L'atlantismo, una piaga (anche) energetica per l'Italia

L'atlantismo, una piaga (anche) energetica per l'Italia

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di Juri Carlucci, esperto di questioni internazionali; collaboratore di "Cumpanis"

 

Una nuova crisi, questa volta “energetica” che colpisce verticalmente le classi sociali italiane: salariati, pensionati, dipendenti, imprenditori, capi di industria. La precedente ci investì brutalmente, nel gennaio/marzo 2020. In quel caso ci fu tolto tutto dalla sera alla mattina, per decreto: la libertà di movimento (addirittura), il lavoro (molti, però, dovettero lavorare, precettati e morirono per assicurare i servizi essenziali, altri morirono per colpa dell’infame ingranaggio capitalistico), la salute, e la facoltà di riunirsi. La crisi “energetica” che in pieno inverno stiamo solo intravedendo non lascia scampo. Tutto il mondo produttivo di ogni settore merceologico, qualunque attività economica, consuma energia per la trasformazione, la logistica, la vendita o la cessione di servizi. E questa energia costa carissima, oggi: quattro, sei, otto volte tanto rispetto allo scorso anno 2021. A questo rialzo, ovvio, di tutti i prezzi di beni e servizi che pompano su l’inflazione, si accompagna l’esplosione del costo delle utenze per le abitazioni. Un Paese, l’Italia, che non se la passava bene già prima della pandemia, oggi, dopo due anni con i motori spenti, senza afflusso di turisti e una disoccupazione galoppante (in particolar modo, al Sud, nello specifico, le donne).

Il Governo in carica ha atteso troppo per provare a mettere una pezza. E non ha utilizzato nessun accorgimento nell’anno appena trascorso. Accusa dura che va motivata. La rincorsa verso le nuove energie rinnovabili – di cui tanto si parla – che non sarebbe ancora a regime (a cui addossare un bel pezzo di colpe) è uno specchietto per le allodole, ben lucidato dai soliti noti. Questo si sa, e si sa anche che MAI l’eolico, il fotovoltaico, il biometano, l’idrogeno etc. etc. saranno sufficienti al 100% per tutta la popolazione mondiale. Va messa a fuoco, oggi, la mancata strategia del Governo e dell’Unione europea. Per gli addetti ai lavori bastava, insomma, leggere i dati e spulciare grafici e tabelle. Si poteva osservare, ad esempio, che nel quarto trimestre del 2020, i prezzi di riferimento per un consumatore domestico tipo (Italia) stavano schizzando a doppia cifra per la fornitura di energia elettrica (15,6%) e del gas naturale (11,4%).

Allarme? Macché. Una pezza, anche in quel caso. Invece era doveroso acquistare gas e portare i livelli di scorta al massimo della capienza. E vi era modo e tempo per farlo. Fonti autorevoli definiscono lo stoccaggio italiano “non oltre il 50% del volume di capienza” che viene immagazzinato nei vecchi stabilimenti di stoccaggio gas, ormai in disuso con l’entrata a regime della rete nazionale. L’Italia ha nove “porte” di ingresso per il gas, nel Nord come nel Sud del Paese: sei di queste ricevono gas che poi viene smistato ovunque attraverso 36 mila kilometri di tubature, che raggiungono centrali termoelettriche, utenti che erogano servizi, industrie e abitazioni; le restanti tre “porte” sono rigassificatori del prodotto trasportato dalle navi metaniere, ovvero il gas naturale liquido a -160°. Perché non si è fatta una scorta record in previsione della burrasca? È possibile che non si conoscessero le reali migliori condizioni di ripresa dei mercati, rispetto alla pandemia, del continente asiatico e della Cina? Ripresa significa più consumo di gas e petrolio. Nei giorni scorsi è stato rimodulato, con l’incontro del presidente russo, Vladimir Putin e di quello cinese, Xi Jinping, a Pechino, in occasione della apertura dei Giochi olimpici invernali, l’accordo (globale) di fornitura di gas russo alla Repubblica Popolare Cinese: Gazprom e CNCP hanno firmato un trentennale per la fornitura di 10 miliardi di metri cubi/anno di gas attraverso il gasdotto Power of Siberia che collega Russia e Cina, esclusivamente.

Ma è solo un primo, importante, input. Tenendo sotto occhio la scena internazionale vi erano (vi sono!) tre macroscopiche aree di grande interesse che dovevano, per tempo, richiedere attenzione del Governo e del Parlamento a salvaguardia dell’economia italiana. La Germania ha dismesso, in ottemperanza all’esito del referendum “No Nuke” del 2011, tre centrali nucleari, di sei in attività, ovvero Brokdorf, Grohnde e Gundremmingen C; le altre tre centrali faranno la stessa fine entro il 2022. Ancora in Germania. Era l’inizio di settembre dello scorso anno quando le agenzie di stampa richiamarono l’attenzione sul “fine lavori” del gasdotto Nord Stream 2. Finalmente la Federazione Russa era collegata alla Repubblica Federale di Germania per mezzo di un gasdotto di ultima generazione che attraversa il mar Baltico. Ma questo gasdotto non è ancora entrato in funzione per mancanza della certificazione dell’Agenzia federale delle reti tedesca (in verità per indecifrabili malumori del nuovo governo Scholz) e la Russia non può pompare gas, in buona sostanza, verso l’Unione europea. La Francia, pur rimanendo un paese con centrali nucleari attive, sta iniziando una serie di dismissioni programmate e non.

Questo ha immediatamente portato in stato di allerta il paese transalpino, ma i rincari delle utenze sono stati disinnescati dal governo Macron forse anche per via di una campagna elettorale che cade nel semestre di presidenza UE. Rimane la forte pressione francese verso nuovi e ingenti approvvigionamenti di gas per superare il momento di crisi. In Italia, i rincari purtroppo vanno, in media, nel primo trimestre, dal 42% al 55% a seconda che si tratti di energia elettrica o gas naturale. Ma chi dovrebbe difendere il popolo, i lavoratori e le lavoratrici, i pensionati con minime risorse, chi ha perduto il lavoro e chi non lo riesce a trovarlo, strozzato da lunga disoccupazione e dal precariato o, peggio, dal lavoro irregolare? Sembra che il Governo italiano, però, abbia a cuore difendere, in armi, più che i disagiati, qualcosa di altro che ha comunque a che fare con questa crisi “energetica” e con il business della estrazione di idrocarburi. Il sunto del rapporto “The Sirens of Oil and Gas in the Age of Climate Crisis: Europe´s Military Missions to Protect Fossil Fuel Interests”, stilato da Greenpeace Italia, il migliore in circolazione in questo senso, con il titolo: “Missioni militari per proteggere gli interessi dell’industria del petrolio e del gas.

Come le risorse della difesa europea finiscono per aggravare la crisi climatica” (12/2021), illustra chiaramente quanto costosissime missioni militari italiane nel resto del mondo non siano altro che l’invio di contingenti per soddisfare la richiesta di “sicurezza”, sul campo, delle multinazionali italiane dell’estrazione degli idrocarburi. Il rapporto menziona: “… la UE, la NATO e i tre Paesi (Italia, Spagna e Germania), continuano a inviare i militari a proteggere le attività di ricerca, estrazione e importazione di gas e petrolio. Quasi sempre senza dirlo apertamente.

A parte alcuni casi eclatanti, infatti, è difficile trovare obiettivi ‘fossili’ nei mandati delle operazioni all’estero: molto più spesso questi fini emergono dalle dichiarazioni ufficiali di politici e militari o dalle strategie nazionali di ‘sicurezza energetica’”. Il tricolore italiano sventola nei diversi quadranti oggetto delle missioni militari, in Medioriente, nel Corno d’Africa, in Libia, nel Golfo di Guinea, in Iraq. Tra le righe delle varie relazioni al Parlamento, delle audizioni in Commissione parlamentare e nelle dichiarazioni del Governo italiano, si possono leggere queste affermazioni che gli analisti di Greenpeace Italia collezionano: “I risultati della ricerca hanno risentito dei diversi livelli di trasparenza sul tema. In termini di franchezza, spicca il caso dell’Italia, addirittura impegnata in due missioni che hanno, come primo compito ufficiale, la protezione degli asset estrattivi Eni”.

Nelle audizioni parlamentari, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini non ha mancato di sottolineare l’importanza “energetica” delle principali missioni militari del Paese, che si tratti dell’Iraq (il cui “crollo” “metterebbe a repentaglio la nostra sicurezza energetica”), del “crescente interesse nazionale in materia di approvvigionamento di risorse energetiche” nell’area del Golfo di Guinea, o della necessità di “una nostra presenza più regolare nel Mediterraneo orientale, dove la possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche è fortemente condizionata dal contenzioso marittimo in corso”. Il ministro ha anche fatto notare come l’escalation di violenza nella provincia nord del Mozambico (Cabo Delgado) ¬ dove Bruxelles ha da poco approvato una missione ¬ abbia causato “le interruzioni dell’attività estrattiva”. Questa descritta è la cifra della questione principale, ovvero il ruolo delle missioni militare italiane all’estero. Due terzi dei danari dei contribuenti italiani che il governo italiano, come indirizzo, chiede al Parlamento di votare per rifinanziare codeste missioni militari, vanno in realtà a finanziare missioni dedicate alla protezione aziendale delle multinazionali che estraggono, in giro per il mondo, idrocarburi. Insomma, missioni militari, alcune sono sotto bandiera Nato, che operano in teatri delicatissimi del Mediterraneo, del Medioriente e dell’Africa. Continua il rapporto: “Anche le missioni in Iraq, nel Golfo di Aden, nel Mediterraneo orientale e nello Stretto di Hormuz sono strettamente connesse alle fonti fossili. Il legame non è sempre nero su bianco nel mandato di missione: in alcuni casi, la ‘connessione fossile’ emerge dalle audizioni parlamentari del ministro della Difesa. Nei prossimi mesi, inoltre, l’Italia dovrebbe aderire anche alla missione europea nella provincia di Capo Delgado (Mozambico), dove l’escalation delle violenze sta mettendo a rischio le attività petrolifere”.

Veniamo alla cosiddetta crisi geopolitica tra Ucraina e Federazione Russa – in verità vi sono truppe dell’esercito russo in territorio russo che svolgono esercitazioni con altri Paesi e la marina militare russa in addestramento in acque internazionali – che quotidianamente fa straparlare i soliti artigiani dello scoop sui fogli stampati dalle grandi proprietà industriali. Ebbene, ogni tre per due si afferma che la cattiva Russia vuole tenere sotto scacco in pieno inverno le popolazioni europee (e quella italiana) distribuendo nelle condutture meno gas e innalzando i costi di questo (lascio stare qui tutte le altre importanti questioni al centro del dibattito). Dimostro qui che è falso.

Primo punto, come richiamato sopra: il gasdotto Nord Stream 2 è pronto, finito, e attende che le autorità preposte tedesche diano l’ok al pompaggio del gas dalla sponda russa; secondo punto: da che mondo è mondo il prezzo di un bene lo fa il mercato, domanda vs offerta, e oggi vi è un surplus di domanda, per le varie nuove situazioni già analizzate in queste righe, tra cui la corsa alla decarbonizzazione (che non dovrà avvenire solo in Asia); terzo punto: il ruolo destabilizzante della presenza NATO in Europa, ma non solo, che sta creando attriti e sta manomettendo la diplomazia euroasiatica con conseguente irrigidimento delle posizioni in campo. La alleanza sino-russa, che sul piano energetico conta anche sulla importante partnership iraniana, è incentrata verso un atteggiamento di cooperazione da cui sembra smarcarsi, per ora, l’Unione Europea; eppure essa potrebbe fare diversamente. Sembra incredibile preferire ricevere navi metaniere dagli Stati Uniti che attraversano l’Atlantico e trasportano gas di scisto (dannoso per l’ambiente perché frattura il sottosuolo) e non tenere buoni rapporti con un Paese come la Federazione Russa che da decenni fa contratti di fornitura con i Paesi europei; quarto punto: finora è l’Unione europea ad aver votato sanzioni verso la Russia, anche se lasciano fuori il settore energetico, tra gli altri esclusi.

Queste sanzioni sono dovute alla cosiddetta “invasione Russa della Ucraina e alla annessione della Crimea”, ma lo sanno anche i sassi che il regime filonazista insediatosi a Kiev, con un colpo di Stato nel 2014, non solo ha deposto il governo in carica, ha messo a morte civili residenti, ha perseguitato e perseguita gli aderenti al Partito comunista ucraino, ha bombardato il Donbass e i residenti, ma sta tentando di aderire all’Unione europea (e, conseguentemente, alla NATO) creando un gigantesco problema politico-militare che sta destabilizzando l’area da quasi due lustri. In Crimea, invece, un voto popolare regolare ha chiesto di ristabilire i confini come erano ai tempi della Unione Sovietica. Tutto questo con la crisi energetica ha ben poco a che fare. In particolare per l’Italia. È stato personalmente il presidente Putin a rassicurare il nostro presidente del Consiglio, Draghi, che: “Manterremo stabili le forniture di gas all’Italia” (1 febbraio 2022). I TG italiani e i suddetti fogli, pieni di russofobia squalificante per il nostro Paese, e per le relazioni che abbiamo l’onore di avere con la Federazione Russa – relazioni diplomatiche, commerciali, culturali, che ci danno il sostegno per essere preferiti annualmente come meta dei floridi flussi turistici dei cittadini russi verso l’Italia (al netto della pandemia odierna) –, costruiscono ogni giorno un nemico alle porte che non esiste; quinto punto: è la stessa Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA), dunque un ente dello Stato italiano, che certifica, nero su bianco, l’attuale “comportamento” lecito, in termini contrattuali, per ciò che riguarda l’invio dei flussi di rifornimento dalla Russia all’Italia. Nel comunicato stampa ARERA, Milano 30 dicembre 2021, si può leggere: “In particolare, il prezzo spot del gas naturale al TTF (il mercato di riferimento europeo per il gas naturale) è aumentato, da gennaio a dicembre di quest’anno (2021 N.d.R.), di quasi il 500% (da 21 a 120 €/MWh nei valori medi mensili); nello stesso periodo, il prezzo della CO2 è più che raddoppiato (da 33 a 79 €/tCO2). La crescita marcata dei costi del combustibile e della CO2 si è riflessa, quindi, nel prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso (PUN) che, nello stesso periodo, è aumentato di quasi il 400% (da 61 a 288 €/MWh nei valori medi mensili)”. “Le forniture dalla Russia, nonostante gli alti prezzi degli hub europei, non sono aumentate oltre quanto previsto dagli obblighi contrattuali. Inoltre, le aspettative sull’entrata in operatività in tempi brevi del nuovo gasdotto Nord Stream 2 sono andate deluse dopo la sospensione del processo di certificazione del gestore del gasdotto adottata dal regolatore tedesco”.

Insomma, è sotto gli occhi di tutti/e noi che l’Italia sta sbagliando quasi tutto nelle politiche energetiche. Andiamo a scovare il gas in mezzo mondo come se vivessimo in una epoca coloniale, inviando missioni militari per difendere le estrazioni e gli affari e diamo scarse informazioni al Parlamento, che rappresenta il popolo italiano, e ai cittadini. In più, subiamo la irrequietezza del mercato degli idrocarburi perché questi sono inquinati dai signori della guerra, da un lato, e dalla speculazione dell’alta finanza, dall'altro, oltre che essere, gli idrocarburi, per loro natura, risorse limitate e molto costose da estrarre dal sottosuolo. Ci affidiamo – mentre corriamo verso la decarbonizzazione e l’affermazione di uno stile di vita che prevede un forte ingresso di energie rinnovabili – ai produttori di gas di scisto che poi, dopo aver inquinato il sottosuolo, inquinano ancora con le metaniere per il trasporto. E infine, cerchiamo lo scontro diplomatico e (speriamo, mai) militare con un nostro dirimpettaio, la Russia, che ci vende prezioso gas e non rinuncia, ho qui dimostrato, ai suoi obblighi e al dovere di cooperazione leale.

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