IL SANGUE “LONTANO” E LA COSCIENZA “VICINA”

A margine dell’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della Sera, “Cosa ci dice una strage lontana. Come contrastare l’antisemitismo”

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IL SANGUE “LONTANO” E LA COSCIENZA “VICINA”


di Pasquale Liguori

 

C’è un genere letterario che a queste latitudini si pratica con disciplina: l’editoriale igienico. Funziona così: davanti a un massacro reale, documentato, si cambia scala morale. Si prende un episodio “lontano” - “La strage che arriva da «down there» (da «laggiù»), come gli inglesi chiamano l’Australia perché è dall’altra parte del mondo)” - e lo si usa come grimaldello per rimettere in ordine il discorso pubblico: non per capire, ma per addomesticare.

L’operazione è sempre la stessa: si dichiara di voler combattere l’antisemitismo e intanto si costruisce un campo magnetico dove qualunque critica radicale a Israele viene squalificata, ricondotta a patologia.

Ecco il trucco. Si parte da un fatto e lo si mette in cornice: “una robusta fetta della nostra «società civile» inserisce senza alcun dubbio gli ebrei morti a Sydney nella contabilità generale della guerra di Gaza”. È un rilievo che pretende lo statuto del fatto, ma che resta una generalizzazione presentata come constatazione per orientare l’opinione. In ogni caso, subito dopo, la cornice diventa il quadro. L’antisemitismo non viene trattato per ciò che è - storicamente, socialmente, politicamente - bensì come effetto collaterale della solidarietà con la Palestina. Come se il problema non fosse l’odio antiebraico (che ha una genealogia occidentale lunga e pesante), ma l’eccesso di indignazione per Gaza.

A quel punto, il passo successivo è inevitabile: la rete diventa il tribunale. Polito rastrella frasi con zelo e le monta come un referto: le vittime dell’eccidio australiano diventano “una conseguenza (numericamente irrilevante) della più grande strage nella Striscia”, “Quasi un «danno collaterale» autoinflittosi da Israele”. E il campionario tossico viene convocato come prova regina: “«È nulla in confronto al GENOCIDIO»”; “«Ma prevedibile, dopo 3 anni di genocidio indiscriminato»”.

Da qui si compie il salto logico, spacciandolo per buonsenso: siccome esistono tali post, allora il cuore del movimento a sostegno della Palestina è corresponsabile. È un classico: prendi la scoria e la fai diventare il materiale. E così, guarda caso, la realtà concreta - colonizzazione, apartheid, pulizia etnica, impunità - scivola fuori scena. Troppa realtà: meglio un caso morale.

L’antisemitismo, invece di essere combattuto come fenomeno reale e autonomo, diventa il filtro selettivo attraverso cui far passare - e restringere - ogni critica efficace a Israele.

Il cuore concettuale dell’editoriale è una morale della moderazione, travestita da diagnosi. Polito parla della “peggiore forma di «disumanizzazione»”, del diritto alla “«pietas»”, del passaggio dall’individuo a un indistinto “loro”. E costruisce la simmetria: “Se un tempo tutti gli ebrei furono considerati colpevoli del «deicidio», oggi tutti gli ebrei sono considerati colpevoli del «genocidio»”. È qui che l’editoriale igienico dà il meglio: prende la dinamica dell’identificazione collettivizzante e la mette al servizio di una funzione disciplinare.

Perché il problema non è ciò che dice sul piano astratto. Il problema è ciò che non dice sul piano concreto. La disumanizzazione viene riconosciuta e denunciata solo quando cambia bersaglio. Quando il corpo colpito è ebreo, scatta l’allarme, la pedagogia, la lezione civile. Quando il corpo colpito è palestinese, invece, per mesi (anni) si è assistito a una disumanizzazione infinitamente più sistematica e istituzionale: il palestinese ridotto a numero, a sospetto, a “scudo umano”, a popolazione sacrificabile. Una disumanizzazione non da commenti social, ma da apparati: media, diplomazia, diritto, algoritmi, forniture militari, veto. Questa però non merita l’editoriale igienico: merita deplorazione senza conseguenze, indignazione a bassa intensità.

E qui sta l’ipocrisia più rivelatrice: l’editoriale, nel suo stesso gesto, mostra come funziona la gerarchia delle vite. Il morto ebreo diventa immediatamente occasione di pedagogia pubblica; il morto palestinese resta sfondo, rumore, contesto. Non perché “non importi”: perché è già stato trasformato in normalità.

Il congegno, poi, si chiude con la parola d’ordine: “E invece spezzare quel circolo vizioso che identifica l’intero ebraismo con Israele sarebbe decisivo per contrastare l’antisemitismo di ritorno…”. Frase che serve a suggerire che la critica radicale a Israele è pericolosa quando è troppo netta, troppo incompatibile con l’ordine. È la versione educata del ricatto: parla pure, ma resta nei limiti; indignati, ma con misura; denuncia, ma senza toccare il fondamento; solidarizza, ma senza mettere in crisi chi arma e copre.

E infatti l’editoriale igienico non finisce mai chiedendo l’unica cosa che conti: responsabilità concrete, rotture reali, fine della copertura politica e militare. Finisce chiedendo moderazione. Cioè, obbedienza, mentre la realtà fa il suo lavoro.

Polito chiude con un monito che sembra inattaccabile: “«L’antisemitismo non è iniziato o finito con l’Olocausto»” e conclude che se non sappiamo riconoscerlo “neanche quando uccide gli ebrei a quindicimila chilometri da Gerusalemme… allora vuol dire che è davvero di nuovo tra noi”. D’accordo, ma chiamiamo anche per nome l’uso politico dell’antisemitismo ridotto a sapone mediatico che lava la complicità e, nello stesso gesto, sporca di sospetto chi denuncia l’impunità.

 

Il punto, allora, non è solo denunciare l’antisemitismo ma smascherare il modo in cui esso viene usato come tecnologia discorsiva. Quando l’antisemitismo diventa la lente attraverso cui sorvegliare, filtrare e addomesticare la critica a uno stato coloniale, smette di essere combattuto e comincia a essere gestito. In questa operazione non c’è protezione degli ebrei, ma tutela dell’ordine che rende un genocidio possibile. Non c’è memoria storica, ma amministrazione preventiva del dissenso. Non c’è “pietas”, ma una sua distribuzione selettiva, concessa dall’alto a condizione di non disturbare l’impunità.

L’editoriale igienico serve esattamente a questo: a ripulire la scena mentre il crimine continua, a educare la coscienza pubblica non a vedere di più, ma a indignarsi di meno.

Se davvero si vuole contrastare l’antisemitismo che ritorna, bisogna smettere di usarlo come detergente morale e cominciare a spezzare il circuito che trasforma un genocidio in sfondo e la sua denuncia in colpa. Finché quel circuito resta intatto, il sangue continuerà a essere “lontano”. E la coscienza, comodamente, “vicina”.

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Pasquale Liguori e' il curatore della versione italiana di:

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