Il fallimento degli scrittori italiani

Il fallimento degli scrittori italiani

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di Frank Iodice
 

Per uno che crea storie tutti i giorni e interpreta di continuo svariati ruoli nella sua mente, fare quello che fanno gli influencer, diciamo così, dal punto di vista stilistico, non è difficile. Basta fingere di essere un tuo personaggio, parlare come lui e fargli dire in un post le stesse cose che direbbe nelle pagine di un libro.

La strategia delle innumerevoli celebrità della rete è proprio questa: inventare un personaggio, interpretarlo ventiquattr’ore al giorno dietro uno schermo, e quando i follower arrivano a un numero considerevole, tirare fuori il libro.

Questa tattica di creare un personaggio e scrivere ciò che gli “amici” vogliono che scriva, sembra talmente facile da chiedersi perché non lo facciamo tutti. Se il mercato vuole sfrontati cazzeggiatori semianalfabeti con un bel culo e una bella parlantina, perché non inventiamo un personaggio del genere come se lo stessimo costruendo per un romanzo? La mia risposta – ma forse vale solo per me e per gli altri ce ne sono altre – è: la dignità. Per una questione di dignità, non riesco a fingere di essere qualcun altro per aggraziarmi gli editor delle grosse case editrici a caccia di follower. 

Parlo degli editor perché è questa la figura più vicina a un autore, colui che lo affianca e lo accompagna nella costruzione del libro. Gli editor devono vedersi passare sotto gli occhi tutti i santi giorni questi temini, poco più che letterine per Babbo Natale, e hanno la capacità di dare loro una forma accettabile. Le conseguenze sono due. La più evidente è la mancanza di spessore, di profondità, ma questa è la moda, si sa. E la seconda è che questi testi sono tutti uguali. Frasi cortissime. Continui a capo. Font molto grandi per riempire più pagine. Ormai non si sforzano neanche di sostituire tutte quelle x e quei cmq col pretesto di offrire ai lettori il vero linguaggio dei giovani. 

Ma non sarebbe stato meno faticoso continuare a fare gli editori veri? Scartare questa roba e promuovere letteratura alta, coraggiosa, se ancora esiste? La crisi della lettura di cui si parla è la causa di queste proposte impensabili qualche decennio fa, o ne è la conseguenza? 

Un’altra domanda: perché ai divi del web riesce così bene immedesimarsi in questi personaggi idioti e popolari mentre noialtri non ci riusciamo? Una spiegazione superficiale è che gli influencer sono davvero degli idioti. Un’altra spiegazione meno superficiale è che gli idioti siamo noi e questi casi editoriali a cui assistiamo di continuo sono la dimostrazione del nostro totale fallimento.

Sulle copertine sono ritratti i loro faccini o il loro bel corpo, ancora una volta mercificato, offerto in pasto a un popolo di perpetui arrapati (e forse tutto ruota attorno a questo). E in mano, questi ragazzi hanno quasi sempre il loro smartphone. Avrebbero potuto fingere di sfogliare a loro volta un libro, magari Proust, Italo Calvino, almeno una copia dei Promessi Sposi, che per la scuola devono aver comprato. 

Dopo aver rivestito per secoli un ruolo educativo, il libro sta assumendo un atteggiamento diseducativo. Ma anche le istruzioni per il funzionamento di una sedia elettrica devono essere scritte in un libro, o i cataloghi delle armi da fuoco, o i romanzi copiati da altri romanzi. Tanta immondizia ha la forma di un libro. Ciò basterebbe a consolarci. La mia paura però è che questa tendenza a demolire il ruolo pedagogico dei libri, con sfrontatezza, continui a crescere. 

Gli editori sono commercianti, alcuni più degli altri, e in questo senso sono commercianti geniali perché hanno capito come restare a galla arruffianandosi un target mediocre a cui offrono prodotti mediocri. I diretti interessati, con l’adolescenziale inconsapevolezza di chi scrive per il successo e non per altre ragioni profonde, danno vita a un mostro difficile da gestire, a meno che non abbiano una forte interiorità.

È una questione molto complessa e a guardarla bene è anche molto squallida. La mia critica non è rivolta agli autori di questo tipo di libri. Né tantomeno è una critica alla narrativa commerciale che è sempre esistita. Ma al meccanismo pubblicitario fuorviante del grosso gruppo editoriale dominante che ne trae profitto. Oggi non vale più il principio “bello-buono-ne ho bisogno-mi piace-lo compro” ma “stupido-io sono meglio di lui-lo compro”.

Sarebbe tutto più corretto se si facesse maggiore chiarezza, se non si scrivesse “romanzo” su un libro di un influencer ma, per esempio, “agenda”, “album”. Farebbe bene anche agli autori. Sono gli stessi influencer a mettere le mani avanti e ammettere con auto ironia che il loro libro non nasce con ambizioni letterarie. Ecco un esempio: 

“Bene, finalmente abbiamo l’occasione di fare qualcosa di bello, unico e importante, scrivere un libro. Davvero fantastico… Se soltanto sapessimo come si fa!” 

Questi ragazzi in fondo fanno ciò che tutti abbiamo fatto: cercare il loro posto nel mondo. E non avendo altri modelli, lo fanno con i mezzi offerti dal web. Sono le prime vittime inconsapevoli di queste operazioni commerciali. Infatti non sono loro il più delle volte a bussare alla porta delle case editrici, ma avviene il contrario.

Internet è una rappresentazione del mondo, un parallelismo infinito. Parlare dei fenomeni che la riguardano equivale a parlare del mondo stesso e non è possibile, o meglio, non è possibile in così poco tempo. Perché, mentre sto scrivendo queste righe, qualcuno starà già studiando una nuova trovata commerciale per trasformare in autore di bestseller la nuova vittima sacrificale di questa macchina perfetta e diabolica di pura vanità. 

La mia preoccupazione, in tutta questa faccenda, riguarda lo sconvolgimento della lingua su larga scala, di quei cambiamenti che poi diventano “canoni” (che brutta parolaccia). La lingua è qualcosa di vivo, in continua evoluzione. Nei prossimi decenni forse l’idea di letteratura continuerà a trasformarsi, a subire il peso del mercato. Anche in altri campi dell’editoria avviene lo stesso scempio: gli articoli di giornale sono sempre più corti, le immagini prendono sempre più il sopravvento sulla parola, e la parola stessa è usata in maniera superficiale. Se nei programmi scolastici in futuro si sostituisse Moravia con Favi deejay o Lalla Romano con Giulia De Lellis, sarebbe un peccato. Ed è mio dovere, se voglio fare onestamente questo mestiere, far porre ai lettori domande del genere. Di conseguenza, coloro che pubblicano o lavorano per certe case editrici (o sognano di farlo) vorranno difenderle e diranno adesso che per i loro figli non fa differenza leggere Moby Dick o Le corna stanno bene su tutto. Ma li capisco, fa parte del gioco.

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