Giacomo Gabellini - La traiettoria insostenibile del debito Usa
Alla fine del secondo trimestre del 2024, il debito federale degli Stati Uniti ha raggiunto i 34.831 miliardi di dollari, a fronte dei 32.332 registrati nello stesso periodo del 2023. Si tratta di un incremento su base annua pari a circa 2.500 miliardi. L’intero debito pubblico italiano, in confronto, assomma circa 2.900 miliardi di euro. Della colossale massa debitoria accumulata, poco più di 27.000 miliardi di dollari è considerata marketable, rientrante cioè nella categoria dei titoli negoziabili sul mercato. Di questi, oltre 14.000 miliardi sono costituiti da titoli da due a dieci anni (Notes), più di 5.800 miliardi da titoli da un anno o meno (Bills), circa 4.500 miliardi da titoli trentennali (Bonds), poco più di 2.000 miliardi da titoli indicizzati all’inflazione da cinque, dieci o trent’anni (Treasury Inflation Protected Securities) e poco meno di 600 miliardi da titoli biennali fluttuanti (Floating Rate Notes).
La relativamente scarsa rilevanza rivestita dai titoli a lunga scadenza sul totale pone di fronte alla classe dirigente statunitense un grosso e costante problema di rifinanziamento del debito in scadenza, in un contesto di crescita astronomica e apparentemente inarrestabile della massa debitoria complessiva. Anche perché oltre 8.000 miliardi di dollari dei titoli negoziabili sono riconducibili a soggetti esteri, con particolare riferimento agli investitori istituzionali che stanno gradualmente soppiantando le Banche Centrali. A differenza di queste ultime, generalmente inclini ad approvvigionarsi di titoli statunitensi per questioni di affiliazione geostrategica e/o in un’ottica di salvaguardia dei propri attivi commerciali, fondi pensione, fondi di investimento ed hedge fund sono mossi unicamente da interessi speculativi. Cosa che li induce ad acquistare titoli statunitensi in forza della loro redditività, garantita dagli alti tassi di interesse applicati dalla Federal Reserve da oltre due anni a questa parte. Per le stesse ragioni, il loro orientamento muterebbe radicalmente in presenza di un abbassamento dei tassi, reso particolarmente impellente dalla entità assolutamente stratosferica raggiunta dall’ammontare della spesa per il pagamento degli interessi sul debito, destinata a raggiungere i 1.200 miliardi di dollari al termine dell’anno fiscale in corso. Una somma colossale, incrementata di 2,6 volte rispetto al 2021 e attualmente pari al il 13,5% del bilancio federale, inferiore soltanto all’esborso cumulativo di Medicare e Medicaid (1.700 miliardi ) e dei programmi previsti dalla Social Security (1.500 miliardi), ma nettamente superiore all’intero budget del Pentagono (817 miliardi di dollari).
Nel primo trimestre del 2024, l’economia statunitense ha registrato una crescita pari all’16% del Pil, circa un punto in meno rispetto alle previsioni, a fronte di un aumento annualizzato dell’inflazione ha raggiunto pari al 3,7%, il 2% in più del quarto trimestre del 2023. Dati preoccupanti, che hanno indotto la Federal Reserve a posticipare il già pianificato taglio dei tassi di interesse al trimestre successivo, quando la crescita si è rivelata superiore alle attese (2,8% contro il 2%) e l’inflazione è cresciuta in linea con le previsioni (2,9% contro 2,7%). Il taglio del tasso di riferimento dello 0,25% ad opera della Fed è quindi giunto soltanto a fronte di statistiche relativamente incoraggianti, ma soprattutto a seguito del duro editoriale pubblicato dal «Financial Times» in cui si evidenziava come il livello colossale raggiunto dal debito federale statunitense fosse ormai divenuto il vero e proprio “elefante nella stanza”, noto a chiunque ma di cui nessuno intende parlare apertamente. Nel pezzo in oggetto, la prestigiosa pubblicazione londinese, testata di riferimento della City, richiama le valutazioni
formulate in precedenza da Phillip Swagel, che in qualità di direttore del Congressional Budget Office ha affermato che il crescente onere fiscale degli Stati Uniti sta ormai seguendo una traiettoria “senza precedenti”, rischiando di innescare una crisi paragonabile a quella scaturita in Gran Bretagna dalla “reazione di mercato” (impennata degli interessi sui titoli di Stato e tumulti sui mercati finanziari) alle proposte fiscali presentate dal governo di Liz Truss nel 2022. Le stime del Congressional Budget Office indicano che il rapporto debito/Pil degli Stati Uniti supererà il picco massimo del 106% toccato durante la Seconda Guerra Mondiale entro la fine del decennio, per poi continuare a salire. Si prevede inoltre che il deficit sarà in media del 5,5% del Pil fino al 2030, circa 2 punti percentuali in più rispetto alla media post-1940, e che i pagamenti netti per interessi, che attualmente si aggirano intorno al 3% del Pil, continueranno a salire.
Per Swagel, gli Stati Uniti «non sono ancora arrivati» al punto critico toccato dalla Gran Bretagna, ma il mantenimento di tassi elevati avrebbe inesorabilmente suscitato una reazione “di mercato” comparabile a quella che provocò la caduta del governo di Liz Truss. Il «Financial Times» pone l’accento sulla necessità urgente di un intervento da parte del Congresso, prima che «i trader, presi dal panico, non costringano i legislatori statunitensi a farlo».