Se il Salario minimo diventa un pasticciaccio brutto ostaggio della contrattazione nazionale

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Se il Salario minimo diventa un pasticciaccio brutto ostaggio della contrattazione nazionale

 

di Federico Giusti

Premessa

Per comprendere quanto accade in Parlamento in materia di salario minimo è necessario fare un passaggio indietro di alcuni mesi, ossia a quando il Governo Meloni aveva dato mandato al Cnel di sbrigliare la intricata matassa, trovando una via di uscita non troppo onerosa per le parti datoriali e per il Bilancio statale alle prese con la scarsa produttività italica e le continue richieste padronali e sindacali di abbattere il costo del lavoro. In piena estate era arrivato un primo documento, una memoria[1] inviata al Governo.

In Soccorso del Governo

 Il Cnel era venuto letteralmente in soccorso dell’Esecutivo[2], provando a ridimensionare il fenomeno dei “contratti pirata” (quelli siglati dalle organizzazioni sindacali autonome) per meglio evidenziare una consistente parte dei contratti con paga inferiore ai 9 euro orari sottoscritta invece dai sindacati maggiormente rappresentativi (Cgil, Cisl e Uil). Sulla scorta di questa lettura il CNEL aveva a quel punto indicato la contrattazione nazionale con la “triplice” come ambito nel quale discutere e normare la questione.

A distanza di alcuni mesi, prima del dibattito parlamentare di dicembre, è arrivato l’ennesimo “aiuto” del Cnel con un’ulteriore documentazione[3].

Dopo mesi di istruttoria della Commissione dell’Informazione, l’assemblea del CNEL ha approvato il testo a larga maggioranza, con soli 15 voti contrari.

Il documento è arrivato in tempo utile per il dibattito parlamentare, entro i 60 giorni previsti, e merita di essere letto e analizzato.

 Si rendono necessarie due considerazioni preliminari:

- se la minoranza parlamentare avesse voluto costruire nel paese una seria opposizione a tutela dei salari avrebbe potuto, o dovuto, mobilitarsi. E invece, pur conoscendo da tempo il testo inviato al Governo, hanno preferito limitarsi al dibattito parlamentare trasformando la questione salariale in una querelle istituzionale senza alcun collegamento con le istanze sociali. La stessa Cgil, presente nel Cnel, era fin da subito consapevole dell’esito dell’istruttoria. La scelta di non organizzare una protesta seria nel Paese la dice lunga sulla volontà di non interrompere quel dialogo con il Governo che, sotto traccia, continua attorno a innumerevoli questioni, dai tanti aspetti legati alla Legge di Bilancio, a una legge sulla rappresentanza sindacale che assicuri il monopolio della contrattazione fino al convitato di pietra attorno a previdenza e sanità integrativa, enti bilaterali senza mai dimenticare le remunerative attività svolte da caf e patronati.

Tanto cara mi fu la concertazione

 Per dirla in altri termini, è prevalso il vecchio impianto concertativo, che al conflitto privilegia il “compromesso”, con tutto ciò che ne consegue. Per comprendere meglio quanto scritto finora si rinvia ad un passaggio del comunicato stampa della Presidenza del Cnel[4], Renato Brunetta, sull’esito della prima fase istruttoria, definita come

Un incontro e confronto che, pur nella varietà dei punti di vista e delle opinioni, non è mai scontro ma un contributo di “osservazioni e proposte” per facilitare il compito di Governo e Parlamento nella elaborazione della legislazione economica e sociale. È pertanto con un senso di profonda soddisfazione personale e di orgoglio istituzionale che registro la capacità del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro di realizzare in poche settimane di lavoro un contributo di grande spessore tecnico e progettuale che prospetta per il nostro Paese un piano nazionale di azione che, su una materia così complessa e fortemente viziata da apriorismi ideologici, tende a far leva su un ampliamento e consolidamento degli spazi della contrattazione collettiva di qualità. (…) Sono certo che, una volta affievolita la contesa politica, che vede una estrema e ingiustificata polarizzazione tra chi è a favore e è chi contro il salario minimo, sarà possibile apprezzare il documento approvato oggi a larga maggioranza dal Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro che individua una “cassetta degli attrezzi” per gestire, in modo articolato e mirato le diverse criticità del lavoro povero e dei salari minimi adeguati per tutti i lavoratori (non solo i dipendenti e non solo i livelli più bassi delle scale di classificazione contrattuale) che non possono certo essere risolti attraverso soluzioni semplicistiche che non sanno poi fare i conti con la realtà e con i bisogni delle persone in carne e ossa. È la mia storia personale a confermare che ho sempre seguito una sola strada che è quella di stare “dalla parte dei lavoratori” e sono convinto che questo documento confermi la coerenza di una storia che assegna al Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro un compito istituzionale che non intende entrare nelle dinamiche della contesa politica.

E ancora: «L’intera rappresentanza datoriale, pur nelle sue diverse espressioni di settore, si è dimostrata compatta nel difendere il sistema della contrattazione collettiva, rispetto a soluzioni semplicistiche di un problema complesso, come quello del lavoro povero».

Sempre nel comunicato del Cnel, vengono riportate anche le dichiarazioni del vicepresidente Confindustriale Floriano Botta:

Le imprese che aderiscono alle associazioni di rappresentanza più rappresentative sono impegnate al rispetto dei contratti e della legalità e non possono non segnalare le situazioni di alterazioni della concorrenza, da parte di soggetti datoriali che non applicano i trattamenti retributivi complessivi previsti nei contratti collettivi. Guardiamo pertanto con estremo favore l’idea di un piano di azione nazionale, che potrebbe essere anche un utile contributo per consentire a Governo e Parlamento di riorientare, in termini di maggiore efficienza ed effettività, le risorse economiche a sostegno della contrattazione collettiva, dell’occupazione di qualità, del welfare aziendale e della produttività. Si tratta di ingenti risorse pubbliche che andrebbero indirizzate, in termini selettivi, verso i soli sistemi di contrattazione collettiva e bilateralità più consolidati e la cui fruibilità si suggerisce venga subordinata alla condizione della integrale applicazione dei trattamenti retributivi complessivi garantiti dai contratti collettivi più diffusi, a livello nazionale di categoria.

Sono in ballo i fondi del PNRR e tanto le parti datoriali quanto quelle sindacali concordano, al netto delle dichiarazioni di parte e del voto, favorevole o contrario che sia stato dentro il Cnel, su una medesima posizione: la necessità di rafforzare la contrattazione con i sindacati rappresentativi e di rafforzare la contrattazione di secondo livello vincolandola all’accrescimento della produttività

Veniamo allora al testo del Cnel inviato al Governo nell’ottobre scorso, giusto per analizzarne i contenuti, ricordando poi che varie memorie, dal 2019 ad oggi, sono state inviate al Parlamento e che quindi la posizione espressa è frutto di un lungo percorso analitico, sfociato nelle proposte finali.

Tardiva è stata quindi l’opposizione della Cgil, dopo anni di analisi condivise; a conferma che il percorso di rafforzamento della contrattazione sindacale a favore di quelli “maggiormente rappresentativi” era un obiettivo largamente condiviso, in nome del quale sacrificare il tentativo di sviluppare una conflittualità diffusa per restituire dignità salariale e contrattuale alla forza lavoro.

I dati ufficiali ISTAT stimano in 7.10 euro il 50 % del salario medio e in 6.85 euro il 60 % di quello mediano. I dati sono del 2019, e ci mettono davanti a un mondo del lavoro nel quale la paga oraria della stragrande maggioranza dei casi è tra le più basse dei paesi occidentali (e non dimentichiamo che, stando al Cnel, i contratti pirata coprirebbero solo lo 0,4% della forza lavoro). Visto che questi dati non sono stati ad oggi confutati possiamo quindi asserire, senza timori di smentita, che siano proprio i CCNL siglati dai rappresentativi la causa dell’impoverimento salariale italiano.

  • la Direttiva europea[5], da cui inizia tutta la discussione anche nel nostro paese, non poteva imporre agli Stati membri l’obbligo di stabilire per legge il salario minimo. Sia per definizione normativa, sia perché se pure avesse potuto farlo avrebbe messo in crisi la stessa Ue e soprattutto i paesi economicamente più deboli. Si parla infatti genericamente di “miglioramento dell’accesso effettivo dei lavoratori al diritto alla tutela garantita dal salario minimo”. In sostanza si rinvia alla contrattazione con i sindacati e ai rapporti di forza tra capitale e lavoro, che in questa fase storica vedono soccombere i salariati anche per l’assenza di un sindacato di classe e conflittuale;
  • Estendere la contrattazione diventa allora un obiettivo condiviso: da una parte si rafforza il monopolio della contrattazione dei rappresentativi, dall’altra si evita di legittimare sigle minori includendo anche i sindacati di base che in alcuni settori, vedi la logistica, hanno strappato accordi di sito con paghe più alte di quanto previsto dalla contrattazione nazionale. Facciamo attenzione auna cosa: dietro il dogma della contrattazione non si cela il potenziamento del CCNL ma la costruzione di un modello compatibile con gli equilibri necessari per la sopravvivenza del sistema capitalistico, che nella fase attuale (svolta green e quanto altro) necessita di stabilità, regole condivise che manco la Cgil vuole mettere in discussione. Il dibattito parlamentare diventa allora una sorta di parodia o, se preferiamo, di farsa, perché trasforma le rivendicazioni sociali in una disputa parlamentare;
  • La direttiva Ue, infatti, prevede: «qualora il tasso di copertura della contrattazione collettiva sia inferiore a una soglia dell’80%», ogni singolo Stato dovrà costruire «un quadro di condizioni favorevoli alla contrattazione collettiva, per legge a seguito della consultazione delle parti sociali o mediante un accordo con queste ultime» e costruire quindi «un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva». La contrattazione collettiva con i sindacati rappresentativi diventa allora una sorta di sblocco obbligato e per questo la stessa Cgil, dopo le critiche avanzate in estate, ha assunto una posizione defilata nelle settimane successive, quando invece avrebbe dovuto crescere la mobilitazione nel paese e nei posti di lavoro;
  • Quali sono allora gli obiettivi del Cnel con il nuovo documento di ottobre? Leggiamo testualmente: «misurare in modo attendibile il tasso complessivo di copertura della contrattazione collettiva. Rispetto alla questione del minimo salariale il punto di interesse è, più precisamente, il tasso di copertura dei contratti collettivi nazionali di lavoro».
  • Si va prefigurando di conseguenza una nuova stagione contrattuale che privilegerà accordi con i rappresentativi, a prescindere dal recupero effettivo del potere di acquisto perduto con l’inflazione. Per essere chiari, viene disinnescata sul nascere la possibilità di una rivendicazione elementare come l’aggancio automatico dei salari al reale costo della vita,
  • Quando il Cnel scrive che «esistono in Italia voci retributive sui generis come la tredicesima, la quattordicesima, l’elemento di garanzia rispetto alla contrattazione decentrata di produttività», si vuol dire in sostanza che un eventuale salario minimo fissato a 910 euro non sarebbe giustificabile alla luce delle attuali dinamiche contrattuali.  Così scrivendo si offre una concreta scappatoia al legislatore per non stabilire un importo minimo della paga oraria. Da qui il voto contrario nel Cnel dei rappresentanti Cgil, che non potevano assecondare un documento destinato a frantumare anche la più timida proposta sul salario minimo (quella delle opposizioni parlamentari) e, al contempo, non avanzare rivendicazioni maggiori  proprio per non rompere il monopolio dei rappresentativi. Un voto contrario nel Cnel per salvarsi la faccia salvaguardando l’impianto contrattuale dei rappresentativi (e da qui la rinuncia ad ogni automatismo che leghi il salario all’effettivo costo della vita);
  • Quando parliamo di nuovi scenari di contrattazione stiamo pensando al venir meno di alcuni riferimenti come i minimi tabellari, per procedere invece con salari sempre più legati all’incremento della produttività individuale e collettiva, alla flessibilità organizzativa, al potenziamento del welfare contrattuale a discapito di quello universale e alla cosiddetta bilateralità. Non è azzardato ipotizzare molteplici forme contrattuali che alla fine scaricheranno sulle casse statali l’onere dei ricambi generazionali. Da tempo le aziende private chiedono allo stato di finanziare un ricambio generazionale, nel recente passato sono stati inventate alcune tipologie contrattuali atte a favorire l’uscita dalla produzione della forza lavoro più anziana per sostituirla con giovani neoassunti attraverso contratti di inserimento decisamente inferiori e quindi vantaggiosi per la parte datoriale (la convenienza deriva dall’applicazione di livelli e retribuzioni più bassi). Il vecchio vizio italico di scaricare sulle casse statali i processi riorganizzativi e di ristrutturazione viene oggi giustificato con l’urgenza di raggiungere gli obiettivi del PNRR e affrontare velocemente le sfide della riconversione energetica, in realtà siamo davanti a un processo più complesso di riorganizzazione della macchina pubblica[6] e di revisione delle dinamiche contrattuali e salariali tanto nel pubblico quanto nel privato
  • In sostanza, il CNEL giudica adeguate le retribuzioni orarie nell’attuale sistema di contrattazione collettiva e così facendo elude la questione di fondo, ossia la costruzione di un sistema contrattuale che agganci i salari al recupero del potere di acquisto perduto. E se aggiustamenti ci saranno, riguarderanno solo settori dove le criticità sono fin troppo evidenti, come i servizi fiduciari, il lavoro agricolo e il multiservizi, che poi riguardano milioni di lavoratori e lavoratrici;
  • La riduzione delle ore lavorate, causa primaria della crisi del capitalismo italiano e della perdita di competitività dello stesso, porta il Cnel ad alcune considerazioni, da riportare integralmente: «In particolare, metà dell’incremento [del differenziale retributivo, ossia del ‘gap’ esistente fra retribuzioni basse e alte] è riconducibile alla diminuzione del numero delle settimane lavorate a tempo pieno, mentre la restante parte è dovuta prevalentemente a retribuzioni settimanali in media più basse per gli occupati a tempo parziale o a termine. Anche il differenziale retributivo per genere risulta significativamente correlato alla maggiore presenza di lavoro part-time tra le lavoratrici. Analogamente si può dire per la differenza retributiva per età, che è strettamente connessa alla presenza di lavoro stagionale o a termine soprattutto nelle classi di età più giovani. Marcate differenze si riscontrano infine con riferimento all’area geografica analizzata e questo è un aspetto di particolare delicatezza e rilevanza rispetto a quanti prospettano oggi interventi normativi sul salario minimo differenziati su base territoriale così da tenere conto anche del diverso costo della vita».
  • Quali sono le conclusioni a cui arriva il Cnel e di conseguenza lo stesso Governo, che assume in toto il documento redatto?  I salari dovranno essere ricondotti all’incremento della produttività, nel nome della quale far muovere la stessa contrattazione nazionale, affrontando il working poor per riportarlo nell’alveo di accordi con la triplice, e senza mai mettere in discussione i processi e le dinamiche che vanno a determinare il crescente impoverimento di parti consistenti della forza lavoro. Adempimenti, questi, che porteranno anche a una revisione della busta paga e delle mere dinamiche salariali, stabilendo in partenza delle griglie minime dentro i contratti nazionali, che poi saranno soggette a ribassi a seconda dell’andamento produttivo, delle crisi cicliche e delle congiunture economiche.  Quando si vuole far valere il «principio di adeguatezza del trattamento retributivo rispetto a ciò che è socialmente accettabile», per socialmente accettabile si intende una dinamica salariale in linea con gli andamenti economici e l’incremento della produttività, nonché la sostenibilità di aumenti contrattuali compatibili con lo stato dell’economia. Insomma, il salario diventa una variabile dipendente da profitti (che cresceranno a dismisura, mentre le buste paga rimarranno ferme al palo);
  • Sono infine emblematiche alcune raccomandazioni atte a porre fine alla giungla contrattuale, per ridurre magari il numero dei contratti vigenti e stabilire in partenza quali CCNL applicare a determinati settori. Un’operazione semplificatrice (che alla fine agevolerà anche il ruolo dei sindacati rappresentativi e delle associazioni datoriali), portata avanti mentre allo stesso tempo si chiedono nuovi ammortizzatori sociali e interventi legislativi, diretti magari a normare maggiormente il part-time per alcune categorie particolarmente svantaggiate:  «si potrebbero innestare misure legislative per razionalizzare gli interventi a sostegno della occupazione femminile e della conciliazione vita lavoro, da declinarsi ovviamente non solo in termini di genere, ma anche di sostenibilità del lavoro per le persone afflitte da malattie croniche o da parziale disabilità, che sono in costante crescita e che rappresentano una priorità in un contesto demografico calante come il nostro.

 

 Il CNEL raccomanda altresì di garantire il regolare funzionamento della contrattazione collettiva non attraverso interventi legislativi, bensì attraverso la valorizzazione di accordi interconfederali che, nel rispetto della libertà contrattuale, permettano di determinare a livello settoriale e di categoria il salario giusto, dando piena legittimazione alla pretesa della contrattazione collettiva, se condotta da attori qualificati e realmente rappresentativi, di concorrere alla regolazione del mercato del lavoro. Un accordo interconfederale sottoscritto da tutte le organizzazioni datoriali rappresentative sarebbe anche la via più auspicabile per risolvere il problema della sovrapposizione dei perimetri contrattuali, con soluzioni di compromesso che consentano a tutti gli attori collettivi di riconoscersi nelle regole autodeterminate».

 

[1] Memoria_CNEL_2023_07_11_XI_COMMISSIONE_LAVORO_PUBBLICO_PRIVATO.pdf

[2] CNEL e salario minimo | La Fionda

[3] Elementi di riflessione sul salario minimo in Italia (cnel.it)

[4] SALARIO MINIMO, APPROVATO PRIMO DOCUMENTO CNEL - I PUNTI SALIENTI

[5] Direttiva UE sul salario minimo adeguato | Europe Direct Firenze (comune.fi.it)

[6] Per la Pa valga il piano ministeriale di revisione della Performance : https://www.ticonsiglio.com/performance-merito-dipendenti-statali-criteri-valutazione/

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