dei “signori della guerra” e non degli ultimi arrivati) fino al deterrente dell’annientamento nucleare. D’altronde, il difficile riassetto della proprietà del grande capitale transnazionale deve svolgersi nell’attuale impraticabilità di quella guerra mondiale planetaria nucleare, il che procrastina i tempi di una soluzione della crisi stessa oltre ogni limite ritenuto finora ragionevole. Il nucleo delle considerazioni che qui si svolgono riguarda in sintesi un preciso tema che sembra essere di attualità. Si riterrebbe, infatti, che le spese militari – in un àmbito che vien spesso definito come “keynesismo di guerra”, definizione purtroppo accettata anche da chi muove obiezioni a Keynes – siano in grado di “rilanciare” l’eco­nomia. Si dimostra qui, anche sulla base di precedenti critiche ben datate, la totale infondatezza di quella ipotesi, sia per l’incomprensione concettuale della totalità del mercato mondiale, sia per la confusione tra spesa di reddito (consumo) e investimento di capitale, sia al dunque per la mancanza di connessione tra plusvalore e profitto, e quindi della differenza tra produzione e circolazione.

Sul nesso tra economia e guerra si potrebbero dire tantissime cose, troppe per questa circostanza. L’implicazione della prima sulla seconda è talmente stretta che l’ideologia moralistica, borghese o pure fideistica, mira sempre a spostare l’attenzione, ricercando in continuazione le pseudomotivazioni metaeconomiche dei conflitti: etica, libertà, religioni, etnìe, ecc. sono tutti i pretesti avanzati, a turno o in variopinte loro misture. Purché non si parli di profitto e di affari. Il pensiero marxista – non quello che così prova a travestirsi – è ben altro. Ma non solo quel pensiero, giacché è sufficiente a chiunque vedere come vanno realmente le cose. Il "liberale" Hobson – in nulla "marxista" – sostiene più volte nel suo libro sull’imperialismo che “il fattore economico di gran lunga più importante per spiegare l’imperialismo riguarda gli investimenti”, che l’imperialismo non può che affondare le sue “radici economiche” nel carattere “aggressivo” delle spedizioni militari contro i paesi stranieri, che “costa così caro al contribuente”, e che “è invece una fonte di grandi guadagni per l’investitore che non riesce a trovare in patria impieghi profittevoli per il suo capitale e insiste che il governo lo aiuti per poter fare investimenti profittevoli e sicuri all’estero”. O, ancora, è sufficiente seguire un grande dialettico, il generale prussiano Karl von Clausewitz, andando al di là del troppo citato e monco slogan: “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”. Allorché scriveva sulla guerra, nel 1806, osservava infatti che “la guerra è un linguaggio per esprimere il proprio pensiero” e che quindi “non deve mai essere separata dalla transazione politica”. Tutto ciò, secondo lui serviva precisamente per sottolineare che “le linee generali dello sviluppo degli avvenimenti bellici non sono nient’altro che le linee principali della politica”. In questo senso si esplicita che “è soltanto rappresentandosi così la guerra che le si rende la sua unità”. Perciò, in codesta unità dialettica, sembra chiarissimo come nella politica quotidiana del potere sia sempre più in primo piano la guerra – che è, in ultima analisi, guerra tra le classi dominanti e contro quelle dominate. Oggi la borghesia – la cui politica ha radici più esplicitamente economiche di quante ne avesse due secoli fa – ha di fronte a sé anzitutto la classe lavoratrice, per poi scatenare una guerra intestina contro i capitalisti “fratelli nemici”, come li chiama Marx.

La contrapposizione bellica dei “fratelli nemici” procede dal carattere di fondo del modo di produzione capitalistico, il quale consiste precisamente nella separazione tra la classe capitalistica borghese (proprietari) e la classe dei lavoratori salariati (produttori proletari). Tra esse si stabilisce permanentemente uno “scambio ineguale” a favore della prima. “La legge della proprietà privata – spiega Marx – si converte evidentemente nel proprio diretto opposto, per la sua propria, intima, inevitabile dialettica. Lo scambio di equivalenti che pareva essere l’operazione originaria si è rigirato in modo che ora si fanno scambi solo per l’apparenza in quanto la parte di capitale scambiata con forza-lavoro è essa stessa solo una parte del prodotto lavorativo altrui appropriato senza equivalente” [c, i.22(1)]. Quel medesimo “scambio ineguale” è destinato a informare di sé l’intero operare di classe del capitale su scala mondiale; quindi il rapporto tra stati dominanti e stati dominati nell’imperialismo non può mai sottrarsi a codesta gerarchia. La sottomissione di questi ultimi ai primi, anche nelle forme militari o belliche, non è compatibile con alcuna pretesa uguaglianza “globale” o pariteticità dello sviluppo economico e sociale. Se si tenta di spezzare l’unità dialettica tra guerra e politica economica, prosegue von Clausewitz, “ne esce una cosa priva di senso e di scopo. Nella realtà, la guerra – poiché rispetto alla sua forma assoluta, lontana dallo sforzo estremo, non è che una mezza misura – racchiude in sé una contraddizione: che come tale non può seguire le sue proprie leggi, ma deve essere considerata il frammento di un complesso e questo complesso è la <politica>. Più la politica è grandiosa ed energica, più la guerra lo diviene a sua volta, e può assurgere fino a raggiungere la sua forma assoluta. È soltanto rappresentandosi così la guerra che le si rende la sua unità, che si possono considerare tutte le guerre come fatti della stessa natura. Noi affermiamo al contrario che la guerra non è null’altro che la continuazione della politica, con intervento di altri mezzi”: ecco dove si colloca la ricordata frase con banalizzazione "a effetto". Conclude, dunque, il suo ragionamento von Clausewitz dicendo che “la guerra è una cosa che può essere ora più ora meno guerra. L’unità degli elementi contraddittori uniti nella vita pratica, è la nozione che la guerra è soltanto una parte della transazione politica e per conseguenza non è per nulla un fatto a sé stante. Nessuno ignora che la guerra è causata soltanto dai rapporti politici fra i governi e i popoli; ma generalmente si immagina che questi rapporti vengano a cessare per il fatto stesso della guerra, e che si stabilisca quindi un diverso stato di cose, retto dalle leggi proprie della guerra Diciamo con intervento di altri mezzi, al fine di indicare con questo che, lungi dal cessare a causa della guerra o dal modificarsi, le relazioni politiche persistono nella loro essenza stessa, qualunque sia la forma assunta dai mezzi impiegati, e che le linee generali dello sviluppo degli avvenimenti bellici, a cui sono collegati, non sono nient’altro che le linee principali della politica, che si svolgono dal principio alla fine delle ostilità, fino alla pace”.

 

Conviene definire un po’ più compiutamente, perciò, il quadro storico immutabile entro il modo capitalistico di produzione in ogni sua fase, rifacendosi qui, per comodità di sintesi, ai riferimenti concettualmente salienti del citato Anti-Dühring, e in particolare ai capitoli ii, iii, iv sulla teoria della violenza, della ricordata seconda sezione dedicata all’<economia politica>. Le osservazioni di Engels muovono dalla critica dell’idea che la proprietà privata sia fondata sulla violenza – che certamente ha un grande ruolo nella trasformazione storica, come sua “levatrice” l’appella Marx stesso, ma che non è mai la "causa causante (o agente)" bensì un’inevitabile conseguenza – e criticando altresì l’affermazione per cui “tutti i fenomeni economici si devono spiegare partendo da cause politiche, cioè dalla violenza”. Ma siccome il fine è il vantaggio economico, il mezzo violento per ottenerlo è solo funzionale a quello, e il lato politico del rapporto non può essere considerato fondamentale e “autonomo”, ma dipendente dal lato economico. È questa l’unica conseguente “violenza necessaria” del capitale. Il punto è che “il soggiogamento dell’umanità presuppone che colui che soggioga disponga di mezzi di lavoro mediante i quali soltanto egli può impiegare gli asserviti. In ogni caso, quindi, presuppone già il possesso di un certo patrimonio superiore alla media”. Che esso sia ottenuto con la violenza o no, “con il lavoro, con il furto, con il commercio, con la frode”, non interessa, perché “prima che possa essere rubato è necessario che esso sia stato ottenuto con il lavoro. Dovunque si costituisce la proprietà privata, questo accade in conseguenza di mutati rapporti di produzione e di scambio: quindi per cause economiche. La violenza qui non ha assolutamente nessuna parte. L’istituto della proprietà privata deve già sussistere prima che il predone possa appropriarsi l’altrui bene; che quindi la violenza può certo modificare lo stato di possesso, ma non produrre la <proprietà privata come tale>. In altri termini, anche se escludiamo la possibilità di ogni rapina, di ogni atto di violenza, di ogni imbroglio, con lo sviluppo progressivo della produzione e dello scambio arriviamo necessariamente all’attuale modo di produzione capitalistico, alla monopolizzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza nelle mani di una sola classe poco numerosa, alla degradazione del­l’altra classe, arriviamo al periodico alternarsi di produzione vertiginosa e di crisi commerciale e a tutta l’o­dierna <anarchia della produzione>. Tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della rapina, della violenza, dello stato, o di qualsiasi interferenza politica”. Si richiama qui l’attenzione su questo concetto fondamentale poiché, siccome nessuno può ignorare che la violenza c’è, e la guerra militare ne è la manifestazione di ultima istanza, occorre saperla collocare con una logica corretta.

Perciò, Engels ne desume che “la potenza economica, la disponibilità dei mezzi della grande industria appare precisamente come l’elemento primitivo della stessa violenza”, e quindi che “la forza politica si appalesa non già immediata, ma precisamente mediata dalla potenza economica”. Ciò non è smentito dai “casi isolati di conquista in cui i conquistatori, più rozzi, hanno sterminato o cacciato via la popolazione di un paese o ne hanno guastate o distrutte le forze produttive di cui non sapevano che fare. Ogni conquista operata da un popolo più rozzo turba ovviamente lo sviluppo economico e distrugge numerose forze produttive. Ma nell’e­norme maggioranza dei casi di conquista durevole il conquistatore più rozzo deve adattarsi all’ordine economico superiore quale risulta dalla conquista”. In altro contesto, la tendenza generale è confermata dal fatto che quando “il potere statale interno di un paese è entrato in conflitto con il suo sviluppo economico, la lotta ogni volta è finita con la caduta del potere politico”. 

La borghesia imperialistica, in una lunga crisi irrisolta, fa ora ricorso alla violenza bellica “per preservare dal crollo l’ordine economico che va in rovina”. Engels, più di un secolo fa, agli albori dell’imperialismo (prima britannico e poi mondiale) notava che “ciò prova che essa è schiava della stessa illusione di Dühring, di potere con l’elemento primitivo, con la violenza politica immediata, trasformare quelle cose di second’or­dine, quali l’ordine economico e il suo sviluppo ineluttabile, cacciar via dal mondo, con i cannoni di Krupp e i fucili di Mauser, le conseguenze economiche della macchina a vapore e del macchinismo che essa mette in moto, del commercio mondiale e dell’odierno sviluppo bancario e creditizio”. La guerra, come ogni altra manifestazione di violenza, “non è un semplice atto di volontà”, ma richiede condizioni “molto reali, soprattutto strumenti” che devono essere "prodotti". Il produttore di più perfezionati “strumenti di violenza, vulgo armi”, e lo strumento stesso, vince sul produttore con gli strumenti meno perfezionati; “in una parola, la vittoria della violenza poggia sulla produzione di armi, e questa a sua volta sulla produzione in generale, quindi sulla potenza economica, sull’ordine economico, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della violenza”. Osservando che la massima violenza è rappresentata dall’apparato militare, Engels ha ribadito più volte che anche tutta la struttura militare viene meno qualora la base economica collassi: la storia economica più o meno recente non ha fatto che confermare questa verità, dal duplice crollo degli imperi tedeschi (secondo e terzo reich) alla dissoluzione dell’ex Urss, che ha visto lo squagliamento dell’armata rossa che fu e la diaspora di tecnici e specialisti militari russi (o a tale attività collegati).

 

Con la guerra non si produce niente di più di ciò che c’era, semmai si distrugge ricchezza; e la distruzione, si sa, è l’unico risvolto preliminare per cominciare a contrastare la sovraproduzione, nella misura in cui la ricchezza sia anche "valore". La guerra – oltre a distruggere tutto, persone e cose – al più trasferisce la proprietà di ricchezza e valore da una mano all’altra; “produzione” vuol dire “appropriazione” (e trasformazione) della natura, ossia “proprietà”, e pertanto essa può essere definita solo dall’attività lavorativa, non dalla rapina. Sostiene perciò Engels che “la proprietà fondata sulla violenza si dimostra qui semplicemente come una frase da spaccone destinata a coprire la mancanza di intelligenza dello svolgimento reale delle cose”. Lo “spaccone” di Engels era il dr. Dühring: che dire del lord Keynes e dei pacifici-guerraioli “politici” suoi adepti? Per i vari Cheney, Rumsfeld, Rice, Wolfowitz, Armitage, Negroponte & i cosiddetti "vulcani" del Pnac [il Progetto per un nuovo secolo americano – cfr. in rete a www.contraddizione.it/tema.htm], spalleggiati dagli economisti bellicisti neo-con, non occorre dire niente: le loro azioni parlano da sole. La violenza bellica, come osservava Engels, “costa, come tutti sappiamo a nostre spese, una tremenda quantità di denaro. Ma la violenza non può far denaro, può, tutt’al più, portar via quello che è già stato fatto. In ultima analisi, il denaro deve pur essere fornito dalla <produzione economica> che le procura i mezzi per allestire e mantenere i suoi strumenti. Armamento, composizione, organizzazione, tattica e strategia dipendono anzitutto in ogni epoca dal livello raggiunto dalla produzione e dalle comunicazioni”. È cronaca recente che – dopo l’abbattimento dell’Urss e il suo collasso economico – navi russe siano rimaste "sequestrate" in porti stranieri per la mancanza perfino di rifornimenti alimentari per l’equipaggio, per non dire di riparazioni o ricambi, la cui difficoltà ha lasciato a terra, o li ha fatti volare in condizioni deleterie, anche gli aeroplani ex sovietici. E, a séguito delle stellari spese per la guerra elettronica del cosiddetto “scudo spaziale”, perfino gli Usa indebitati fino al collo – per permettere gli scandalosi stanziamenti bellici – hanno dovuto trascurare l’esercito convenzionale, sì che Rumsfeld è stato costretto a dire alle truppe occupanti in Iraq: “Andiamo in guerra con quello che abbiamo, non con quello che vorremmo avere”.

Il nocciolo del problema che qui, in sintesi, si intende esaminare concerne proprio l’influsso reale delle spese militari sulla situazione economica mondiale nel suo complesso, soprattutto in fase di crisi. Faceva notare Nikolaj Bukharin, nella prima sezione della sua analisi dell’economia del periodo di trasformazione [1920], che “la produzione di guerra non compare in alcun modo come materiale nel <successivo> ciclo di produzione. L’effet­to economico di questi elementi è una grandezza puramente negativa. Se si considerano i mezzi di consumo, essi non generano qui forze lavoro, poiché i soldati non figurano nel processo di produzione. Appena la guerra si arresta, i mezzi di consumo servono in gran parte non in quanto mezzi di riproduzione della forza-lavoro, ma come mezzi di produzione della specifica forza militare, che non gioca alcun ruolo nel processo di produzione”. Sicché il <processo complessivo di riproduzione del capitale>, con la guerra risulta rattrappito: “con qualsiasi ciclo produttivo successivo la base reale di produzione diventa sempre più ristretta. La spesa militare non produce, bensì sottrae”. La distruzione bellica, come si è detto, è l’unico fatto economico significativo, ma solo in quanto controtendenza alla sovraproduzione incombente, alla saturazione del mercato mondiale. Lo scontro tra capitali imperialistici, anche tra differenti cordate al­l’interno di ogni filiera, continua perciò senza tregua. E si potrebbe anche dire “senza quartiere”, perché tale scontro è caratterizzato dalla trasversalità del mercato mondiale attuale. Letteralmente ciò significa che non c’è un luogo fisico che sia "preciso e prefissato", nella forma di quelle che chiamammo "guerre per interposta persona", i cui veri nemici non erano quelli sul campo di battaglia ma eventualmente gli <alleati forzosi>. Epperò quello stesso scontro non fa che aggravare le contraddizioni, le crisi e le forme di lotta. In siffatta forma mutata, esso può non apparire quale scontro diretto tra stati (o superstati o “poli”) che deve conseguentemente essere condotto “fuori casa”.

A questo scopo, di conseguenza, le guerre servono anzitutto per procurare profitti adeguati all’apparato industriale militare in tutto il suo complesso [come lo chiamarono, non senza una preoccupazione per il suo possibile strapotere, dopo la vittoria nella seconda guerra mondiale, i consiglieri del gen. Eisenhower]: non solo quindi alle industrie delle armi, alla macchina bellica cioè, ma anche a ogni attività connessa, apparentemente “civile”, elettronica, energia, logistica, ecc. (perfino fabbriche di giochi di società, come la Hasbro di Wolfowitz!), compresa la ricostruzione post-bellica, che guidano l’intero complesso. Non sono neppure minimamente estranei a questo oscuro giro del complesso militareindustriale, gli affari di spionaggio e droga che da almeno mezzo secolo e più governano la politica estera Usa. La tattica seguita dal capitale in crisi, perciò, è quella del catch & run – “prendi i soldi e scappa!” – come del resto si sta ampiamente riscontrando nella sequenza dei conflitti mondiali, col massacro di intere popolazioni (e anche di migliaia di residenti Usa, da Pearl harbor alle torri gemelle: tanto che importa ...?!). Business is business. The "business" must go on! Ora la “fratellanza” capitalistica mondiale esibisce i militari che fanno le guerre quali forze di pace: e come tali, sventolando bandiere e cantando inni a dio e alla patria, si rifanno sfilate, umanitarie naturalmente, come le loro guerre. La guerra stessa è mostrata come etica o perfino giusta, nel nome di una Grande Riforma, anziché qual è, come Grande Restaurazione. In simile veste <nuova>, Nato & co. (dall’Onu alle cosiddette Ong, ecc.), portando morte tra le popolazioni inermi fuori del vecchio territorio di "competenza", sono presentate invece come apportatrici di vita civile, di pacifica convivenza tra le genti. Intanto gli occupanti militari (come riscontrava Marx per l’impero ottomano) hanno nelle loro mani tutte le cariche pubbliche, militari, civili e giudiziarie.

 

E qui casca l’asino! – come recita il proverbio. Ciò che manca del tutto agli apologeti dell’efficacia delle spese di guerra – siano keynesiani o post, luxemburgiani o neoconservatori – è invariabilmente il concetto di totalità. In effetti, sia per ignoranza o miopia, sia per inconfessabili interessi o piaggeria, nell’esami­nare le spese di guerra, occorre prendere in considerazione l’intera economia nel suo complesso (o, come direbbe l’“analisi economica” dominante un’economia chiusa). Ovverosia – se si considera tutto il mercato mondiale: l’intera classe dei capitalisti, in lotta tra loro e contrapposta in quanto tale alla classe salariata – il pil (prodotto lordo) e il suo andamento in tutto il pianeta, e non in questo o quel paese, per questo o quel capitale – non serve osservare l’eventuale vantaggio singolo, ma controllare bene se ce ne sia oppure no uno generale per tutti i protagonisti (qui ovviamente solo i capitalisti, soggetti e loro stati, e non certo i proletari, esclusi in partenza dal modo di produzione stesso). L’"individualismo", imposto come vuota metodologia dominante dall’ideologia borghese, può perciò farla da padrone – quale che ne sia la speciosa motivazione addotta – per assumere il punto di vista unilaterale di uno stato o di un capitale individuale separato da tutti gli altri. Le peculiarità attuali in continua estensione del mercato mondiale, infatti, obbligano a guardarlo co­me un tutto e allora, solo su tali basi, è lecito analizzare le conseguenze delle spese militari. Così, pure, un criterio analogo può riguardare anche molte altre spese pubbliche, con la particolarità non indifferente però per queste ultime, essendo tutte spese di reddito collettivo (statale in senso lato), di doverle giudicare in base allo specifico valore d’uso da esse arrecato alla collettività: una cosa è mettere e tenere in piedi una macchina bellica di distruzione di massa, altro è provvedere all’istruzione, alla salute o alla vecchiaia dei cittadini, che costituiscono un “valore d’uso necessario alla comunità, perché questa ne ha bisogno a ogni costo”. Ma il problema è sempre: da dove vengono i soldi? Quando lo stato può “costringere la collettività a devolvere una parte del suo reddito, non del suo capitale”, le spese sostenute per pubblica utilità “figurano come condizioni generali della produzione, collettive della produzione sociale, e perciò non come condizione particolare per un capitalista qualsiasi, per il suo particolare processo di produzione” [Marx, lf, q.v, f.20]. Invece, facendo prevalere il punto di vista del “particolare processo di produzione”, il clamoroso equivoco – nel quale oggi rientra a pieno titolo il cosiddetto “keynesismo di guerra” – si rivela in tutta la propria unilaterale insipienza. Se, dunque, non si esamina la totalità del mercato mondiale capitalistico, ma si prendono in esame solo gli “affarucci” di uno stato o di un capitale individuale, è ovvio che si possa riscontrare – e in generale lo si riscontra – il solo vantaggio di singoli (capitalisti o stati) a scapito di altri: mors tua, vita mea. Ma in tutti i casi di codesto genere si può trattare unicamente di trasferimento di plusvalore da uno all’altro, non si produce cioè nessun plusvalore in più, non si aggiunge neppure un atomo di ricchezza a quella esistente.

Quindi, nel caso dei meri trasferimenti di plusvalore (che sono inspiegabili a quanti guardano immediatamente al proprio profitto) non si può verificare alcun aumento netto del cosiddetto pil mondiale. Ciò vuol dire che dalla guerra non si trae profitto? Tutt’altro: proprio perché profitto individuale e non massa totale di plusvalore, ciò che uno guadagna, l’altro inevitabilmente perde; a parità di massa di plusvalore prodotto; infatti, il profitto viene solo ripartito in maniera profondamente disuguale, avvantaggiando qualcuno a danno di qualcun altro: capitale contro lavoro salariato, anzitutto, ma anche capitali monopolistici finanziari contro capitali minori dispersi e stati dominanti contro stati dominati. Pertanto, tale trasferimento di plusvalore – a parte l’ineguale separazione tra le classi, che porta alla loro crescente “polarizzazione”, insita nella definizione stessa di modo di produzione capitalistico – è sia “interno”, col prevalere di diverse filiere, e cordate in esse, su altre perdenti, sia “esterno”, attraverso lo scambio ineguale per rapinare gli stati dominati (che perciò sono dominati anche militarmente). È ciò che è puntualmente avvenuto, nel mondo moderno, dall’epoca del capitale commerciale giustificata dal “mercantilismo” in poi, prima con il saccheggio delle colonie e poi con la rapina imperialistica, a cominciare dal supposto Commonwealth britannico fino, oggi, alle aggressioni da parte degli Usa in tutto il pianeta. Ma allora perché, sulla traccia di Keynes, si è pensato di ipotizzare un’effi­cacia delle spese militari, come dello scavar buche o costruire piramidi? I motivi immediati di fondo sono un paio: da un lato, l’ignoranza abissale – lo “strano modo di procedere” degli economisti, lo etichettava Marx, secondo cui con il “tentativo di ignorare le contraddizioni del processo capitalistico di produzione”, si risolvono i rapporti “di tale processo nelle relazioni semplici che sorgono dalla circolazione delle merci” in quanto tali [c, i.3(2-nota)] – della “differenza specifica” tra merce semplice e merce capitalistica, ossia tra reddito e capitale; dall’altro, l’arroganza politica, mista a tetra indifferenza, per la rapina ai danni delle popolazioni sottomesse a favore della “madre-patria” (con la possibilità di concedere così anche qualche briciola all’“ari­stocrazia proletaria” della propria nazione).

 

Keynes, in effetti, facendo, implicitamente <per moto contrario>, tesoro del rammentato insegnamento engelsiano, era sostanzialmente interessato – per entrambe le motivazioni appena dette – a indicare ai governi soluzioni di politica economica possibili “per preservare dal crollo l’ordine economico che va in rovina”. La Gran Bretagna, rapinando le ex colonie del proprio “dominio”, faceva affluire la ricchezza e il valore là sottratti migliorando sensibilmente le sue condizioni, ma facendo peggiorare a vista d’occhio quelle delle popolazioni dominate. Finché tale situazione fosse durata, il turpe e meschino obiettivo poteva dirsi raggiunto. Ma, come si sa, nessuna rapina può durare in eterno, e neppure tanto a lungo; sì che il decadimento del­l’imperialismo britannico è stato inarrestabile, dando spazio alla crescita di Usa, Germania, Giappone, ecc. Ma i <keynesiani-di-guerra> continuano a non capire. Solo se una risorsa fosse inutilizzata (come per il “risparmio” mobilitato per far piramidi) e l’occupazione militare imperialistica "costringesse" – ma quali condizioni vessatorie! – il paese sconfitto a farne oggetto di produzione, allora si potrebbe avere un forzato incremento netto di plusvalore: ma è molto improbabile. Comunque è rapina, in una maniera o nell’altra. Negli ultimi decenni sono stati gli Usa a provare a fare altrettanto, e a dover affrontare le medesime contraddizioni, ma su scala ancora più allargata. Una tale "ottica" politica, perciò, non contraddice affatto le gesta del new deal rooseveltiano, vanificato nelle sue spese per il cosiddetto "stato sociale" [con una effusione di amorosi sensi tra Franklin Delano Roosevelt che, fino all’aggressione all’Etiopia e alle legge razziali in associazione a Hitler considerava Mussolini “quell’ammirevole gentleman italiano”!!]. In realtà, a detta di keynesiani come Abba Lerner, “fu soltanto la spesa monetaria enormemente accresciuta per la seconda guerra mondiale che finalmente curò la grande depressione”: finché c’è guerra, c’è speranza – è il motto di ogni particolare capitale che vuole usare dello stato ai propri fini. Ma appunto codesta "cura" per la lunga crisi 1919-1939 (con il crollo del 1929 proprio in mezzo) servì a portare fiumi di oro e merci in Usa, depauperando il resto del mondo – sia gli sconfitti, come Germania, Giappone e Italiadimezzata, sia i “vincitori” come anzitutto la Gran Bretagna, ma anche la Francia, con l’Urss in attesa del colpo finale.

Con un trasferimento di plusvalore senza precedenti, il capitale imperialistico a base Usa, sostenuto dai piani statali politici militari di ricostruzione post-bellica, poté investire in tutto il mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, il monopolio imperialistico Usa per quel trasferimento del plusvalore mondiale a proprio favore ha così registrato picchi – aumenti borsistici dell’ordine del 20-30% – in occasione delle varie situazioni belliche (Corea, Cuba, Indocina, Panama, Golfo persico, ecc.). La “miracolosa” politica economica yankee fu in questa maniera interamente imperniata sulla costruzione del ricordato complesso militare industriale, ossia sulla preparazione duratura e permanente della guerra tesa ad accaparrare tutto il plusvalore del pianeta. Insomma, le fortune del keynesismo made in Usa si sono basate – per ripetere le giuste parole di un marxista americano – su “un’economia di guerra in tempo di pace”. Il fatto è, dunque, che le guerre, vecchie vecchissime o nuove, non possono far altro che trasferire violentemente il plusvalore esistente e la ricchezza materiale prodotta in cui esso risiede. Non è un caso, sia ribadito per inciso, che il dimezzamento della crescita del pil mondiale per quasi quaranta anni – nonostante i “miracoli” asiatici, dal Giappone alla Cina, passando a turno per diversi altri paesi, con tassi di incremento spesso vicini alla doppia cifra – permanga ancora oggi come contraddizione dell’imperialismo transnazionale in un’epoca, riempita a forza, di guerre per la conquista, la spartizione e l’insediamento conflittuale. E nel frattempo, con un tale enorme rallentamento della crescita mondiale media, non ha potuto far altro che diminuire anche il lavoro. La riserva di lavoratori – flessibilità, precarietà, emarginazione, povertà e fame – è così aumentata a dismisura; e con essa la crisi ha acuito la polarizzazione di classe in tutto il mondo.

Così, tutti i trasferimenti di plusvalore sul piano internazionale si traducono per gli aggrediti in un precipitare della crisi che provoca le loro perdite, ma vanno in senso opposto sui mercati degli “alleati”. Analizzando la legge dell’accumulazione e del crollo del capitalismo Henryk Grossmann ha osservato che la guerra e la svalutazione del capitale, con essa collegata, attenuano la tendenza al crollo, ma non possono dare direttamente alcun nuovo impulso all’accumulazione netta di capitale. Falsa è perciò la concezione di Rosa Luxemburg, per cui “anche dal puro punto di vista economico, il militarismo appare al capitale un mezzo di pri­m’ordine per la realizzazione del plusvalore, cioè come campo dell’accumulazione”. “Che la faccenda si possa esporre dal punto di vista del singolo capitale, cosicché le forniture dell’esercito da sempre offrono l’opportunità per un rapido arricchimento – prosegue Grossmann – è cosa nota. Dal punto di vista del capitale complessivo, però, il militarismo è un settore di consumo improduttivo. Qui i valori vengono sprecati invece di essere risparmiati, cioè investiti come capitale produttivo. Ben lontano dall’essere un settore di accumulazione, il militarismo rallenta piuttosto l’accumulazione. Gran parte del reddito della classe operaia che potrebbe arrivare nelle mani della classe imprenditoriale viene confiscata dallo stato con le imposte indirette e (in gran parte) speso per scopi improduttivi. Questa è una delle cause del rallentamento della formazione di capitale, e l’impedimento della formazione di capitale si può scorgere nel fatto che l’emissione di valori pubblici aumenta a dismisura” [iii,1(11)]. Attraverso questo processo di mutamento di forma delle contraddizioni imperialistiche transnazionali viene alla superficie appunto la lotta tra i monopoli finanziari, e per essi lo scontro – anche militare – tra i paesi o i gruppi di paesi che li sostengono. È da questa premessa che discendono gli equilibri e le contraddizioni tra le principali aree del mondo, per spostare le delimitazioni delle rispettive zone di influenza e per spartirsi il controllo del plusvalore lì prodotto. Come ebbe a scrivere Engels: “lo stato è un’organizzazione della classe dei proprietari per la difesa contro i non proprietari”. Il problema di fondo consiste sempre nella ricerca da parte del capitale di lavoratori da sfruttare a fini di profitto, cosicché esso si manifesta attraverso contrasti tra paesi, e tra questi e le nazionalità regionali, proprio a causa dell’autonomizzazione transnazionale del capitale monopolistico finanziario. Conseguenza di ciò è il momentaneo offuscamento della lotta di classe all’interno di ciascun paese nel nome della “nazione” e della “patria”, se non addirittura della “fede”, riscoperte a loro esclusivo vantaggio dalle frazioni delle borghesie nazionali il cui ruolo predominante è in pericolo.

 

La differenziazione dei capitali interna a ciascuno stato, dianzi indicata, pone quelli di “stanza” in quei paesi in un ordine gerarchico tra loro in cui tende a prevalere la contesa tra lobby. Ma l’intervento, soprattutto militare, dello stato in sostegno all’espansione imperialistica, essendo transnazionale, non può che essere trasversale ai diversi stati nazionali e perciò anche alle differenti lobby in essi presenti, variamente alleate con le omologhe di altri stati. “E tra gli azionisti e i direttori delle imprese, delle fabbriche, ecc. ci sono militari e famosissimi uomini di stato di tutti e due i partiti. Una pioggia d’oro cade direttamente nelle tasche dei politici borghesi, che costituiscono una compatta cricca internazionale, la quale incita i popoli a competere in fatto di armamenti”, scriveva V.I. Lenin, nel 1913, a proposito di armamenti e capitalismo. Dunque, le alleanze lobbistiche – in prima istanza economiche e finanziarie, ma poi necessariamente militari – procedono trasversalmente, ma contrapponendosi l’un l’altra da una base nazionale. Non può esserci una sola lobby per ciascun comparto. Ogni lobby ha i propri “servizi paralleli”, privatizzati semmai, nel senso che si avvale di “agenzie” private appositamente costituite da ex dipendenti per lavori “coperti” o sporchi. Mai prima d’ora gli stanziamenti militari e gli appalti conseguenti avevano raggiunto simili livelli. Ne forniscono una conferma pleonastica la crescita e le attività, spesso imperscrutabili, delle varie holding basate in Usa e in qualche maniera connesse al complesso industriale militare; dalle imprese energetiche (petrolifere in particolare: Exxon, Unocal, ecc.) al gruppo Carlyle di Bush-Baker-Laden, operante nel settore delle costruzioni e in quello aerospaziale militare (come General dynamics o Douglas o Raytheon), dalla Halliburton di Cheney alla Lockheed Martin, e così via razziando proprietà azioni e attività delle altre lobby capitalistiche. Chi produce “noccioline” è per ora tagliato fuori dal giro.

La guerra non è giusta o ingiusta, la guerra è utile al capitale. La <guerra è denaro>. La strategia di penetrazione imperialistica non è affatto “globalizzazione”, ma richiama piuttosto la forma militare di azioni non militari (l’esempio dei “corridoi” euroasiatici, tra la guerra in Jugoslavia e quella in Afghanistan, è emblematico). Del resto, insegnava già più di un secolo fa John Atkinson Hobson quale fosse l’imprescindibilità dell’intervento bellico per l’espansione dell’impero britannico. Appena il modo di produzione capitalistico prese la forma del capitale finanziario, venne fuori anche un particolare tipo del potere statale, lo stato imperialistico <rapinatore> con il suo apparato militare centralizzato. Il ruolo sociale della guerra consisteva nell’estensione del dominio del capitale finanziario, con i suoi monopoli industriali e cartelli bancari. Ma, si sa, la guerra costa. Una parte notevole dei costi delle guerre Usa è sopportata da altri paesi: decine di miliardi di dollari a carico dei principali “alleati” – Gran Bretagna, Germania, Italia, Arabia Saudita (che ha finanziato la maggior parte delle spese per la prima guerra del golfo contro l’Iraq, ma che ora è in rotta di collisione con i padroni Usa e ha già ritirato parecchi capitali in dollari), ecc. – cosicché gli Usa stessi possano cercare di carpire ancora plusvalore dall’estero. E se il rientro dei profitti non è significativo o sufficientemente sollecito quanto desiderato, allora si prospetta l’altra grande contraddizione delle spese militari. L’indebitamen­to (federale, statale e privato) degli Usa è stratosferico – c’è chi lo stima in 34 mmrd $ – e, con la debolezza valutaria del dollaro insidiato dall’avanzata dell’euro, l’aggravio di bilancio dovuto alla guerra potrebbe erompere da un momento all’altro in una fuoriuscita di capitali da Wall street. Quella economica e militare sono, infatti, le due facce di una medesima strategia che mira al controllo planetario della produzione (con la circolazione come accessorio indispensabile), indipendentemente – in continuità da Kissinger a Brzezinski e alle brillantissime “allieve” di quest’ultimo, Madeleine Albright ("democratica") e <Condolcezza> Rice ("repubblicana") – dal governo in carica. Obnubilate le masse con l’"umanitarismo" e la "lotta al terrorismo", le potenze nemiche-amiche sono costrette a portare la guerra a nazioni terze, “per interposta persona” appunto. Dissolto l’esercito russo e distrutto quello irakeno, gli Usa hanno ora il monopolio assoluto della guerra nel mondo. Uno dei pochi, forse il più importante settore industriale in cui oggi gli Usa siano competitivi internazionalmente è la <produzione di guerra>. Non semplicemente l’indu­stria militare – che produce solo i mezzi di distruzione – ma tutta la macchina bellica che sembra civile (non armi, cioè) e consuma, ma non per il ciclo della riproduzione, tali mezzi con l’impiego di un vasto esercito di lavoratori assoldati, per fabbricare la merce-guerra bell’e fatta, pronta e finita. Se tutto andasse per il meglio, anche i clientes del governo Usa, con i capitalisti privati, dalla vendita della merce-guerra potrebbero trarci un guadagno, togliendolo però a capitali impiegati in altra maniera. Nella società capitalistica la struttura economica conduce in ultima analisi a un’acuta crisi nella sua formazione politica, che si esprime nello scontro tra le organizzazioni statali del capitale e nelle guerre capitalistiche. La guerra, allora, suscita un raggrupparsi delle forze su una stessa base: la forma violenta del potere statale continua a sussistere, ma con un ruolo profondamente innovato e subalterno alla trasversalità sovrastatuale. Come lo stato nazionale non è mai stato al di sopra della società e delle classi, così neanche lo sono i superiori organismi sovranazionali. La società borghese non contiene alcun elemento che stia al di sopra delle classi. Si lasci concludere Engels con un’osservazione, tratta dalla citata parte dell’Anti-Dühring, sulla contraddizione insanabile tra sviluppo tecnologico e costo delle spese militari. “Quel vertice di perfezione tecnica rende la gara tanto esorbitantemente costosa quanto inutilizzabile militarmente, e questa lotta rivela conseguentemente, anche nella guerra, le leggi di quell’interno moto dialettico per cui il militarismo, come ogni altro fenomeno storico, sarà condotto alla rovina dalle conseguenze del suo proprio sviluppo”.

 

 

Bibliografia ragionata

 

Per i testi (classici) non è significativo indicare l’edizione o la traduzione particolare utilizzata; si ritiene più facile dare solo il titolo e l’anno originario di compilazione dei testi stessi, i quali sono reperibili in diversissime pubblicazioni. Quando si tratta di volumi è possibile aggiungere anche l’indicazione di sezione, capitolo e paragrafo, o, se manoscritti, di quaderno e foglio; tali citazioni sono infatti sempre invariabili, mentre la pagina cambia a seconda dell’edizione. Inoltre, in molti altri casi soprattutto per opuscoli monografici (o relative a frasi per le quali non si ritenga essenziale il contesto complessivo), la menzione di osservazioni sparse nel testo è fatta riferendosi genericamente all’opera stessa.

 

Bukharin, Nikolaj (1920), Economia del periodo di trasformazione

von Clausewitz, Karl (1806), Sulla guerra

Engels, Frierdrich (1876), Anti-Dühring [ovvero La rivoluzione della scienza compiuta dal sig. Eugen Dühring]

Engels, Frierdrich - Marx, Karl (1845), L’ideologia tedesca

Grossmann, Henryk (1928), La legge dell’accumulazione e del crollo del capitalismo

Hobson, John Atkinson (1903), Imperialismo

Lenin, Vladimir Ili? (1913), Gli armamenti e il capitalismo

Marx, Karl (1857), Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica

Marx, Karl (1867), Il capitale

 



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