Shale Gas negli Usa: da "rivoluzione" a bolla?

Shale Gas negli Usa: da "rivoluzione" a bolla?

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di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

Come è noto, gli Stati Uniti hanno sorpassato ormai da tempo l’Arabia Saudita raggiungendo il primo posto nella graduatoria dei principali Paesi esportatori di petrolio. Si tratta di un risultato notevole ma allo stesso tempo prevedibile, dal momento che la scalata dei ranghi della classifica dei maggiori fornitori mondiali di greggio da parte degli Usa andava protraendosi ormai da parecchi anni.

In particolare, da quanto l’amministrazione Obama concesse il placet all’estrazione di petrolio non convenzionale, realizzabile grazie alla messa a punto di metodi di estrazione quali l’hydrofracking e l’horizontal drilling. Tecniche particolarmente innovative, ma gravide di effetti collaterali sull’ambiente circostante perché prevedono l’infiltrazione nel sottosuolo, e quindi nelle falde acquifere che lo attraversano, di notevoli quantità di sostanze (si parla di oltre 200 litri di una miscela contenente circa 600 agenti chimici per ciascun pozzo) che sono alla base di un pesantissimo inquinamento ambientale e dei numerosi fenomenici sismici registrati nelle aree interessate da fatturazioni idrauliche degli scisti. La scarsa attenzione generale sulla pericolosa correlazione tra estrazione di idrocarburi non convenzionali e terremoti si spiega con ogni probabilità con la ragguardevole incidenza della “rivoluzione dello shale” sul Pil statunitense; l’«Economist», dal canto suo, stimò che gli oltre 20.000 nuovi impianti costruiti in tutto il territorio nazionale avevano contribuito a far crescere l’economia nazionale di ben 76,9 miliardi di dollari dal 2010 al 2014.

In quegli anni, numerosi esperti del settore pronosticarono che il tight-oil e lo shale-gas estratti in America settentrionale sarebbero riusciti a farsi progressivamente strada nel mercato mondiale, così come altre particolari forme non convenzionali di petrolio – tra le quali figurano anche il petrolio delle sabbie bituminose della Cina, l’extra-heavy-oil del Venezuela e il pre-salt oil del Brasile – e gas naturale. L’epicentro di questa “rivoluzione” rimaneva però saldamente nel cuore degli Stati Uniti, che sono arrivati a produrre 20,21 milioni di barili di petrolio al giorno nel 2022 e 975 miliardi di metri cubi di gas nel 2021 ad incrementare drasticamente le proprie quote di mercato. Soprattutto verso il “vecchio continente”, per effetto delle dinamiche innescate dal conflitto russo-ucraino che hanno comportato – tra le altre cose – la recisione del legame energetico tra Unione Europea e Federazione Russa.

Se l’impulso originario alla crescita dell’industria dello shale è venuto dall’amministrazione Obama, il vero punto di svolta si è ottenuto tuttavia sotto il governo Trump, che grazie allo «straordinario lavoro» del segretario all’Energia Rick Perry è riuscito a smantellare l’architettura normativa che regolamentava l’attività dei produttori di petrolio non convenzionale in modo non soltanto da accreditare gli Usa come grandi esportatori idrocarburi, ma anche e soprattutto di innestare il programma di reindustrializzazione del Paese su una base di autosufficienza energetica. Le migliaia di nuovi giacimenti attivati in Pennsylvania, Texas, Kansas, Oklahoma, North Dakota e Colorado con il supporto di Washington, sostenevano i fracker, avrebbe trasformato stabilmente gli Stati Uniti nel principale fornitore mondiale di idrocarburi. «Siamo solo nei primi quindici anni di un processo che sarà lungo 150 anni», dichiarò Steve Müller, responsabile della Southwestern Energy. L’obiettivo di valorizzare le potenzialità dell’industria operante nel campo degli idrocarburi non convenzionali aveva effettivamente inciso sulla definizione della linea opera­tiva seguita dagli Usa nel corso degli anni precedenti, con particolare riferimento ai reiterati sforzi profusi per sbattere fuori mercato Paesi produttori di prima fascia come Iraq, Iran e Libia. Nonché all’ostina­to e fallimentare tentativo di marginalizzare per mezzo delle sanzioni una nazione cruciale sotto il profilo energetico come la Russia, alle forti pressioni sull’Arabia Saudita affinché barattasse un sostanzioso taglio dell’output con l’intensificazione del supporto militare e strate­gico in chiave anti-iraniana e all’assedio politico-tecnologico imposto al Venezuela mirato a menomare le potenzialità produttive del Pae­se.

I problemi sorsero nel momento in cui, in forza di motivazioni squisitamente geopolitiche (limitare le entrate di avversari del calibro di Russia e Iran), gli Usa decisero di colludere con l’Arabia Saudita per affossare il prezzo del petrolio. Per i fracker, consapevoli che lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi non convenzionali, tendenti ad esaurirsi molto rapidamente, richiedeva un numero elevatissimo di trivellazioni e quindi break-even piuttosto elevati, la situazione cominciò a farsi veramente complessa. L’amministratore delegato di Conoco-Phillips Ryan Lance cercò allora di fornire solide assicurazioni agli investitori, dichiarandosi convinto che «il sistema sopravviveva col barile a 100 dollari ma è in grado di sopravvivere anche a 50-60 dollari. E c’è ancora spazio per migliorare, competendo con qualsiasi altro progetto estrattivo nel mondo». Secondo Lance, i progressi tecnologici che venivano progressivamente realizzati avrebbero permesso di spostare la soglia di remunerazione dello shale-gas verso il basso del 25% nel solo 2015, mentre «nelle aree migliori si riesce ad avere un ritorno del 10% sul capitale investito anche con il petrolio a 40 dollari».

Le cose sono andate in maniera ben differente. La forte riduzione dei margini di profitto legati alla produzione di tight-oil e shale-gas si è infatti rivelata un colpo durissimo per le piccole e medie compagnie Usa che avevano investito nel settore, ed ha prodotto sensibili contraccolpi anche sull’andamento in Borsa dei giganti di Big Oil, i quali si videro costretti sia a “tosare” i propri azionisti che a rinunciare a numerosi investimenti già predisposti. Secondo quanto denunciato da «Bloomberg» nell’agosto del 2015, il debito accumulato da metà delle compagnie coinvolte nel campo della “rivoluzione dello shale” inserite nel suo indice era arrivato a toccare il 40% del loro intero valore. Un’altra analisi realizzata sui bilanci di 60 società petrolifere quotate negli Stati Uniti certificò che alla fine del giugno 2014 i debiti ammontavano a 190,2 miliardi di dollari, in crescita di 50 miliardi dalla fine del 2011. Dal 2010 al 2014 la massa debitoria raddoppiò, mentre le entrate aumentarono di appena il 5,6%. Va inoltre sottolineato che una quota non irrilevante di queste società destina almeno il 10% del fatturato al solo pagamento degli interessi sul debito, che nella maggior parte dei casi viene stato classificato dalle principali agenzie di rating a livello junk, (“spazzatura”), a causa degli alti rischi di insolvenza e dell’incapacità della stragrande maggioranza delle aziende di settore a generare profitti, come illustrato magistralmente da Bethany McLean in un suo approfondito volume. La quale non ha mancato di rilevare che il tracollo rovinoso e generalizzato del settore è stato evitato soltanto a causa della sovrabbondante offerta di liquidità a costo irrisorio garantita dalla politica monetaria iper-accomodante portata avanti dalla Federal Reserve. È in virtù di questo sostegno finanziario garantito dalla Banca Centrale Usa che il comparto del fracking è riuscito a sopravvivere al periodo di prezzi molto bassi protrattosi dal 2014 al 2015, e a rilanciare su larga scala la produzione attraverso una riduzione progressiva dei costi e il miglioramento delle rese estrattive.

Nel novembre del 2015, lo Houston Chronicle rivelò tuttavia che ben 37 società statunitensi operanti nel settore degli idrocarburi non convenzionali erano finite in bancarotta tra l’agosto e l’ottobre precedenti, con un debito complessivo che superava i 13 miliardi di dollari. Nel mesi successivi si registrò il medesimo andamento, per effetto della revisione in negativo delle aspettative di Goldman Sachs sulla quotazione del petrolio, del rialzo dei tassi di interesse da parte della Federal Reserve e dell’ingresso sul mercato dell’Iranian Light conseguente alla revoca delle sanzioni a Teheran, che affossò il prezzo del Brent e del West Texas Intermediate al di sotto dei 30 dollari per barile; un livello che era stato raggiunto l’ultima volta nel lontano 2003.

La drastica cura dimagrante – con la chiusura dell’80% dei siti di estrazione attivi in quell’anno, accompagnata da una lunga catena di fallimenti aziendali – agevolò un processo di concentrazione destinato ad attenuare i problemi finanziari che gravavano sull’intero settore, che nel corso degli anni si è ritrovato per di più a fare i conti con un forte calo dell’output che secondo lo specialista David Messler ha caratteri  strutturali e non congiunturali, e che era stato preannunciato in buona misura dal contenuto dei documenti datati 2009 pubblicati dal «New York Times». All’interno dei quali alcuni esperti e dipendenti delle aziende di punta di Big Oil identificavano già allora la “rivoluzione dello shale” come un nuovo, gigantesco “schema Ponzi”. Tra di essi spicca l’autorevole International Energy Agency, che all’interno del suo World Energy Investment Outlook del 2014 vaticinò un crollo verticale della produzione di idrocarburi non convenzionali negli Stati Uniti e lo scoppio della relativa bolla.

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