L'uscita dall'Euro da sinistra

Riceviamo e pubblichiamo

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L'uscita dall'Euro da sinistra



di Federico Fioranelli
 

Oggi la destra nazionalista individua nella moneta unica e negli immigrati i nemici della piccola-media borghesia (la propria base elettorale) per spiegarne l’impoverimento ed incanalarne il malcontento, alimentando la guerra tra poveri.


Tuttavia, se essere forte con i deboli (gli immigrati) è un gioco che le riesce molto facile e che le fa guadagnare rapidamente consensi, non lo è altrettanto l’essere forti con i forti (l’UE e l’UEM), motivo per cui nell’ultimo periodo parla sempre meno di progetti di ritorno alla moneta nazionale.


La questione dell’uscita dall’euro deve quindi nascere da una prospettiva diversa da quella nazionalista.


Per quale motivo la sinistra di ispirazione marxista, o anche keynesiana, non solleva con forza la questione dell’uscita dall’euro, lasciandola invece esclusivo appannaggio della destra?


La sinistra, o meglio la sua componente maggioritaria, compie una confusione terminologica sovrapponendo il concetto di globalizzazione a quello di internazionalismo e teme che uscire dall’euro significhi tornare al nazionalismo.


Forse bisognerebbe ricordarle che la globalizzazione non è una conquista della classe lavoratrice, bensì un mezzo introdotto per perseguire gli interessi delle oligarchie e contemporaneamente per risolvere le crisi capitalistiche. L’internazionalismo, invece, sostiene il principio della solidarietà tra classi lavoratrici e non esclude affatto l’esistenza di Stati sovrani nazionali con propria specifica valuta.


L’euro, così come la globalizzazione, non favorisce la solidarietà tra popoli europei ma gli interessi delle imprese multinazionali e delle banche internazionalizzate, la libertà di movimento dei capitali, la riduzione dei salari, lo smantellamento dello stato sociale e la centralizzazione del capitale.


L’euro aumenta i divari economici tra Paesi (tra la Germania, i suoi “satelliti” e i Paesi periferici) e tra le classi sociali all’interno di tutti i Paesi che ne fanno parte (esso avvantaggia le élite e danneggia, invece, i lavoratori salariati, gli artigiani, i piccoli commercianti e le piccole-medie imprese non inseriti nella globalizzazione).


Chi, come me, solleva la questione dell’uscita dall’euro da una prospettiva marxista, vuole modificare i rapporti di forza tra lavoro e capitale a favore delle classi lavoratrici e subalterne, vuole creare posti di lavoro, perseguire la piena occupazione e la giustizia sociale, investire nella sanità e nell’istruzione pubblica. Vuole che si riprenda in mano la sovranità monetaria e fiscale, tornando alla pianificazione pubblica e limitando i movimenti di capitale.


A differenza di quello che sostengono troppi economisti (purtroppo non soltanto liberisti), la fase di passaggio dall’euro alla valuta nazionale non sarà semplice ma neppure disastrosa, se si riuscirà a gestire gli eventuali squilibri nella bilancia dei pagamenti e se si eviterà la speculazione sul tasso di cambio. Non possiamo poi escludere che, se l’Italia fosse in grado di gestire bene la transizione, altri Paesi seguirebbero il nostro esempio, minando così definitivamente il progetto liberista dell’euro.

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