Il conflitto in Ucraina e gli oligarchi statunitensi
RICEVIAMO DA FOSCO GIANNINI, DIRETTORE DI CUMPANIS, E CON GRANDE PIACERE RILANCIAMO...
di Federico Fioranelli*
Solamente la mancanza di adeguati strumenti interpretativi o una lettura superficiale della realtà possono portare a credere alla versione che ci viene fornita dai principali canali di informazione del nostro Paese e a non capire che il conflitto in Ucraina affonda le proprie radici nell’economia di guerra permanente degli Stati Uniti e nella natura oligarchica del capitalismo statunitense.
Gli Stati Uniti hanno un sistema di capitalismo che è possibile definire “oligopolistico”. Esso è un sistema che non rispetta i principi della concorrenza perfetta e che poggia sulle corporation, vale a dire sulle grandi e grandissime imprese.
Dato che le grandi corporation sono in grado di imporre il prezzo di vendita dei loro prodotti, negli Stati Uniti i prezzi tendono ad essere più rigidi verso il basso che verso l’alto e il soprappiù economico, cioè la differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per produrlo, tende ad aumentare nel tempo sia in cifra assoluta sia come quota della produzione complessiva.
Tuttavia è evidente che, pur avendo la tendenza a generare quantità sempre maggiori di sovrappiù economico, un sistema di capitalismo oligopolistico non riesce sempre a creare gli sbocchi di consumo e d’investimento necessari per assorbirli. Ne consegue che un sistema di questo tipo sia caratterizzato da crisi e dalla tendenza a cadere nella stagnazione. Infatti, il mancato assorbimento del sovrappiù economico crea un vuoto di domanda che rende potenziali e non reali i profitti, genera perdita di reddito e impedisce la piena utilizzazione del lavoro e degli impianti produttivi.
Per assorbire il sovrappiù economico, quindi, gli operatori pubblici e privati mettono in campo delle politiche che mirano a stimolare la domanda effettiva.
Il primo modo per stimolare la domanda effettiva, portandola al livello delle quantità prodotte, consiste nella promozione delle vendite e nella manipolazione dei consumi attraverso la pubblicità, la moda, la creazione di nuovi bisogni o l’introduzione di nuovi mezzi di distinzione sociale.
Il secondo è rappresentato dalla spesa pubblica. Infatti, anche lo Stato può intervenire per creare domanda aggiuntiva e trovare sbocchi al sovrappiù economico, evitando in questo modo il crollo del reddito e dell’occupazione.
La spesa pubblica viene suddivisa fondamentalmente in due componenti: le spese civili, che comprendono tutti gli acquisti di beni e servizi a scopi civili da parte dell’amministrazione pubblica, e le spese militari, che annoverano invece tutti gli acquisti di beni e servizi per scopi militari meno le vendite di articoli militari.
Ovviamente il contributo diretto di uno Stato al funzionamento e al benessere della società è quasi per intero compreso nelle spese civili: qui troviamo pubblica istruzione, viabilità, sanità, conservazione delle risorse naturali e culturali, attività ricreative, edilizia e pubblica sicurezza.
Tuttavia, basta ripercorrere la storia degli Stati Uniti partendo dall’evento interno più drammatico del Ventesimo secolo, vale a dire la grande depressione seguita al crollo di Wall Street del 1929, per comprendere che la componente della spesa pubblica privilegiata dai governi che si sono succeduti non è stata certamente quella a fini civili.
Tra il 1929 e il 1933, negli Stati Uniti, il Pil si dimezzò e i prezzi diminuirono di oltre un quinto. Gli investimenti subirono un autentico crollo, aggravato dal fallimento a catena di un gran numero di banche e imprese. Il crollo degli investimenti fece sì che la disoccupazione raggiungesse livelli senza precedenti (nel 1933 il tasso di disoccupazione arrivò addirittura al 24,9%).
Così, tra il 1933 e l’entrata nella seconda guerra mondiale, il presidente Roosevelt mise in campo una serie di misure economiche che presero il nome di “New Deal” e a cui la “Teoria generale” di Keynes contribuì a fornire una cornice teorica. L’esperimento del New Deal si contrappose al principio economico del “laissez-faire”, secondo il quale lo Stato deve intervenire il meno possibile in campo economico, evitare di interferire con i meccanismi della libera impresa e limitarsi a un’oculata politica finanziaria, imperniata sull’obiettivo di un bilancio pubblico in pareggio.
Di fronte alla gravità e all’ampiezza della crisi, il governo ritenne quindi necessario aiutare le classi più deboli ed intervenire con opere pubbliche e operazioni di salvataggio di imprese di ogni tipo e dimensione. Nel 1935 le aliquote per i redditi più elevati vennero portate dal 63% al 75%. La spesa pubblica complessiva passò dagli 11,7 miliardi di Dollari nel 1929 (9,9% del Pil) ai 19 miliardi nel 1939 (17,8% del Pil), un aumento di oltre il 60%. La voce della spesa pubblica che venne privilegiata fu quella civile, che passò, in rapporto al Pil, dal 7% all’11,2%.
Il New Deal si rivelò tuttavia una grandissimo fallimento perché l’obiettivo di superare la crisi economica non venne raggiunto. Se il Pil diminuì del 12,4% tra il 1929 e il 1939, la disoccupazione, in percentuale della forza-lavoro, passò dal 3,2 al 17,2 per cento. Nel 1939 negli Stati Uniti c’erano ancora quasi 10 milioni di disoccupati.
Il New Deal non riuscì a raggiungere l’obiettivo di riportare l’economia a un livello di piena occupazione del lavoro e degli impianti produttivi a causa dell’entità della spesa pubblica sostenuta e della struttura di potere del sistema capitalistico statunitense. Infatti, nonostante il New Deal non si fosse tradotto in alcuna redistribuzione radicale del reddito, nel 1939 l’aumento della spesa pubblica civile aveva raggiunto i limiti individuati dai particolari interessi dell’oligarchia, composta principalmente all’epoca dai dirigenti delle grandi corporation.
Per ogni voce di spesa pubblica civile esiste una cifra minima che incontra l’approvazione generale e non suscita un’apprezzabile opposizione. Però, non appena si supera questa cifra, l’approvazione di ulteriori incrementi comincia a diminuire e l’opposizione dei potenti interessi costituiti si intensifica fino a raggiungere una posizione di equilibrio dove l’ulteriore espansione si arresta. I limiti vengono imposti sia quando l’aumento della spesa pubblica civile determina una situazione di concorrenza nei confronti dell’iniziativa privata (un esempio è l’edilizia pubblica) che quando attacca la posizione di privilegio dell’oligarchia stessa (due esempi: istruzione e sanità).
Dopo la duplice scossa della depressione e del New Deal, a risolvere i problemi per gli Stati Uniti furono la guerra e la spesa pubblica militare. L’aggressione giapponese a Pearl Harbour fu provvidenziale a tal punto che non è del tutto sbagliato pensare che essa fosse il frutto di provocazioni e di sottili manovre americane per favorire l’entrata in guerra degli Stati Uniti stessi.
In pochi mesi, la crisi venne risolta e la disoccupazione quasi riassorbita: da 9.480.000 (il 17,2% della forza lavoro) del 1939 i disoccupati scesero a 8.120.000 nel 1940 e a 5.560.000 nel 1941. Nel 1944 rimasero soltanto 670.000 disoccupati e il tasso di disoccupazione scese all’1,2%.
Se il Pil aumentò del 120% tra il 1940 (101,4 miliardi di Dollari) e il 1945 (223,1 miliardi di Dollari), la spesa pubblica passò, in rapporto al Pil, dal 17,5% del 1940 al 51,8% del 1945. La componente che venne fortemente privilegiata fu quella militare, che passò, in rapporto al Pil, dal 2,2% al 42%. La spesa pubblica civile addirittura scese dall’11,2% del 1940 al 6,8% del 1945.
Non fu la distruzione di capitali altrui a riavviare l’economia ma la spesa pubblica militare: la ripresa avvenne infatti prima della vittoria, prima di aver distrutto i capitali degli altri e di aver loro sottratto i mercati. Certamente poi la vittoria assicurò agli Stati Uniti un ulteriore importante vantaggio perché consentì loro di dominare i mercati, le risorse e i campi di investimento.
Perché l’oligarchia, che tiene così rigidamente a freno la spesa pubblica civile, è invece tanto di manica larga con la spesa pubblica militare al punto da incoraggiarne la continua espansione?
La spiegazione va individuata nel fatto che, a differenza della maggior parte delle attività destinate a soddisfare i bisogni collettivi, le attività pubbliche nella sfera militare non implicano né concorrenza con gli interessi privati né danno ai privilegi dell’oligarchia. La spesa militare, a differenza di quella civile, non redistribuisce reddito e non altera la struttura dell'economia. Anzi, la creazione di un gigantesco apparato militare è compatibile con l’accumulazione e la creazione dei profitti: le grandi corporation la considerano una forma desiderabile di intervento governativo in quanto ricevono sussidi governativi e contratti lucrativi dal Pentagono per le forniture militari.
Inoltre una cospicua spesa militare contribuisce a rafforzare nella società l’ideologia dominante e a creare l’atmosfera nella quale l’oligarchia sente che la sua autorità morale e la sua posizione materiale sono sicure. Infatti tale tipologia di spesa, concorrendo a determinare un rispetto cieco per l’autorità e ad imporre una condotta di conformismo e di sottomissione, favorisce la militarizzazione e quindi tutte le forze reazionarie presenti nella società mentre ostacola tutto ciò che è progressista e rivoluzionario.
Quindi, se l’oligarchia, cioè la principale fonte di mezzi finanziari e di potere politico, è pienamente favorevole ad una continua espansione della spesa militare, è evidente perché il sistema capitalistico degli Stati Uniti, per creare domanda aggiuntiva attraverso la spesa pubblica ed evitare così il crollo del reddito e dell’occupazione, cerchi e trovi risposta nel campo della spesa militare e non in quello della spesa civile.
Gli Stati Uniti uscirono dalla seconda guerra mondiale come la potenza militare ed economica dominante a livello planetario. Dal punto di vista economico, erano di gran lunga il più ricco Paese del mondo: alla fine degli anni Quaranta, con il 6% della popolazione mondiale, producevano da soli la metà di tutti i beni prodotti nel mondo e detenevano due terzi delle riserve mondiali di oro. Nel 1950, il reddito pro capite americano era una volta e mezzo superiore a quello del Regno Unito, più del doppio rispetto a quello francese e più di tre volte quello italiano.
L’esperienza della seconda guerra mondiale e la valutazione favorevole da parte dell’oligarchia americana della necessità di un enorme apparato militare in un’economia di guerra segnarono profondamente la successiva gestione dell’economia da parte degli Stati Uniti al punto che, dopo essere entrati in guerra nel 1941, tra guerre calde e fredde non ne uscirono più. Repubblicani e democratici furono d'accordo nel ritenere che, poiché una loro diminuzione avrebbe comportato il rischio di un ritorno in quella depressione alla quale solo la seconda guerra mondiale aveva posto fine, fosse necessario continuare ad incrementare le spese militari.
La giustificazione per l’incremento delle spese militari da parte del governo americano, nel periodo postbellico, venne offerta dall’ascesa dell’Unione Sovietica, un sistema economico socialista antagonista e alternativo a quello capitalistico, mentre la base razionale all’illimitata espansione dell’apparato militare venne costruita dai creatori della pubblica opinione, che portarono avanti la tesi che bisognava essere pronti a difendere il “mondo libero” da un’aggressione militare sovietica.
In verità, questa minaccia, che permise agli Stati Uniti di portare la spesa pubblica militare dai 22,8 miliardi di Dollari del 1947 ai 343,2 del 1989, non era militare bensì economica, politica ed ideologica. L’ostilità del capitalismo statunitense per l’esistenza di un sistema mondiale socialista rivale derivava principalmente dal fatto che l’affermazione del socialismo in un Paese si poteva tradurre nella riduzione o nell’abrogazione dei privilegi, per esempio in materia di imposte e di lavoro, di cui godevano le multinazionali in quei territori. Quindi, gli Stati Uniti erano soprattutto preoccupati per il fatto che, pur non costituendo una minaccia militare, l'esempio sovietico poteva esercitare una forte attrazione sulle classi subalterne di tutto il mondo.
Con la scomparsa dell’Unione Sovietica, hanno preso forma nuove minacce che sono servite a giustificare altri interventi armati (Iraq, Somalia, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Afghanistan, Libia, Siria) e una spesa pubblica militare in continua espansione.
L’attuale suddivisione del mondo, tracciata da Biden, tra “Paesi democratici” e “Paesi autocratici” serve proprio a colmare il vuoto lasciato dalla guerra fredda, a tenere viva la tensione internazionale e a spiegare il potenziamento dell’apparato militare degli Stati Uniti e dei loro alleati. La cosa crea inevitabilmente non pochi problemi ai media, costretti ad enfatizzare o a costruire nemici dalle capacità apocalittiche.
Ma chi sono oggi i principali nemici del capitalismo statunitense? E, soprattutto, come si inserisce in tutto questo il conflitto in Ucraina?
Le principali minacce al capitalismo e all’oligarchia degli Stati Uniti sono certamente oggi costituite dal socialismo di mercato cinese e dal capitalismo di Stato russo. Solo la loro presenza può giustificare una spesa pubblica militare che, per gli Stati Uniti, si avvicina al 4% del Pil ed è costituita nel 2022 da 282 miliardi di Dollari.
La guerra in Ucraina serve, invece, agli Stati Uniti a regolare i conti con la Russia e con Putin.
Essa è infatti la conseguenza delle provocazioni che gli Stati Uniti (e la Nato) hanno messo in atto nei confronti della Russia negli ultimi vent’anni, da quando Putin ha mostrato al mondo che non aveva nessuna intenzione di seguire Boris Eltsin nella svendita del Paese alle multinazionali.
Non sono forse provocazioni l’ingresso nella Nato di Paesi che facevano parte del Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica, le installazioni di missili Nato nei Paesi dell’Europa orientale, il progetto di ingresso dell’Ucraina nella Nato o le esercitazioni militari della stessa Ucraina con la Nato?
Certamente, nella trappola che gli Stati Uniti hanno congegnato per la Russia è finita anche l’Europa. Infatti, i Paesi europei, in particolare quelli che fanno parte della Nato, dovranno portare le spese per la difesa al 2% del Pil, comprando ovviamente più armi e aerei da caccia Usa, rompere ogni rapporto con la Russia e sostituire le importazioni di gas russo con quello americano. Tutto a beneficio delle multinazionali Usa che operano nel settore della difesa (Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin, Northrop Grumman, Raytheon) e di quelle che esportano gas liquefatto (Cheniere Energy, Dominion Energy, Freeport LNG, Sempra, Tellurian, Venture Global LNG).
Il conflitto in corso in Ucraina logora Putin e arricchisce le corporation americane. È chiaro, quindi, che l’oligarchia americana ha tutto l’interesse a farlo durare il più possibile.
Oltre alla promozione delle vendite e alla spesa pubblica, vi sono infine altre due modalità per stimolare la domanda effettiva ed assorbire il crescente sovrappiù economico.
Una è rappresentata dalla finanza. Infatti, le imprese, nel tentativo di risolvere i problemi di realizzazione, possono indirizzare una parte crescente del prodotto dello sfruttamento verso le attività finanziarie.
Dato che questo tipo di attività non produce beni ma trasforma denaro in altro denaro senza l’intermediazione della fase di produzione, la crescita negli Stati Uniti della spesa delle imprese per le attività finanziarie, a partire dagli anni Ottanta, ha messo in moto un processo di finanziarizzazione dell’economia, ha condotto ad una crescita incredibile dei mercati finanziari, che sono totalmente slegati da qualsiasi produzione reale, e ha spostato il centro del potere dai consigli di amministrazione dei grandi gruppi industriali ai vertici delle banche e delle società finanziarie. In questo modo, i manager delle banche e delle società finanziarie sono entrati a pieno titolo nell’oligarchia finanziaria, aggiungendosi ai capitalisti dei grandi gruppi industriali.
L’altra modalità per stimolare la domanda effettiva, che negli Stati Uniti ha preso corpo durante la presidenza Reagan ed è divenuta dominante nei primi anni Duemila fino allo scoppio della crisi del 2007-2008, si fonda sull’indebitamento privato, in particolare quello delle famiglie.
Essa è il risultato della politica monetaria espansiva da parte della Federal Reserve, una politica di denaro facile che spinge, grazie ai bassi tassi di interesse, anche i lavoratori con bassi salari ad indebitarsi per reperire risorse finanziarie ed incrementare così i consumi privati. È una tipologia di politica economica perfettamente compatibile con gli interessi privati dell’oligarchia: pur non modificando la struttura dell'economia e non redistribuendo il reddito, essa spinge comunque le classi più povere a consumare, colmando così i vuoti di potere d’acquisto che altrimenti sfocerebbero in una grande crisi di domanda effettiva e impedirebbero la realizzazione dei profitti.
Dunque, la riflessione sulle modalità, attraverso le quali il sistema capitalistico statunitense risolve i problemi di realizzazione, ci permette di capire perché il governo statunitense è obbligato a tenere viva la tensione internazionale e che le guerre non hanno soltanto lo scopo di mettere le mani sui mercati e le risorse altrui.
Tutti gli esponenti dei due partiti politici statunitensi sono perfettamente consapevoli di questo. Sanno anche che l’azione politica di chi assume la guida degli Stati Uniti deve essere compatibile con gli interessi della principale fonte di mezzi finanziari e di potere politico, vale a dire l’oligarchia.
Invece, nel nostro Paese, l’élite intellettuale di sinistra, che ama definirsi “atlantista” ed “europeista”, non ha ancora maturato questa consapevolezza.
* Docente di materie economiche e giuridiche, editorialista di "Cumpanis"