Trump in Asia: la vera posta in gioco della missione riguarda il renminbi

Il nuovo editoriale di Loretta Napoleoni in esclusiva su l'AntiDiplomatico

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Trump in Asia: la vera posta in gioco della missione riguarda il renminbi


di Loretta Napoleoni per l'AntiDiplomatico

Durante la visita di Trump in Asia non possiamo non fare una riflessione sul ruolo della moneta cinese in questo continente e nel mondo.

Negli ultimi mesi, tra le pieghe della cronaca economica, si sta consumando una rivoluzione che potrebbe cambiare l’ordine mondiale: la rapida ascesa del renminbi, la valuta cinese, come moneta internazionale. Non è un processo improvviso, ma il risultato di un piano di lungo periodo che Pechino ha costruito con pazienza e metodo, passo dopo passo, nell’ombra dell’egemonia monetaria americana.

Oggi, quella strategia sta dando i suoi frutti. Mentre il dollaro affronta la crisi più profonda degli ultimi decenni, la Cina si muove per trasformare la sua moneta in uno dei pilastri del sistema finanziario globale. Secondo i dati della People’s Bank of China (PBOC), il renminbi è ormai la seconda valuta più utilizzata nel commercio internazionale, con una quota del 7,6% dei pagamenti globali di trade finance. Solo tre anni fa era appena all’1,8%. Parallelamente, la quota di commercio estero cinese regolata in renminbi ha superato il 30%, contro il 10% di dieci anni fa.

Non si tratta solo di un dato contabile: è la fotografia di un nuovo equilibrio economico. Oggi, oltre metà delle transazioni transfrontaliere della Cina è denominata in valuta nazionale, e più di 35 paesi hanno accordi di swap con Pechino per usare il renminbi nei pagamenti bilaterali. Il valore complessivo dei prestiti esteri, dei depositi e delle obbligazioni in renminbi ha superato i 3.400 miliardi di yuan (circa 480 miliardi di dollari), quadruplicando in cinque anni.

Dietro questa crescita non ci sono slogan, ma infrastrutture: la rete di banche di compensazione in valuta cineseormai copre 33 giurisdizioni, mentre il sistema CIPS (Cross-Border Interbank Payment System) — l’alternativa cinese allo SWIFT — ha superato nel 2024 i 175.000 miliardi di yuan di transazioni, con un aumento del 43% in un solo anno. In altre parole, Pechino sta costruendo il suo sistema circolatorio finanziario, autonomo da quello americano.

Molti pensano che il detonatore di questa trasformazione, paradossalmente, si chiami Donald Trump, che con il ritorno dei dazi e la nuova guerra commerciale lanciata nel suo secondo mandato, il presidente americano abbia scatenato una crisi di fiducia nei confronti del dollaro (nei primi sei mesi del 2025, la valuta statunitense ha vissuto il peggior crollo degli ultimi cinquant’anni, perdendo terreno non solo contro l’euro ma anche contro il renminbi). Ma non e’ cosi’. Se e’ vero che la politica dei “reciprocal tariffs” ha reso più difficile il commercio internazionale e’ anche vero che la crescente percezione che gli Stati Uniti usino il dollaro come arma geopolitica — per sanzionare, punire o escludere — ha spinto negli ultimi anni molti paesi a cercare alternative. Piuttosto, la politica delle tariffe di Trump ha accelerato le conseguenze negative della percezione da parte del mercato del dollaro quale strumento di un potere instabile, parallelamente il renminbi si e’ proposto come la moneta della prevedibilità.

La Belt and Road Initiative, il più grande progetto infrastrutturale del XXI secolo, è il veicolo principale di questa trasformazione. Nelle decine di paesi coinvolti — dall’Africa orientale all’Asia centrale — la Cina finanzia porti, ferrovie, centrali e infrastrutture digitali in renminbi, non in dollari. Così facendo, crea una rete di economie legate a doppio filo alla propria valuta.

Nel 2024, il valore dei bond internazionali denominati in renminbi ha superato i 1.000 miliardi di yuan, con un aumento del 36% rispetto all’anno precedente. E le emissioni di “Panda bond” — titoli in valuta cinese emessi da istituzioni straniere — sono cresciute del 140%solo nel primo semestre del 2025.

Hong Kong, come sempre, è il laboratorio finanziario di Pechino. Qui si concentra il 70% del mercato offshore del renminbi, con oltre 940 miliardi di depositi e 224.000 miliardi di yuan di transazioni processate nel 2024. E nonostante i tassi di interesse più bassi rispetto al dollaro, le imprese asiatiche continuano a preferire la moneta cinese: è più stabile, più prevedibile e, soprattutto, più indipendente dalle decisioni della Federal Reserve.

Parallelamente, Pechino ha lanciato la sua moneta digitale di Stato, l’e-CNY, oggi testata in oltre trenta città e integrata nel progetto mBridge, che collega la Cina, Hong Kong, gli Emirati Arabi e la Thailandia in un sistema di pagamenti istantanei basato su blockchain. Il passo successivo, ormai imminente, sarà la nascita di stablecoin ancorate al renminbi, pensate per gli scambi internazionali, soprattutto lungo la Via della Seta.

La Cina non vuole sostituire il dollaro con lo yuan, ma ridefinire le regole del gioco. Nel linguaggio di Pechino, “internazionalizzazione” non significa liberalizzazione totale, ma creazione di un sistema di scambi fondato su fiducia reciproca, stabilità e interdipendenza controllata. È un capitalismo che si emancipa dal modello americano, ma senza rifiutarlo: lo rielabora.

Il nuovo sistema è multilaterale, non ideologico. Un mondo dove il commercio non è più ostaggio delle tensioni geopolitiche, e dove ogni paese può scegliere con chi e come commerciare, senza subire il rischio di sanzioni. Non a caso, il BIS (Bank for International Settlements) ha definito il 2022 “un punto di svolta” per il credito internazionale: per la prima volta, i prestiti in renminbi ai paesi emergenti hanno superato quelli in dollari ed euro. Kenya, Angola e Indonesia hanno già convertito parte del proprio debito sovrano in valuta cinese, e il Kazakhstan ha emesso nel 2025 il suo primo bond offshore in renminbi al tasso record del 3,3%.

Mentre la Cina costruisce un nuovo ecosistema monetario, gli Stati Uniti affrontano una crisi strutturale. Il loro debito pubblico ha superato i 35.000 miliardi di dollari, la fiducia nella Federal Reserve è scesa ai minimi storici e il dollaro — per la prima volta — non è più percepito come rifugio sicuro.

Come in tutte le transizioni storiche, il cambiamento è silenzioso ma profondo. Il secolo del dollaro sta finendo non con una crisi, ma con una metamorfosi. La moneta americana non scompare, ma perde la sua aura di invincibilità.

Il renminbi non è solo una valuta: è il simbolo di un modello economico che si emancipa dal paradigma occidentale. Un modello che combina mercato e Stato, capitalismo e pianificazione, innovazione e controllo. In questo equilibrio, la Cina vede il futuro del capitalismo globale: un sistema policentrico, pragmatico, digitale e finanziariamente sovrano.

Il nuovo ordine mondiale che molti attribuiscono a Trump, in realtà, nasce da più lontano: è il risultato di un processo iniziato alla fine della guerra fredda, accelerato dalla crisi del 2008 e consolidato oggi dalla de-dollarizzazione. È l’ultimo stadio di un’evoluzione inevitabile — quella di un mondo che non si affida più a un solo centro di potere, ma a una rete di economie interconnesse, ognuna con la propria voce, la propria moneta, la propria sovranità.

E come sempre accade nei momenti di svolta, non è la potenza militare a definire il futuro, ma la capacità di creare alternative credibili. La Cina l’ha capito. L’Occidente, forse, no.

Loretta  Napoleoni

Loretta Napoleoni

 

*Economista di fama internazionale. Ha insegnato alla Judge Business Schools di Cambridge e nel 2009 è stata invitata come relatrice alla Ted Conference sui temi del terrorismo. Nel 2005 ha presieduto il gruppo di esperti sul finanziamento del terrorismo per la conferenza internazionale su terrorismo e democrazia organizzata dal Club de Madrid. Autrice di diversi libri di successo tra cui Terrorismo SPAEconomia Canaglia e Maonomics, tradotto in 18 lingue, incluso l’arabo ed il cinese; ISIS, lo stato del terrore, uscito in 20 nazioni. L’ultimo si intitola Technocapitalism

 

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