Fabio Massimo Parenti - Come la Cina ha vinto la guerra economica contro Trump
Il controllo delle terre rare e la fine dell'accerchiamento USA nel nuovo video editoriale per l'AD
"Quella tra Stati Uniti e Cina è una guerra economica a tutto campo. Negli ultimi anni se ne è parlato molto. Ma stavolta qualcosa è cambiato. Non si tratta più di dazi o liste nere: siamo davanti a un salto di qualità. La Cina ha deciso di rispondere colpo su colpo, con una strategia matura e pienamente consapevole del proprio peso globale.
Insomma, la Cina ha detto basta. Basta all’accerchiamento economico, alle sanzioni mirate contro le sue imprese tecnologiche e all’uso politico della finanza e del dollaro. E lo dice colpendo là dove l’Occidente è più vulnerabile: nelle catene di approvvigionamento ad alta tecnologia.
Negli ultimi otto anni Washington ha imposto una serie di misure sempre più aggressive contro Pechino, nel tentativo di bloccarne l’ascesa tecnologica. Le restrizioni non riguardano più solo i microchip più avanzati: oggi gli Stati Uniti vietano alle aziende di tutto il mondo di vendere qualunque prodotto che utilizzi anche solo una minima parte di tecnologia americana — è la cosiddetta Foreign Direct Product Rule, che dà a Washington un potere extraterritoriale mai visto prima.
Solo nell’ultimo anno, l’amministrazione Trump ha: – ampliato la “entity list” per includere tutte le aziende con oltre il 50% di capitale cinese, anche se registrate all’estero; – esteso l’embargo su software e macchinari per semiconduttori, colpendo direttamente il cuore dell’industria high-tech cinese; – imposto un 100% di dazio su una vasta gamma di prodotti cinesi e un 721% di tariffa sui pannelli solari e altri prodotti per l’energia pulita; – e persino multe milionarie ai porti per le compagnie navali che operano navi costruite in Cina. Non si tratta più di concorrenza, ma di un tentativo sistematico di isolamento: un decoupling totale, come lo definiscono gli stessi analisti americani.
Ma questa volta Pechino non si è limitata a reagire. Ha risposto con una logica speculare, ribaltando il tavolo del gioco. La Cina ha imposto restrizioni severe sull’export di terre rare, vietando la vendita di magneti, tecnologie e macchinari per la lavorazione destinati all’industria militare e ai semiconduttori americani. Ha inoltre revocato le licenze di importazione di soia e legname dagli Stati Uniti — due settori in cui Pechino era, fino a poco tempo fa, il principale acquirente. E ha introdotto tasse portuali reciproche sulle compagnie statunitensi, colpendo indirettamente i fondi pensione e gli asset manager USA che detengono quote nei principali operatori navali mondiali. Ma soprattutto, la Cina ha scelto la leva decisiva: il controllo delle terre rare.
Oggi Pechino non domina solo l’estrazione, ma oltre il 90% della raffinazione globale di questi materiali. Nel segmento più strategico, quello delle terre rare pesanti usate per applicazioni militari, il controllo cinese è pressoché totale: oltre il 99%. E nel processo di raffinazione e trasformazione — il vero nodo della catena — non esistono alternative industriali immediate.
Basta un ritardo di poche settimane nelle licenze d’esportazione cinesi perché i prezzi di alcuni magneti schizzino del 40%, o perché colossi come ASML siano costretti a sospendere consegne di macchinari per la produzione di chip.
In altre parole: gli Stati Uniti possono cercare di strangolare la Cina a valle della catena tecnologica, ma la Cina siede a monte, e da lì controlla il flusso di materie prime indispensabili per l’intero sistema. Come ha scritto un analista: “Chi vive a valle non può soffocare chi vive a monte”. È la fisica, prima ancora che la geopolitica, di questa nuova fase della guerra economica.
Dietro queste mosse non c’è solo la logica della ritorsione. C’è una visione del mondo diversa, inconciliabile con quella americana.
Gli Stati Uniti concepiscono il potere come dominio: o controlli, o vieni controllato. La Cina, invece, mira all’armonia, intesa non come debolezza, ma come equilibrio dinamico tra forze diverse. Per Pechino, il conflitto non è un fine, ma un mezzo per ristabilire la stabilità del sistema.
Mentre Washington teme di perdere il suo primato, la Cina cerca di ridefinire le regole del gioco in un mondo multipolare, in cui nessuno possa più dettare legge sugli altri.
Ecco perché oggi Pechino dice basta. Perché non accetta più un sistema fondato sulla coercizione e sull’arbitrio. E perché ora dispone delle armi economiche e tecnologiche per rispondere — non per distruggere, ma per riequilibrare.
La “guerra delle terre rare” non è solo un capitolo di tensioni commerciali: è il simbolo della transizione da un ordine unipolare a uno multipolare. Dalla logica del dominio alla logica dell’armonia. Dal controllo alla coesistenza.
E in questo scontro di visioni, il vero salto di qualità non è militare né industriale — è culturale e politico: chi vuole dominare il mondo, e chi vuole cambiarlo."

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