Il ministro Zangrillo e il "lavoro figo"

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Il ministro Zangrillo e il "lavoro figo"

 

Al poco edificante campionato del tiro a segno contro il lavoro dipendente si iscrive – con l’ambizione di conquistare velocemente la vetta – un nuovo giocatore: nientedimeno che il Ministro della Pubblica Amministrazione Paolo Zangrillo, che se la prende, peraltro con la presunzione di esprimere la loro voce, con i dipendenti pubblici.

Con una serie di dichiarazioni dal tono surreale, il Ministro ha detto che “il mito del posto fisso sta per essere soppiantato dal mito del lavoro figo” perché “oggi i giovani non cercano la stabilità, cercano un virtuoso equilibrio tra l’attività professionale e la loro vita privata”; in definitiva, conclude il Ministro, “il mito del posto fisso lo lasciamo a Checco Zalone”.

Il Ministro ripropone in sostanza la favoletta per cui “I nostri giovani, quelli bravi e con talento, lasciano l’Italia perché hanno la sensazione che questo Paese non sia capace di valorizzarli”; al contrario, quelli che scelgono di restare, magari appunto lavorando in una qualche Pubblica Amministrazione, darebbero scarso valore ai diritti legati a una posizione lavorative stabile e a tempo indeterminato ma semplicemente “vogliono avere un lavoro che sia ben retribuito, capace di valorizzarli, che dia loro delle opportunità di crescita e che sia capace di bilanciare l’aspetto professionale con quello della vita privata”. Le due cose (un lavoro a tempo indeterminato e un salario decente) evidentemente sono inconciliabili nella mente del Sig. Ministro.

Lasciamo un attimo da parte l’odio che traspira da un ragionamento che, per quanto riguarda i dipendenti pubblici, si occupa unicamente di “giovani” (non meglio identificati), e che evidentemente considera i “non giovani” solamente come una zavorra che impedisce alla nostra pubblica di amministrazione di spiccare il volo. Allo stesso modo, sorvoliamo sul fatto che questo modo di ragionare riprende da vicino molte delle argomentazioni dei teorici del falso mito delle “grandi dimissioni”. Concentriamoci qui sul punto politico cui evidentemente tende un intervento come questo, e cioè uno scambio fra “diritti” (con una rinuncia – certa – a diversi istituti, primo dei quali sembrerebbe dover essere addirittura il tempo indeterminato) e “salario” (e ovviamente non si parla di salario di base, ma di una – assolutamente ipotetica – “crescita salariale attraverso il merito”).

Il Ministro non prova neanche ad argomentare razionalmente la necessità (ovviamente inesistente) di tale dicotomia, ma il punto è un altro: è forse vero che i più giovani entrati in questi ultimi anni nella pubblica amministrazione sarebbero così indifferenti all’aspetto dei diritti e interessati solo alla “possibilità di carriera” all’interno della PA?

La risposta ci viene da una recente indagine fra i neoassunti nella PA svolta dal sindacato USB. L’indagine mostra come gli intervistati siano ben capaci di non cadere in questo tranello. Infatti, le risposte evidenziano una forte insoddisfazione per gli stipendi nella PA (circostanza tanto più grave per quanti dopo un concorso sono costretti a spostarsi anche di molti km per andare a vivere in città come Roma e Milano dove il costo della vita è ormai fuori controllo), ma al tempo stesso ne esce un quadro in cui proprio l’aspetto del contratto a tempo indeterminato è uno degli aspetti decisivi nella scelta di orientarsi verso un impiego pubblico; e non c’è da sorprendersi, pensando che proprio le fasce più giovani sono quelle che negli ultimi anni hanno più sperimentato sulla propria pelle la precarietà del lavoro.

Insomma, e con buona pace del Ministro, molti neoassunti sono interessati a questi lavori proprio (anche) perché riconoscono nel pubblico impiego una delle poche aree in cui la parola lavoro è ancora associata a diritti. Associazione, peraltro, che anche nel settore pubblico diventa sempre meno sicura, considerato che le ultime riforme in tema di reclutamento introdotte dal precedente Ministro Brunetta hanno causato un’espansione anche nel settore pubblico dei contratti a tempo determinato, in particolare nei concorsi per il reclutamento delle figure funzionali al PNRR, salvo poi scoprire che tali concorsi andavano frequentemente parzialmente deserti proprio a causa del tempo determinato e conseguente precarietà offerti.

Ma, tornando allo scambio indecente salario/diritti proposto dal Ministro, c’è da dire anche un’altra cosa: non solo non c’è motivo per cedere di un millimetro sul tema dei diritti, ma c’è da stare bene attenti anche sul tema del salario, e non per incrementarlo, ma semplicemente per preservare il suo valore reale.

Un recente articolo del Sole 24 Ore infatti, sulla base delle stime sull’inflazione contenute nel DEF, ha valutato in 32 miliardi le risorse necessarie per garantire il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego per il triennio 2022-2024. E questo solamente per garantire un rinnovo in base all’indice IPCA, che come abbiamo visto in passato sottostima l’inflazione reale non considerando i prezzi dell’energia. Detto questo, l’articolo continua con due considerazioni, una condivisibile e una no.

Da un lato si fa notare che, poiché nel pubblico impiego si ha la cattiva abitudine di lavorare a contratto scaduto, e il contratto (che dura tre anni) viene firmato – quando va bene – al termine del triennio di riferimento, queste risorse equivalgono almeno in parte ad un salario reale (cioè un potere di acquisto) già perso. Quanto perso? Considerato che siamo a metà del triennio 2022-2024 almeno la metà dei 32 miliardi, ma probabilmente di più, considerato che il Governo nel DEF stima di aver scavallato il picco dell’inflazione, che come sappiamo ha picchiato duro in questi 18 mesi.

La seconda considerazione, inaccettabile, è quella con cui i giornalisti concludono seraficamente dicendo che 32 miliardi sono un sacco di soldi, troppi soldi, per cui è chiaro (secondo loro) che non ci potrà essere nessun adeguamento salariale sulla base di questi numeri. E questo, come sappiamo, è l’uso che ogni datore di lavoro fa dell’inflazione per ridurre il proprio costo del lavoro, a tutto vantaggio dei profitti (in caso di datore di lavoro privato) o perseguimento di una politica di austerità (per il datore di lavoro pubblico).

Insomma non solo il Governo, per voce del suo Ministro della Pubblica Amministrazione, pare deciso a incrementare la precarizzazione anche nel pubblico impiego, ma non ci sono buone notizie neanche sul fronte stipendi, considerato che dal DEF si evince chiaramente un futuro di tagli per la PA (a partire dalla sanità pubblica).

Attacco ai diritti, salari in discesa e meno servizi agli utenti: questo la pubblica amministrazione figa disegnata dal Ministro. Sarà una figata rispedire al mittente questo progetto.

Coniare Rivolta

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Collettivo di economisti 

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